mercoledì 28 aprile 2010

Vogliono prendersi tutto - Rispondiamo con il conflitto

Nel 1970 Alfredo Bandelli scrisse una canzone famosa sulle lotte operaie di Mirafiori, intitolata “la ballata della Fiat”. In quella canzone inserì il fatidico verso: Cosa vogliamo! Vogliamo tutto! Bandelli non firmava le sue canzoni, che recavano l’indicazione “parole e musica del proletariato”. Quarant’anni dopo, Italia 2010, a gridare “vogliamo tutto!” sono gli industriali; le parole sono di Emma Marcegaglia, la musica di Berlusconi e dei suoi zelanti ministri.
Confindustria, diceva Gianni Agnelli, è sempre filogovernativa. Preso quindi atto della vittoria del centrodestra nelle elezioni regionali, 6000 industriali si sono riuniti a Parma per stilare la loro lista della spesa e consegnarla al governo. Cosa chiedono i signori industriali? Poca roba, in fin dei conti. Chiedono libertà di licenziare; chiedono più liberalizzazioni (leggi privatizzazioni); chiedono soldi per la ricerca, considerata la nota allergia delle imprese italiane a investire in questo settore; chiedono che si rilancino le colate di cemento sbloccando 10 miliardi di euro per le cosiddette grandi opere. Chiedono che ci si spicci col ritorno al nucleare, e se per caso le Regioni si dimostrassero poco ansiose di ospitare le centrali, che si proceda con le maniere brusche. Chiedono (c’era da dubitarne?) di pagare meno tasse. Chiedono di rottamare definitivamente la Cgil (Marchionne ha perentoriamente detto a Epifani di “finirla con le cantilene” e Colaninno ha proposto di spedire il segretario della Cgil in Cina). Chiedono che la spesa pubblica venga tagliata ogni anno dell’1 per cento. Tempo fino al 27 maggio, dicono, per vedere i primi risultati.
Berlusconi ha sfoderato la sua anima commerciale e ha proposto tra le righe uno scambio tutto sommato ragionevole: “Tutti i soldi a voi, tutto il potere a me!” Lamentando lo scarso potere di cui può disporre, il primo ministro ha chiarito come, tra toghe rosse, intercettazioni indiscrete, Napolitano che gli fa le pulci alla grammatica e poi, addirittura, l’esistenza di un Parlamento, insomma non è facile, ma se si facesse qualche piccola riforma istituzionale magari gli sarebbe più facile venire incontro alle richieste di “Emma”.
Le cronache registrano come a Parma fosse presente anche Bersani, che avrebbe dichiarato quanto segue: “Le riforme si fanno in parlamento, ma per un piano economico andrei ad Arcore anche a piedi!”. Poi, forse spaventato dalla sua stessa audacia, ha chiarito che lui non fa comizi agli industriali (e a nessun altro, aggiungeremmo noi). Il ministro del lavoro Sacconi ha promesso che entro maggio l’obsoleto Statuto dei lavoratori verrà opportunamente rottamato e si presenterà un nuovo “Statuto dei lavori”. Ci saranno alcune regole (alcune!) valide per tutti specie in materia di salute e sicurezza, tutto il resto ricadrà nella contrattazione decentrata: territoriale, aziendale, e persino individuale. In sostanza, un ritorno al secolo XIX, con il singolo lavoratore alla mercé delle “libere scelte” del padrone, senza sindacati che non siano puri enti assistenziali o di servizio, collusi (ma Sacconi ama dire “complici”) con le imprese e con lo Stato. Sacconi è stato infatti molto esplicito: tutto questo si farà collaborando coi sindacati “responsabili, mentre la Cgil che continua a non adeguarsi al pensiero unico sui temi del lavoro e dei diritti, sarà costretta ai margini del confronto”. Il segretario Cisl Bonnani ci ha tenuto a precisare che il suo sindacato è responsabile, che ama profondamente la Fiat e Marchionne ed è pronto a firmare qualsiasi cosa. Applausi a scena aperta.
Sacconi ha pure promesso nuove leggi antisciopero e, per far capire di essere uomo di larghe vedute, ha invocato una “difesa della cultura del lavoro che contrasti quella cultura del nichilismo che dagli anni ’70, ‘i peggiori della nostra vita’, si è diffusa nei settori dell’educazione, dell’editoria, della magistratura.” (il Sole 24 ore, 11 aprile). “Occorre lavorare anche sulla cultura dei giovani: bisogna aiutarli ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, anche il più umile, purché sia regolare”. (La Repubblica, 11 aprile).
Il riferimento ai lavori umili cade a fagiolo, considerato che tre giorni dopo (14 aprile) sull’organo di Confindustria sono stati pubblicati i redditi dei primi 150 manager. Redditi 2009, mentre le famiglie tiravano la cinghia, mentre il Pil aveva il peggior calo del dopoguerrra, mentre esplodevano Cassa integrazione e licenziamenti. Non meno di 150 dirigenti di società quotate hanno ricevuto almeno un milione di euro di stipendio prima delle imposte.
Carlo Puri Negri, primo in classifica di Pirelli Re: 15 milioni e rotti.
Tronchetti Provera, sempre Pirelli, 5,94 milioni (+27%);
Bernheim, Generali, 5,08 milioni (+48%);
Montezemolo, Fiat: 5,09 milioni (+55%).
Marchionne, Fiat: 4,78 milioni (+40%).
Profumo, Unicredit: 4,27 milioni (+23%);
Passera, Intesa San Paolo: 3,5 milioni (+27%);
Geronzi, Mediobanca: 3,28 milioni (stabile);
Bernabè, Telecom: 3,13 milioni (+72%);
Vittorio Merloni, Indesit: 3,17 milioni (+40%);
Mangoni, Acea: 3,09 milioni…
Leggendo queste cifre non si può che dar ragione a Berlusconi: la crisi è finita, anzi, forse non c’è mai stata!
Balza agli occhi la sproporzione fra le forze che sostengono questa offensiva arrogante e le difficoltà a mettere in campo una risposta adeguata. Le elezioni regionali ne sono state solo l’ulteriore conferma. I due corni del problema in cui ci troviamo sono i seguenti: la crisi di Rifondazione comunista e della sinistra alternativa, la paralisi del gruppo dirigente della Cgil, la generale mancanza di punti di riferimento organizzati e credibili, rendono un’impresa titanica organizzare un movimento di lotta nei luoghi di lavoro che possa opporsi ai tentativi padronali di utilizzare la crisi per fare carne trita dei diritti dei lavoratori e in generale di ogni tutela sociale. Viceversa, in assenza di forti movimenti di lotta è impossibile aggregare le forze che possano invertire lo stato attuale di disfacimento delle organizzazioni politiche e sindacali che si stanno dimostrando drammaticamente inadeguate a condurre una lotta anche solo difensiva. Il convegno padronale di Parma ha fotografato in primo luogo il tentativo di rendere strutturale e permanente questa situazione, che deriva innanzitutto dagli errori della sinistra e del sindacato negli ultimi decenni.
Il “movimento reale” deve avanzare, nonostante tutto e tutti, in mezzo a questa contraddizione, e noi con esso. L’asprezza del quadro rende più lenta la reazione e non potrebbe essere altrimenti: i lavoratori non scendono facilmente in lotta trovandosi in mezzo a una crisi che assedia letteralmente la vita delle persone, e per giunta senza grandi partiti e sindacati che siano chiaramente disposti a mettersi in campo dalla loro parte. Ma questo è solo un lato della medaglia: l’altra faccia la scopriranno i signori e padroni di questo paese, quando comprenderanno che la demolizione di ogni mediazione renderà incontrollabile anche il conflitto.

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