sabato 8 maggio 2010

LA RESA DEI CONTI

Non si erano ancora spenti i riflettori sulla rissa in diretta tra Berlusconi e Fini durante la Direzione nazionale del Pdl quando il governo è stato investito da una nuova ondata di scandali, un uno-due micidiale (prima Scajola, con relative dimissioni; poi Verdini, con mancate dimissioni, poiché il coordinatore Pdl ha spiegato che «dimettersi non fa parte della sua mentalità») che mette a dura prova la tenuta del partito di maggioranza relativa. Sarà bene chiedersi di che si tratta, che sta succedendo, che succederà.
In ballo, non c’è dubbio, è la corruzione dilagante, quindi la mai tanto attuale questione morale. Chissà dove sono finiti i Catoni che fustigavano la «casta» quando al governo c’era il centrosinistra e in Parlamento c’eravamo anche noi: oggi tacciono o si occupano del povero Garibaldi, segno che per i «grandi giornali» la moralità funziona a senso unico. Ma dire questione morale non deve ingannarci. Mai come oggi l’intreccio tra morale e politica è stato stretto, perché la corruzione, l’uso privato di risorse pubbliche, l’abuso di potere non sono comportamenti sporadici di politici spregiudicati. Non sono devianze, benché il codice penale li consideri ancora reati. Sono coerenti applicazioni della cultura dominante, dell’idea che il bene pubblico sia a disposizione di chi è più bravo ad accaparrarselo con qualunque mezzo. Quando Berlusconi elogia il «senso dello Stato» di Scajola e Bertolaso non scherza affatto, né vuole prendere in giro nessuno. Il senso dello Stato costoro ce l’hanno per davvero: basta intendersi sulle parole.
Non bisogna nemmeno stupirsi. Chi ama svisceratamente il mercato, il privato e la «libera concorrenza» dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che rubare (farsi pagare una casa o una tangente) non è molto diverso dal procurarsi appalti o dall’acquisire risorse o imprese pubbliche grazie a qualche provvidenziale privatizzazione. Certo, un reato è un reato. Ma – formalismi e ipocrisie a parte – quanti appalti pubblici avvengono senza trucchi e senza inganni? Quante privatizzazioni si traducono in benefici per la finanza pubblica e la cittadinanza? Il capitale bada al sodo, vive per il profitto. Se può rispetta le leggi, altrimenti le cambia (qualcuno si ricorda del falso in bilancio?) oppure le infrange. Uguali sì, ma sino a un certo punto. Ancora gli storici litigano sul ruolo dei robber barons negli Stati Uniti di fine Ottocento: non erano galantuomini, ma forse contribuirono all’impetuoso sviluppo del capitalismo yankee.
Detto questo, a che punto siamo? Il sorriso di Berlusconi è alquanto tirato in questi giorni. Le sue truppe sbandano, anche in Parlamento. Benché le elezioni anticipate rimangano un tabù, non si ha l’impressione che il governo abbia il vento in poppa. Siamo finalmente alla resa dei conti?
Difficile dirlo. Del resto, la situazione è alquanto surreale, visto che il più preoccupato all’indomani della scazzottata tra Berlusconi e Fini era proprio Bersani. Ma certo qualcosa di grosso sta accadendo. Per un verso, siamo alle solite mani nella marmellata (e altri nomi eccellenti sembrano coinvolti, da Dell’Utri a Cosentino, tanto per cambiare). Di tangenti e corruttele le cronache politiche sono costellate da sempre. Ma la sensazione è che stavolta siamo di fronte ad avvenimenti che rischiano di travolgere il quadro politico prodottosi a seguito di Mani pulite e delle riforme istituzionali dei primi anni Novanta.
Secondo qualcuno il presidente della Camera si sarebbe «suicidato» attaccando Berlusconi, ma non è detto che le cose stiano così. Sta di fatto che dal 22 aprile la politica italiana è cambiata. Berlusconi ha dovuto frenare sulle «riforme» istituzionali e invocare larghe intese, scaricando di fatto la bozza Calderoli. Bossi ha reagito rabbiosamente, prima – contro Fini – annunciando il «crollo verticale» di maggioranza e governo, poi – al fianco di Fini – negando a muso duro qualsiasi congiura dei magistrati contro l’esecutivo. In Parlamento il governo ha dovuto tornare alla fiducia dopo i clamorosi incidenti sul «collegato», mentre sono cominciate le grandi manovre al centro. Sia o meno Montezemolo il fulcro delle fibrillazioni, all’ordine del giorno è il terzo polo, quindi – per dirla senza perifrasi – la crisi del bipolarismo.
Questo è il vero terremoto consegnato dalle elezioni di fine marzo, oltre che dall’ennesimo fallimento politico della destra nel governo del Paese. Intendiamoci: non stiamo dicendo che di certo domani ci sarà la crisi e presto si andrà a votare. L’agonia potrebbe durare ancora a lungo e in tal caso sarebbe molto dolorosa. Di sicuro Berlusconi non uscirà di scena con un gentile inchino. Colpirà, minaccerà, devasterà per punire i «traditori» e salvare pelle e bottino. Ma – questa volta sì – la fase è mutata per davvero e compiremmo un grave errore se non lo comprendessimo. Tanto più che nuovi spazi potrebbero aprirsi anche per le forze della sinistra, cancellate dalla scena mediatica e dalle istituzioni della politica.Nella situazione che si è aperta molti giochi cambieranno. Dovremo ragionare su tutto questo con la massima attenzione, senza dare nulla per scontato ed evitando di rimanere prigionieri di vecchi schemi. Una cosa soltanto possiamo dire sin d’ora con certezza: occorre compiere ogni sforzo per dare visibilità e forza al partito e alla Federazione della sinistra, che deve quindi divenire al più presto una realtà politica concreta e vivente; e occorre altresì unire le forze di alternativa, affinché la sinistra possa di nuovo pesare sui futuri equilibri politici nazionali. Questo è difatti il grande tema oggi: come restituire al nostro operare quella efficacia senza la quale si è per forza di cose – lo si intenda o meno – fuori dalla politica.


di Alberto Burgio
su Liberazione del 07/05/2010

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