giovedì 18 marzo 2010

IL DECLINO ITALIANO

Dieci anni fa, passato il capodanno del 2000, fugata l'infondata inquietudine per il «baco del millennio» che avrebbe dovuto far saltare i sistemi informatici di mezzo mondo, l'ottimismo segnava gli sguardi sul futuro. La crescita della finanza moltiplicava le rendite, la «new economy» negli Stati uniti moltiplicava prodotti e servizi; l'Italia, disciplinata dalla cura dimagrante per l'entrata nell'Unione economica e monetaria europea - tagli di spesa pubblica, riduzioni di debito, privatizzazioni - aspettava la propria fetta di benessere.
Dopotutto il reddito pro capite (dati Ocse per il 1999 a parità di poteri d'acquisto) superava quello di Francia e Gran Bretagna e si era avvicinato molto a quello tedesco, appesantito dagli effetti dell'unificazione con l'est. Qualcuno - il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio nella sua Relazione del 2001 - parlava di «nuovo miracolo italiano».
La realtà ci ha riservato una sorpresa diversa: la crisi finanziaria e la recessione più grave dagli anni trenta. Il prodotto interno lordo (Pil) dell'Unione europea è caduto del 4,3% nel terzo trimestre 2009 sullo stesso periodo del 2008, negli Stati uniti è calato del 2,3%, ovunque la disoccupazione si avvicina al 10%. In Italia siamo scivolati del 4,6% ed è da un anno e mezzo che l'economia peggiora rispetto all'anno precedente: con questo avvitamento il Pil italiano in termini reali è ora tornato al livello che aveva otto anni fa, all'inizio del 2001.
Ma alziamo gli occhi da dove siamo caduti, guardiamo all'insieme del decennio. Il Pil (in termini reali, senza gli effetti dell'aumento dei prezzi) è cresciuto in totale del 10% e il reddito per abitante del 4,5: in dieci anni l'Italia ha avuto lo sviluppo che la Cina registra in un solo anno. Con il Pil che cresce così poco, alcune voci sono rimaste ferme: i consumi per abitante sono saliti di appena l'1,3% nell'intero decennio. Ancora peggio è andata per gli investimenti in macchinari, quelli che alimentano le possibilità di sviluppo: nel decennio sono diminuiti del 9,8% e, se li rapportiamo alla popolazione, la caduta è stata del 14,5% (mentre si sono gonfiati gli investimenti immobiliari). Le imprese hanno rinunciato a sviluppare le capacità produttive e rispetto a dieci anni fa la produttività del lavoro è rimasta immutata (è addirittura diminuita ogni anno in tutti i settori tra il 2000 e il 2004, secondo le «Misure della produttività» dell'Istat). Non è stato sempre così, ancora nel decennio degli anni novanta la produttività era cresciuta del 20%.
Il ristagno della produttività è il risultato di una crescita lenta e parallela sia del prodotto che dell'occupazione: nel decennio si sono aggiunti circa due milioni di posti di lavoro dipendente, ma tutti per lavoratori a termine, con quote crescenti di donne e lavoratori immigrati (ricordiamoci delle 800 mila «badanti» al lavoro in Italia). Nel frattempo si indeboliva l'industria, con il valore della produzione immutato nel decennio, i dipendenti manifatturieri diminuiti dell'8,8%, quelli delle grandi imprese (più di 500 addetti) del 18%. La precarizzazione del lavoro e lo spostamento verso settori a bassa produttività hanno avuto effetti pesanti anche sulla dinamica dei salari.Abbiamo così disegnato il primo circolo vizioso che segna il nostro sistema produttivo. Le imprese riducono gli investimenti, non aumentano la produttività e provano a restare competitive sui mercati internazionali attraverso riduzioni di costi e salari e precarizzazione del lavoro. Di conseguenza i consumi non crescono; con investimenti in calo, e una spesa pubblica anch'essa congelata, la domanda si affida soltanto alla crescita delle esportazioni, che a sua volta è fortemente limitata da una produttività immobile. Il risultato è che la domanda non cresce e con essa ristagna la produzione.
Se questa è la vicenda dell'economia aggregata, altri meccanismi del ristagno italiano vengono fuori da come si distribuisce il reddito nazionale. Rendite finanziarie e profitti hanno aumentato la loro quota sul Pil, a danno di salari e stipendi. Come i dati dello «scudo fiscale» sui capitali esportati illegalmente mostrano oggi, una parte importante di rendite e profitti ha preso la strada di speculazioni all'estero, riducendo le risorse per gli investimenti delle imprese; queste, poi, hanno privilegiato i nuovi impianti produttivi all'estero - Europa dell'est soprattutto - riducendo le capacità produttive nazionali: è così che la Fiat produce oggi più auto in Polonia e in Brasile che non in Italia (altre analisi si trovano sul sito http://www.sbilanciamoci.info/).
Se guardiamo ai redditi degli italiani (dati Banca d'Italia), il venti per cento più ricco della popolazione otteneva nel 2000 il 44% del reddito disponibile, mentre al venti per cento più povero rimaneva appena il 6% del totale. Nel primo decennio del duemila queste distanze sono ancora aumentate e si sono aggravate quelle tra lavoratori dipendenti e autonomi. I dati Istat mostrano redditi individuali netti da lavoro nel 2006 di quasi 16mila euro per i lavoratori dipendenti e di appena 13.200 euro per i lavoratori autonomi; gli operai sono sotto i 15mila euro, mentre i liberi professionisti non arrivano a 29mila euro l'anno. Oltre alle disparità sociali, ci sono i segni qui di un'evasione fiscale di grandi proporzioni da parte dei lavoratori autonomi, che porta un'ulteriore distorsione nella distribuzione del reddito.
Salari fermi, lavori peggiori e precari spingono in basso i salari e i redditi dell'80% degli italiani; finanziarizzazione e liberalizzazione per i capitali, stipendi d'oro per i manager ed evasione fiscale spingono in alto i redditi dei pochi ricchi. Gli effetti dell'impoverimento si fanno sentire subito: nel 2007 un terzo delle famiglie italiane (e quasi la metà al Sud) dichiara di non riuscire ad affrontare una spesa imprevista di 700 euro e due terzi (quattro quinti al Sud) non è riuscita a risparmiare nulla del proprio reddito.
Le cattive notizie, purtroppo, non sono finite. Un terzo circolo vizioso riguarda finanza pubblica e apertura internazionale, analizzato con lucidità nel volume di Marcello De Cecco Gli anni dell'incertezza (Laterza, 2007, dove sono raccolti i suoi articoli per Repubblica). Nel 2009, per la prima volta, le entrate tributarie hanno registrato un calo in valore assoluto (causa recessione ed evasione), portando il disavanzo pubblico al 5% del Pil. Il deficit viene finanziato con nuovo debito pubblico: il rapporto debito/Pil è ora al 115% del Pil e dovrebbe salire al 125% nel 2010 (nel 2008 era il 106%).
Siamo tornati più o meno al livello di quindici anni fa, all'avvio dell'Unione monetaria europea, quando ci siamo impegnati col Trattato di Maastricht a far scendere rapidamente lo stock del debito pubblico al 60% del Pil. Quindici anni di tagli alla spesa, «riforma» delle pensioni, privatizzazioni, «federalismo» fiscale non hanno lasciato traccia. In più, i creditori sono cambiati; nonostante l'alta propensione al risparmio del paese, oltre la metà del debito pubblico italiano è ora nelle mani di investitori stranieri, che, non appena si manifestano segnali di crisi, spingono al rialzo i tassi d'interesse, aggravando conti pubblici e conti con l'estero. E' il problema già scoppiato negli altri paesi della «periferia» europea di cui si parla qui accanto. Tra il 2007 e il 2010 il rapporto debito/Pil è destinato a crescere dal 25 all'80% per l'Irlanda, dal 36 al 62% per la Spagna, mentre Grecia (e Belgio) avranno nel 2010 un rapporto superiore al 100%.
La debolezza del sistema produttivo, la redistribuzione dai poveri ai ricchi, il peso della finanza e la minaccia del debito si intrecciano nel disegnare la traiettoria del declino italiano. Se avete la sensazione di essere diventati più poveri, più indebitati e più precari di dieci anni fa, ebbene, le cifre vi danno ragione.


di Mario Pianta, da Il Manifesto

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua