domenica 29 agosto 2010

RIFONDAZIONE e FdS per una alleanza democratica contro il berlusconismo

Ferrero: noi proporzionalisti, ma la discussione è sulla buona via. «Nessun veto, pronti per un fronte democratico per la legge elettorale con tutte le opposizioni. Il candidato premier? Chiunque, conta il programma. Tanto noi non parteciperemo all'esecutivo». Parla il segretario del Prc: «Un governo tecnico? Finirebbe per riconsegnare il paese a Berlusconi» «Siamo per l'unità delle sinistre d'alternativa. Nichi Vendola decida se stare con noi o con l'Ulivo»


Segretario Paolo Ferrero, il sì del Prc all'Alleanza democratica di Bersani è quello della forza del centrosinistra oggi più lontana dal Pd. Cosa vi fa decidere di starci?


Quella di Bersani è la stessa proposta che ho fatto io da tempo, per la precisione dal marzo scorso, a nome della Federazione della sinistra: un fronte democratico che ha l'obiettivo di sconfiggere Berlusconi e cambiare la legge elettorale in senso proporzionale, in un quadro di salvaguardia democratica e di giustizia sociale. Ma questo fronte non coincide con il governo che ne può emergere. Per noi oggi non ci sono le condizioni per far parte di un governo con questo centrosinistra. La logica che spinge Bersani mi pare la stessa. Del resto per cacciare Berlusconi, fare la nuova legge proporzionale e uscire dal bipolarismo sono pronto ad allearmi anche col diavolo.

Ma il leader Pd ribadisce la scelta del bipolarismo e la preferenza per l'uninominale. Non il proporzionale: vuole il ritorno al Mattarellum.

Noi siamo per il proporzionale secco. Altri, come noi, preferiscono il modello tedesco, penso a D'Alema, a Rutelli, a Casini. Vuol dire che ne parleremo. Ma il punto è che fino a qui la discussione era solo sull'impianto veltroniano, bipolarista e persino bipartitico, il cui unico obiettivo era ammazzare le forze della sinistra. Ora invece il tema è su come si va verso il proporzionale, o comunque come si realizza un sistema plurale. Da questo punto di vista il Mattarellum è un passo avanti. Poi il grado di compromesso finale si vedrà. Ma si va nella direzione giusta.

L'Italia dei valori ha detto sì all'alleanza a patto che non ci sia l'Udc. Vale lo stesso anche per voi?

Noi non poniamo veti. Perché noi, a differenza di Di Pietro, non siamo interessati a governare con loro. Il fronte democratico è una proposta rivolta a tutte le forze dell'opposizione. E in tutta franchezza voglio dire che il modo in cui si definirà questo fronte lo vedremo. È chiaro che non ci potranno essere mafiosi in lista, e che il profilo morale dei candidati debba essere solido. Ma voglio ricordare a Di Pietro che nel Comitato di liberazione nazionale c'erano anche i monarchici. Quanto al resto, l'Idv negli anni scorsi ha votato i finanziamenti alla scuola privata, come l'Udc. Era favorevole alla Tav, come l'Udc. Non era insieme a noi contro la legge 30, come l'Udc; né per la commissione d'inchiesta sui fatti di Genova, sempre come l'Udc. Io so che con loro tutti non posso governare. Ma per fare un fronte democratico porte aperte a tutte le opposizioni.

Viceversa è difficile che l'Udc accetti una qualche alleanza con un partito ancora comunista.

Fatti loro. E sarebbe strano, in ogni caso: in Piemonte siamo stati alleati contro l'indigeribile leghista Cota. E in Liguria governiamo insieme. Ci presenteremo al voto come Federazione della sinistra, che nel simbolo ha una bella falce e martello. E, lo diciamolo subito, non siamo disponibili a toglierla. Ma ripeto: non mi interessa il governo, non faccio il rompiballe che fra due mesi si rimangia tutto.

A proposito di questo: il governo del vecchio Ulivo è caduto da sinistra, l'avete buttato giù voi nel '98. E l'Unione, che invece è caduta da destra per i voti di Mastella, aveva una sinistra in forte sofferenza che aveva definito «morente» l'esecutivo. Crede che gli elettori avranno voglia di votare alleanze con questi precedenti?

Ma infatti io non voglio stare in un'ammucchiata di governo con forze che vent'anni fa ricoprivano tutto l'arco costituzionale. Il punto decisivo è costruire una legge elettorale che permetta a certe posizioni di esprimersi. Berlusconi di suo ha il 30 per cento nel paese, non di più. Ma l'attuale legge elettorale gli consegna i numeri che ha. C'è invece una larga maggioranza nel paese contro Berlusconi: bisogna costruire subito, nei primi tre mesi di governo, una legge che le restituisca la rappresentanza in parlamento. E lì poi ci ci può essere Montezemolo, che considero un nemico di classe, e Casini, con il quale mai governerei.

Ma il governo che deve fare la legge in tre mesi è quello dell'Ulivo, o uno a tempo nato dalla crisi del Pdl?

Puntare a un governo di transizione, oltre a essere irrealistico perché non è semplice che Berlusconi vada a casa, è sbagliatissimo. Questo governo farebbe una legge elettorale del tutto al di fuori di una discussione democratica nel paese. E sul piano sociale? Boh, magari farebbe peggio del Pdl. Il rischio vero è che rivergini Berlusconi, gli faccia fare la parte della povera vittima di un intrigo di palazzo, che provochi una delusione pazzesca nel paese. E che poi gli elettori lo rivotino.

Chi è il vostro candidato premier dell'alleanza democratico?

Chiunque. Tranne Fini, perché parliamo comunque di opposizioni. È la forza più grande a dover decidere. Non mi infilerò nella discussione ' primarie sì, primarie no'.

Il Prc preferisce non partecipare alla scelta del premier con le primarie?

È inessenziale. Il punto è costruire la coalizione e il suo programma.

Il Pdci, che è federato con voi, ai gazebo preferisce De Magistris candidato di tutta la sinistra. Voi no?
La discussione è fuori tempo. Se si arriverà ai gazebo discuteremo con i candidati le proposte che avanzeranno. E sottolineo se.

Siete così disinteressati a come si sceglie il capo di una coalizione a cui comunque aderite?

Abbiamo il senso delle proporzioni. Non sta a noi la proposta di un capo di governo di cui comunque non faremo parte. Alle regionali in qualche caso abbiamo partecipato in modo netto alle primarie, e penso a Nichi Vendola in Puglia. In altri casi no.

Proprio per questo non è almeno probabile vi orientiate su Vendola?

Ripeto, non posso saperlo ora, vedremo i programmi, fin qui non se ne sono visti. E ripeto: se siamo interessati al fronte democratico e non al Nuovo Ulivo è perché noi abbiamo un altro progetto politico. Che è quello di unire tutta la sinistra di alternativa. Quindi vogliamo collaborare con l'Ulivo, ma avanziamo una proposta a tutte le forze della sinistra d'alternativa, da Sinistra e libertà di Vendola, a Sinistra critica, al Partito comunista dei lavoratori: costruiamo un polo per l'alternativa, autonomo dal Pd.

Vendola si rivolge a un popolo più ampio, comprendente anche l'elettorato Pd.

In questo caso il popolo della sinistra dovrà dire se vorrà stare dentro l'Ulivo o se vuole costruire una posizione autonoma. Perché poi, una volta sconfitto Berlusconi, c'è da far fronte ai vari Montezemolo, Cei eccetera.

Parla a nome del Prc o anche del Pdci e della Federazione della sinistra?

Sul fronte democratico, la mia posizione è quella della Federazione, l'abbiamo anche votata. Se poi Cesare Salvi, che è il portavoce di turno, ancora non l'ha pronunciata a nome di tutti, è perché è in vacanza per qualche giorno. Ma la Federazione c'è. Al voto politico ci sarà il suo simbolo.

sabato 28 agosto 2010

La fine degli alibi

Un pregio questo profondo agosto l'ha avuto, con i suoi meeting e i suoi dibattiti. Ha aiutato a fare un po' di chiarezza, ad esplicitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, di che cosa stiamo parlando, quando diciamo Pomigliano, Melfi o Fiat. Non a caso nessuno parla più di fannulloni, assenteismo o finti malati, come invece si faceva senza ritegno ai tempi del referendum di Pomigliano. E assume senso compiuto anche quell'irriducibile opposizione della Fiat al reintegro "nel proprio posto di lavoro" - e non nella saletta sindacale - dei tre operai di Melfi.No, tutte queste cazzate, ci si permetta il termine, sono state spazzate via dai dotti discorsi di ministri, capi confidustriali e amministratori delegati. Dobbiamo essere grati, in particolare, al ministro Tremonti e all'ad Marchionne, per avere autorevolmente attestato che le cose stanno esattamente come pensavamo che stessero. Il primo, tra Rimini e Bergamo, ha in sostanza detto che viviamo in un mondo difficile, che siamo noi che dobbiamo adeguarci a questo e non questo a noi e che, quindi, certi lussi non possiamo più permetterceli. Si riferiva soprattutto a due "lussi": i diritti e la sicurezza sui luoghi di lavoro, comprese «robe come la 626». Il secondo, nel suo intervento di ieri a Rimini, non ha nemmeno fatto finta di citare l'assenteismo e si è dedicato invece a un discorso più generale. Secondo lui, ci vuole un nuovo patto sociale, un nuovo modello e questo significa, ovviamente, che bisogna buttare a mare quello vecchio. Ed è quello che sta avvenendo ora in Fiat: "la contrapposizione tra due modelli".Marchionne non perde tempo a spiegare in dettaglio questo nuovo modello, vi allude soltanto, parlando di "responsabilità e sacrifici" e di competizione nel mondo. In cambio, però, è molto chiaro nell'individuare il modello da distruggere: «Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra "capitale" e "lavoro", tra "padroni"' e "operai"… Erigere barricate all'interno del nostro sistema alimenta solo la guerra in famiglia».Potremmo fermarci qui con le citazioni di Marchionne, se non fosse che è stato anche protagonista di due cadute di stile, sebbene la platea ciellina non ci abbia fatto caso. Con la prima, ha attaccato gratuitamente i tre licenziati politici di Melfi, rinfacciandogli che «la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone». Con la seconda, invece, si è esercitato in una clamorosa, ma significativa omissione. E così, dopo aver rivendicato con forza il progetto "Fabbrica Italia" e affermato che «rispettare un accordo è un principio sacrosanto di civiltà», si è completamente dimenticato di accennare al caso delle produzioni assegnate quattro mesi a Mirafiori, poi sparite e, infine, riapparse in Serbia. Ma che ci vuoi fare, d'altra parte non si è nemmeno ricordato della parolina "cassa integrazione", che a breve arriverà anche per gli operai di Melfi.Comunque, inutile scandalizzarci per qualche scorrettezza o bugia. Questo non è un gioco pulito, è un gioco pesante e non si prevedono prigionieri. Ma in cambio è trasparente. Non si tratta di avere meno assenteismo, più produttività eccetera. Tutto questo si potrebbe ottenere anche nel quadro normativo e contrattuale esistente (peraltro tutt'altro che generoso con i lavoratori). No, il problema non è quantitativo, è qualitativo. Ed è generale.Sacconi, Tremonti e Marchionne dicono e vogliono la stessa cosa, non cose diverse. E non sono nemmeno cose tanto nuove. Quasi nessuno si ricorda ormai, ma nel lontano ottobre 2001 l'allora ministro del Welfare, il leghista Roberto Maroni, presentò il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Riga in più, riga in meno, c'era già tutto scritto, compreso l'obiettivo di abrogare lo Statuto dei Lavoratori, cioè il pacchetto fondamentale dei diritti, per sostituirlo con lo "Statuto dei Lavori".L'anno scorso a Milano l'81,6% dei nuovi contratti di lavoro stipulati aveva carattere precario. Evidentemente vogliono il 100%, dappertutto e subito. E' l'assalto al cielo dei padroni.Insomma, dopo le illuminanti chiacchiere agostane, non ci sono più alibi per nessuno. Non ci riferiamo ovviamente ai vari Bonanni, che di alibi non ne hanno più da tempo, ma a tutti gli altri. A questo punto bisogna scegliere da che parte stare. Con Marchionne e Tremonti o con la Fiom, i sindacati di base e tutti quelli che si battono per la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Suona brutale, lo so, ma questa è l'ora di schierarsi.
di Luciano Muhlbauer
su Liberazione del 27/08/2010

venerdì 27 agosto 2010

Sì all'alleanza democratica di Bersani

Condividiamo la proposta avanzata ieri dal segretario del Pd Bersani di dar vita ad una alleanza democratica per sconfiggere Berlusconi. Non si tratta solo di cacciare un governo mefitico, ma di ricostruire il quadro democratico del paese. Questa alleanza deve porsi l'obiettivo di uscire da questa sciagurata seconda repubblica e cementarsi attorno alla difesa e al rilancio della Costituzione, al varo di una legge elettorale proporzionale, alla giustizia sociale. Noi avanziamo da tempo questa proposta - lo abbiamo fatto anche alla manifestazione unitaria delle opposizioni del 13 marzo scorso - e la presa di posizione di Bersani costituisce un passaggio importantissimo. Si tratta dell'unica strada per sconfiggere una destra populista antioperaia e pericolosa per la democrazia. Si tratta di una scelta importante perché mette la parola fine alle ipotesi bipolari e bipartitiche che Veltroni e i suoi alleati stanno continuando a perseguire con grande visibilità sui mass media. Bersani propone poi di dar vita, all'interno dell'alleanza democratica, ad un nuovo Ulivo, che si caratterizzi con un programma comune di governo. Noi non siamo interessati ad entrare al governo, così come non siamo interessati alla costruzione di questo nuovo Ulivo da cui ci dividono scelte politiche e programmatiche di fondo. Noi siamo impegnati a costruire l'unità delle forze della sinistra di alternativa, unità di cui la Federazione della Sinistra rappresenta una tappa fondamentale. Il Pd lavorerà ad un nuovo Ulivo e al programma di governo con tutte le forze della sinistra moderata. Noi lavoreremo per unire tutte le forze della sinistra anticapitalista. Il progetto politico di Bersani e il nostro sono quindi assolutamente diversi - ed è decisivo questo elemento di chiarificazione - ma ciò non ci impedisce e non ci impedirà di lavorare per la costruzione di una alleanza democratica che tolga a Berlusconi il governo del paese, vari una legge elettorale proporzionale e ricostruisca un nuovo quadro democratico del paese. Per attuare questa politica è però necessario cacciare Berlusconi e conquistare nuove elezioni. Su questo ultimo punto le posizioni tra noi e il Pd divergono e lo dobbiamo quindi incalzare fermamente. Di fronte al tentativo di Berlusconi di rappattumare la maggioranza, la vera cosa che manca nel paese è l'opposizione. Dobbiamo dar forma e sostanza politica all'opposizione. Costruiamo quindi da subito, città per città, la partecipazione alla manifestazione nazionale del 16 ottobre convocata dalla Fiom, con l'obiettivo esplicito di cacciare il governo Berlusconi, sconfiggere la Confindustria, l'arroganza della Fiat e le sciagurate politiche europee.
di Paolo Ferrero
Segretario nazionale PRC

Burgio: «Basta settarismi. È stato perso tempo prezioso»


di Antonella Marrone



Burgio, c’è qualche novità a sinistra?
Quale sinistra? I gruppi dirigenti o la base?
Come risposta è una bella domanda. Dirigenti e base.
Penso che la base sia molto più avanti dei dirigenti. Giro molto, non solo per le Feste di Liberazione e di partito, e vedo che le persone hanno voglia di misurarsi e di fare uno scatto in avanti.
Qual è il problema dei dirigenti?
Il fatto di essersi fatti imprigionare in una storia, quella degli ultimi 20 anni, fatta di sconfitte. E anche di errori gravi. Una storia che ha funzionato come una ragnatela per impedire qualsiasi movimento che fosse all’altezza del compito.
Quale compito?
Chi ha liquidato il Pci aveva una strategia politica, quella di “eliminare” il conflitto di classe, di emarginarlo nel complesso della politica. Tu hai cercato di impedirlo ma non sei stato all’altezza.
A questo punto?
O troviamo una nuova strada, una maggiore consapevolezza che ci consenta di “scartare” questa situazione di stallo, o perdiamo la bussola politica. Non si va da nessuna parte proponendo pratiche settarie. Il rischio è di avere sempre minore rilevanza politica pur avendo le idee migliori. Del resto una delle cose che ho imparato nelle ultime campagne elettorali è che il fatto di dire cose giuste, in sé, non ha grande rilevanza se poi ti dividi. Bisogna uscire dal piano astratto delle opinioni.
Ricerca di unità sulla carta, ma sembra esserci una compulsiva voglia di distinguersi gli uni dagli altri
L’inerzia organizzativa non aiuta, si cercano strade per azioni condivise, poi, nella pratica prevale la logica “di parte”, di piccole parti... E questo non è propriamente nel solco della tradizione del comunismo italiano in cui è sempre prevalsa la cultura delle alleanze.
Se non ci sono alleanze, non ci sono novità?
Faccio fatica a capire che cosa può esserci di politico quando rimani in 4 gatti, anzi ancora meno. La politica del "meglio solo che (addirittura) accompagnato" è assolutamente perdente, è proprio quella che ti fa rimanere imprigionato nella ragnatela di cui parlavo prima.
Alleanze: con chi, per che cosa?
Bastano 4 o 5 cose importanti: la difesa dello Stato, la difesa della dignità del lavoro e dell’autonomia contrattuale, la tutela della dimensione pubblica del welfare, e poi l’esseree d'accordo sul fatto che viviamo in un paese in cui vige una profonda ingiustizia sociale. Non se ne parla più di questa cosa, ma siamo una società ingiusta, polarizzata. Dolorante.
Con chi?
Con chi accetta la condivisioni di questi punti e che, secondo me, per il fatto stesso che li accetta io considero di sinistra. Che bisogno c’è di altre differenzazioni?
Per esempio tra riformisti e rivoluzionari?
Distinguiamo. Il termine riformismo oggi ha assunto il significato - da rifuggire - di realizzazione e modernizzazione neolibeirsta. Però la situazione è tale per cui, pur essendo potenzialmente riivoluzionaria, non consente di intervenire concretamente nel reale. Dividerci tra riformismo e rivoluzione è demenziale quando dobbiamo pensare a difenderci puntando a guadagnare qualcosa. Politica dei piccoli passi, si, è necessaria in questo momento per stare dentro ad un progetto che stenta ad avere un seguito. Faccio un esempio: la lettera di Napolitano ai tre operai della Fiat. Conosciamo la storia di Napolitano, tra gli uomini più moderati del Pci. Ma oggi quel gesto è un elemento positivo, direi “rivoluzionario”. E non ha importanza se ci sono altre cose a dividerci. Ora è importantissimo.
Tra l’altro la “base” sembra apprezzare il richiamo all’unità...
C’è una concretezza maggiore
La base è più allargata rispetto ai militanti del partito?
Assolutamente si. Mi riferisco a tutti coloro che davanti alla tv o leggendo di politica, dicono “Io sono di sinistra, però.....”. Però capiscono il “voto utile” capiscono che nasce da un ragionamento: meglio meno che nulla.
Scusi, ma a che punto è la Federazione della Sinistra? Non ci saranno problemi di “settarismo” anche lì?
Vorrei rovesciare la domanda: come mai a due anni dal congresso di Chianciano non è successo ancora niente? A due anni dalla nascita di quella idea non è stato prodotto nulla? C’era una prima grande “prossimità” tra le forze, soggetti che partivano dall’idea di stare con la falce e il martello. Se fosse stato vero sarebbe stato facile.
Vuol dire che quel “collante” non è bastato?
Che l’incidenza dei ceti politici è stata negativa, che non ha funzionato la dirigenza e che il vizio culturale del settarismo ha prevalso. Stiamo facendo passare del tempo prezioso, abbiamo perso appuntamenti importanti, buttato via due anni. C’è una responsabilità politica gravissima di chi avrebbe dovuto lavorare alla realizzazione concreta di questa esperienza unitaria.
Beh, non c’è solo Rifondazione...
Certamente no. La responsabilità è collettiva. Ma chi è parte maggioritaria, ne ha di più.

in data:26/08/2010 tratto da LIBERAZIONE.IT Clicca Qui

giovedì 26 agosto 2010

Vendola, l’aedo del riformismo

Una intervista doppia, a testate unificate, il manifesto e la Repubblica, in questa torrida estate da basso impero: il nostro versatile aedo lancia, a dire il vero con una tempistica un po’ surreale, la sfida salvifica delle primarie, per uscire dal pantano della seconda repubblica. Le due interviste di Nichi Vendola propongono con tonalità diverse (a ciascuno il suo, il marketing è una scienza seria) la stessa tesi: per il pubblico “adulto” del manifesto non mancano i riferimenti a Melfi e Pomigliano e una differenziazione dalla analisi propostaci dalla lettera di Veltroni sulla sconfitta del 2008. Ma il senso delle due interviste è identico: Vendola si propone di «incarnare in progettualità», la «spinta innovativa» che sente «in Veltroni». Si propone di tradurre in «narrazione», o meglio di essere il narratore, di un compiuto progetto riformista. Di realizzare, cioè, in salsa euromediterranea, il sogno americano di Walter. Certo, «ci sono diversi e divaricati riformismi», e Vendola ne interpreta una variante meno moderata.Non è un caso che la sfida delle primarie sia rivolta al Pd, e circoscritta nell’ambito di un Pd per entrambi, Vendola e Veltroni, onnicomprensivo, cioè votato a cancellare a suon di sbarramenti, o a cancellare sussumendolo, tutto quello che si trova alla sua sinistra. Poco importa che l’aedo sia convinto di poter sussumere nelle affascinanti spire della sua poesia la prosa del fallimento riformista, mentre rischia di essere il cantore di una storia non sua, cioè sembri essere sussunto da una narrazione altrui. Tra Nichi e Walter non c’è conflitto di interessi. Anzi.Vendola sembra in grado di poter realizzare compiutamente il progetto veltroniano di piena relizzazione dalla seconda repubblica, bipolare e bipartitica e con venature presidenzialiste, attraverso una più radicale americanizzazione del sistema politico: il superamento del contributo dei partiti nella formazione della decisione democratica, in una ottica saldamente postideologica, quando non retoricamente anti-ideologica; una definitiva stabilizzazione di un sistema dell’alternanza (e, dunque, la necessità di cancellare chi si propone di rappresentare l’alternativa al sistema economico e politico); una sublimazione carismatica del conflitto sociale come surrogato di una sua semplice espunzione dal sistema politico. Una dilatazione parossistica del “ma anche”: diritti civili, ma anche Family day; Pomigliano, ma anche Marcegaglia e De Benedetti; il Pride ma anche Padre Pio.Vendola, dunque, come evidente nella risposta indiretta a De Magistris, non si pensa come possibile leader di una sinistra unita, né di governo né di alternativa, perché semplicemente non pensa ad uno spazio autonomo di sogettivazione e ricostruzione della sinistra. Il progetto di Vendola non è quello di costruire una sinistra per uscire dal capitalismo in crisi, ma appunto, quello di essere il narratore del riformismo più moderno. Perché Vendola è già oltre l’idea di sinistra: Vendola si propone di rappresentare una interclassista “Italia migliore”.Ecco perché relega elegantemente nell’iperuranio il ritorno ad un sistema proporzionale (per cui invece la Federazione della sinistra si batte) e si propone di giocare la partita con una legge elettorale, che oltre ad aver regalato l’Italia a Berlusconi, ha cancellato il pluralismo e soprattutto ha definitivamente reso il sistema istituzionale italiano impermeabile al conflitto sociale. Ed ecco perché il nemico da cancellare, da confinare tra la mucillagine dei partiti, e nell’oltretomba del Novecento, sono quelli brutti, sporchi e cattivi, che sostengono che oggi sia ancora più maturo il bisogno di comunismo: essi vengono dipinti nel “discorso della luce” tenuto al meeting della “fabbriche di Nichi” come chi «ha introiettato l’etica e l’estetica della sconfitta». “Che palle”, queste bandiere rosse che avvolgono il corpo agonizzante della sinistra comunista, esclama Vendola, con un linguaggio che forse vorrebbe essere giovanilistico e invece è semplicemente inelegante. E quanta paura dovrebbe provocare in un orecchio di sinistra questa retorica del “vincere”, della sinistra che vince… Non importa che provi a vincere diventando altro, cioè muoia compiendo definitivamente quella metamorfosi degenerativa che in Italia è iniziata col suicidio del Pci. Questi vecchi prigionieri dell’idea della democrazia come conflitto e partecipazione non “romperanno” ancora con la storia della personalizzazione della politica? Con l’idea che le convention siano saldamente costruite in un ottica postideologica, interclassista? Votate appunto a un’idea della democrazia easy, senza faticose assemblee, senza lo stress dei gruppi dirigenti, tanto votiamo alle primarie?Poco importa che questo formidabile strumento di Opa sul centrosinistra si collochi in un’idea della politica anch’essa votata al compimento della parabola della seconda repubblica attraverso una definitiva cancellazione della democrazia dei partiti e delle ideologie.Dunque, l’“Italia Migliore scende in campo”, “mette a Vendola”. Si libera dei pregiudizi ideologici: Fini non può essere un alleato stabile, ma un alleato sì. Così come “l’io Sud” della Poli Bortone rappresentava per Vendola nella prima legislatura pugliese una possibile chance per allargare una giunta colpita dalla questione morale.Dunque la sinistra può anche scomparire, sussunta in un progetto “oltre la sinistra”. No, non citerò quello che diceva D’Alema, commentando “l’oltre la sinistra” di Adornato. E non farò nemmeno riferimento alle analogie fra l’anello che unisce il popolo e l’unto del Signore. Quelle davvero mi fanno troppo male. Sono comunista, e ho molto rispetto per le speranze dei compagni. Ovunque esse siano riposte.
di Eleonora Forenza, Liberazione. 26.08.2010

Giri di Walter

Nuovi arrivi da Saturno. Dopo Passera e Mancuso, l’astronave che riporta in patria gli italiani reduci dallo spazio, praticamente una navetta, ci ha restituito ieri Uòlter Veltroni. Il quale, appena atterrato, ha scritto una lettera agli italiani: “Scrivo al mio Paese e vi dico che cosa farei”. E, per risparmiare sull’affrancatura, l’ha mandata al Corriere. Il genere epistolare non deve stupire: tutti i migliori comici, da Totò a Peppino, da Benigni a Troisi, ne han fatto largo uso. Totò, salendo sul wagon lit, chiamava a raccolta “fuochisti, macchinisti, ferrovieri, frenatori, uomini di fatica”. Uòlter, scendendo dall’Ufo, si rivolge “agli italiani che tornano a casa”, ma anche “a quelli che non si sono mossi”; a quelli che non si sono mossi “perché lavoravano”, ma anche a quelli che non si sono mossi “perché non possono lavorare”; “agli imprenditori”, ma anche “ai nuovi poveri italiani” (a quelli vecchi no).A tutti rammenta che “in fondo due anni fa quasi 14 milioni di italiani fecero la croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato premier”. Ecco, 14 milioni di croci sul suo nome. Ma lui non sospettò nulla. Anzi seguita a interrogarsi su quella banale questione aritmetica che gli negò la vittoria: “Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi, ora saremmo noi a guidare il Paese. Ma non è successo, per tanti motivi. Come cercherò altrove di approfondire, credo più per ragioni profonde e storiche che per limiti di quella campagna elettorale che si concluse col risultato più importante della storia del riformismo italiano”.
Ha perso, ma è come se avesse vinto (infatti ora spiega come si vince: “No a sante alleanze anti-premier, così si perde”, parola di esperto). Comunque non è stata colpa sua. Due anni su Saturno non gli son bastati per capire cosa accadde nel 2008, ma cercherà “altrove di approfondire”. Gli offriamo un riassuntino. Novembre 2007: dopo due anni di fallite “spallate” a Prodi, B. è politicamente morto, snobbato da Bossi e scaricato da Fini che lo chiama “comica finale”. Poi entra in scena Uòlter e apre un “tavolo delle riforme”, ma non con Fini e Bossi aiutandoli a seppellire il nano, bensì col nano aiutandolo a riannettersi Fini e Bossi. Effusioni da fidanzatini di Peynet, poi l’accordo per una legge elettorale bipartitica, che costringe Fini a rientrare a corte di B., mentre Uòlter minaccia di morte i partiti alleati (“se si va a votare, il Pd corre da solo”). Risultato: Mastella si accorda con B. per votare col vecchio porcellum e rovescia Prodi. B. risorge per la terza volta. In campagna elettorale chiama Uòlter “maschera di Stalin”, ma Uòlter porge l’altra guancia: non solo non l’attacca mai, ma nemmeno lo nomina per non cadere in tentazione (“il principale esponente dello schieramento avversario”). Già che c’è, riabilita pure Craxi e affida le liste Pd in Sicilia al compagno Crisafulli, vecchio amico del boss di Enna, dunque rieletto senatore. Naturalmente perde le elezioni (38% Pdl, 33 Pd), regalando a B. la maggioranza più oceanica della storia. Non contento, persevera col “dialogo”: promette “opposizione costruttiva” al peggior governo della galassia e non candida nessuno contro Schifani alla presidenza del Senato. Così il Pd perde pure tutte le regioni su piazza (Friuli, Abruzzo, Sardegna). Poi Uòlter s’imbarca per Saturno.Ora pare guarito: riesce a scrivere tre volte “Berlusconi”, scopre “la logica personale dei suoi interessi” e “l’aria putrida dei ricatti”, ricorda che “la mafia è politica” (avrà parlato con Mirello), paventa financo “rischi di democrazia autoritaria”. Tutto giusto, tutto perfetto (a parte la sparata tutta berlusconiana delle “croci sul mio nome”). La lettera parrebbe persino profetica, se fosse stata scritta nel ‘94. Oggi invece i destinatari potrebbero domandare al mittente: scusa, Uòlter, anziché raccontarci “cosa farei” ora che non conti più nulla, ci spieghi perché non hai fatto qualcosa quand’eri vicepremier, poi segretario dei Ds e poi del Pd? Perché le lettere hanno questo, di seccante: che ogni tanto qualcuno risponde.
Marco Travaglio, Ilfattoquotidiano.it

mercoledì 25 agosto 2010

Melfi, un’occasione per la sinistra


Che Marchionne stia allo statuto dei lavoratori come Berlusconi sta alla Costituzione è faccenda ormai acclarata: fine della cortina fumogena che ammantava il brevissimo “nuovo corso” della Fabbrica Italiana di Automobili Torino. E fine dell’illusione che aveva rapito gli estasiati neofiti della ex-sinistra moderata, convinti di avere trovato in Sergio Marchionne il moderno interprete del capitalismo democratico da loro agognato. La madre di tutte le imprese torna dunque ad essere la “zona franca” dove i lavoratori sono soltanto numeri, dove neppure la magistratura può ripristinare diritti violati perché la legge dell’azienda è la sola che conta, la sola davvero legittima. E se quella sancita nelle aule di giustizia vi si oppone vuol dire che si è di fronte ad un’incongruenza da sanare, perché per la Fiat il potere giudiziario dovrebbe aderire, come un guanto, a quello reale, quello che vive nei rapporti sociali dominati dal capitale. La Fiat ritiene di avere, obtorto collo, pagato il suo debito con i lavoratori ingiustamente licenziati corrispondendo loro il salario, ma non riammettendoli al lavoro: una operazione che unisce il mobbing all’attentato alla libertà sindacale. Silenzio tombale del governo complice.Chi invece non smette di parlare è il capo della Cisl. L’ossessione fobica per la Fiom, vale a dire per un sindacato che non rinuncia a comportarsi come tale, possiede come un demone implacabile Raffaele Bonanni. Il quale ne è a tal punto divorato da non riuscire a pronunciare parole elementari, di solidarietà incondizionata, nei confronti dei lavoratori licenziati dalla Fiat per rappresaglia antisindacale, ma che Marchionne pretende di tenere fuori dai cancelli malgrado la sentenza con cui la magistratura li ha reintegrati nel posto di lavoro. Se un superficiale rimbrotto egli muove alla Fiat è quello di cadere nella trappola tesa dai metalmeccanici della Cgil. In sostanza, di fare di quell’organizzazione una vittima e dunque di rafforzarla.Un paio di settimane fa avevamo definito il comportamento di Bonanni come un irrefrenabile impulso servile che si manifesta ormai sistematicamente, ora nei confronti del governo, ora di fronte al padrone, anche e proprio quando l’attacco ai lavoratori e ai loro diritti si fa più esplicito e liquidatorio. Un collateralismo tanto sbracato da risultare umoristico, se le conseguenze materiali di un così plateale disarmo non fossero tragiche per l’intero mondo del lavoro dipendente, colpito duramente dalla crisi, da una politica governativa incapace di pensare una benché minima risposta e da una aggressività padronale che non trova efficace contrasto, né politico né sociale.A meno che non ci si accontenti del profluvio di dichiarazioni, deboli anch’esse, che nutrono la stampa, senza lasciare alcun segno di sé. Anche Guglielmo Epifani, sia pure dopo avere condannato la protervia di corso Marconi, finisce per accodarsi al refrain di una Fiom chiusa a riccio e refrattaria a confrontarsi su orari, turni e organizzazione del lavoro. Cosa manifestamente non vera, come Maurizio Landini ha ampiamente spiegato, anche sulle colonne di questo giornale. Sempre che costituzione e contratto collettivo di lavoro non siano considerati merce barattabile.Il fatto è che oggi la rappresentanza sindacale non è frutto di una competizione democratica, dove il voto dei lavoratori decida in modo trasparente il peso di ciascuna forza e ne legittimi il ruolo negoziale. La rappresentanza oggi è solo presunta. Peggio: essa è decisa dalla controparte che sceglie a suo gusto l’interlocutore più malleabile con cui trattare e concludere intese, scrupolosamente sottratte al giudizio vincolante degli interessati. Mai si è dato, in democrazia, un così plateale esproprio di sovranità. Oggi, la Cisl, la Uil, trasformatesi in sindacati di comodo, esercitano una rendita di posizione, una delega padronale al sottogoverno delle aziende in quel simulacro a cui è stato ridotto il confronto fra le parti sociali. Siamo tornati agli anni Cinquanta. Con una differenza. Che allora vi era sulla scena sociale una Cgil non prona ed una sinistra politica combattiva, dichiaratamente e fattivamente al fianco dei lavoratori, sicuramente affrancata da suggestioni interclassiste e non permeata dalla cultura liberista.Con tutta evidenza, la crisi politica, in incubazione da tempo, precipiterà in autunno. Più per autocombustione della maggioranza che per il ruolo evanescente delle opposizioni che siedono in Parlamento. Sarà un bene se la sinistra che ne sta fuori troverà il modo di giocare un proprio ruolo autonomo, nella formazione degli schieramenti elettorali, nella proposta, nel progetto. E, ancor più importante, se la mobilitazione lanciata dalla Fiom per la metà di ottobre saprà raccogliere intorno a sé un arcipelago sociale da troppo tempo rattrappito e confuso. Per distribuire alla politica nuove carte, rispetto a quelle consunte con cui si celebrano i giochi dentro il palazzo.

Dino Greco, direttore Liberazione

Quello che va bene alla Fiat

Secondo il Sole 24 Ore se non si applicano "le regole mondiali" del lavoro l'azienda torinese non investirà più in Italia e così sarà la catastrofe del sistema industriale. Ma non è vero, alla Fiat serve solo ridurre il costo del lavoro


La vicenda del mancato reintegro dei tre operai licenziati lo scorso luglio ha confuso anche gli amici più fidati di Marchionne, coloro che si sono allineati alle scelte del “manager globale” da quando ha intrapreso la strada della Fabbrica Italia e della Fabbrica-mondo. Pensiamo a Raffaele Bonanni o a Pietro Ichino che si sono detti meravigliati per la scelta dell’azienda torinese di andare a uno scontro frontale con la Fiom. Eppure Marchionne va avanti. Lo spiega in un’intervista informale resa al Corriere della Sera e trova il supporto di Confindustria, almeno a giudicare dall’editoriale non firmato pubblicato il 24 agosto. Editoriale che costituisce un profilo programmatico. Perché il giornale confindustriale colloca le scelte di Marchionne nel quadro della strategia Fiat di investimento nel nostro Paese, quadro che dovrebbe stare a cuore a tutti perché se naufraga l’investimento Fiat naufraga il sistema industriale italiano. Una moderna versione del famoso motto di Agnelli: «Ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia». E quindi, spiega il giornale diretto da Gianni Riotta (sic), se la Fiat riconoscerà che ci sono le condizioni per investire in Italia bene, altrimenti «l’Italia perderà ulteriore ranking nelle scelte degli investitori» ovunque siano collocati. La Fiom, spiega Il Sole, è di fronte a una scelta netta: o accetta compromessi e negoziati «anche amari», come seppe fare Trentin, oppure sceglie le convenienze di sigla e quindi perderà «per sempre la chance di guidare verso il futuro il movimento dei lavoratori». L’invito alla Cgil è conseguente: il passaggio da Epifani a Camusso dovrebbe servire a questo, «a completare la maturazione del più grande sindacato italiano in vero partner della produzione», il sindacato che propone Bonanni e che la Uaw, i metalmeccanici Usa, ha già dimostrato di saper essere garantendo il salvataggio di General Motors e Chrysler.
E così il punto è di nuovo quello, il modello “americano” che Marchionne ha scoperto alla corte di Obama e che vuole importare in Italia. Del resto, è ancora l’editoriale del quotidiano salmonato a spiegarcelo: una multinazionale come la Fiat che vuole produrre nel nostro paese «può farlo secondo le regole mondiali o deve rassegnarsi a farlo all’italiana»? Dove “all’italiana” significa sottostare al «diritto del lavoro italiano» che rende sconveniente investire in Italia.
Se si vanno a guardare i dati sugli Investimenti diretti in Italia (Ide) si scopre però che l’Italia fino al 2007 – cioè prima della crisi – vedeva crescere impetuosamente tali investimenti (fino a 34 miliardi di dollari) senza particolari problemi. Poi, con la crisi, c’è stato il crollo (-57%) ma che ha riguardato tutti i paesi occidentali. Se poi si vanno a leggere le motivazioni delle difficoltà a investire in Italia, redatte ad esempio dall’Unctad (organismo economico dell’Onu), si legge che l’arretramento italiano dipende dalla «scarsa istruzione dei lavoratori» o dalla «lunghezza del processo civile», cioè dalla mancanza di certezze giuridiche. Nessuno che si lamenti dello Statuto dei lavoratori. Tanto che i paesi europei ad attrarre di più investimenti esteri sono Germania e Francia che certo non vantano un diritto del lavoro peggiore di quello italiano.
In realtà, quello che va bene alla Fiat è solo quello che… va bene alla Fiat e a nessun altro. Certo, la sparizione dello Statuto dei lavoratori farebbe comodo a tutti e infatti il ministro Sacconi, che con le imprese ha un feeling del tutto particolare, si sta impegnando a fondo per conseguire l’obiettivo. Ma quella della Fiat è una partita per la propria sopravvivenza. In Italia ha bisogno di sostituire la fine degli incentivi pubblici con la diminuzione drastica del costo del lavoro, in particolare con l’aumento della sua durata e intensità. Di questo si tratta. Lotta di classe si sarebbe detto una volta. Oggi non va di moda ma la sostanza è quella.


Salvatore Cannavò, ilmegafonoquotidiano.it

CLASSE DIRIGENTE

Due articoli illuminanti sulle qualità della nostra classe dirigente
Gli straordinari di Marina
Forse i Maya non erano poi così scemi: i segnali della fine del mondo si moltiplicano. La Santanché che cita Marcuse, per esempio (forse crede che sia un grossista di champagne). Oppure il topless di Marina Berlusconi, editore che edita un giornale che di lei stessa scrive: “Marina Berlusconi, selvaggia bellezza a cavallo di una tecnologica moto d’acqua, ricorda Galatea, la più bella tra le Nereidi”. Che non sembri piaggeria, l’ha scritto un archeologo, ma visto il topless andava bene anche un restauratore. Tra tutte queste premonizioni di immani disgrazie, rimangono per fortuna ben saldi alcuni valori, solidi, stabili. Per esempio la leggina (ddl 40, articolo 3, comma 2 bis, votato anche dagli intrepidi finiani) con cui il governo Berlusconi, presieduto dal padrone della Mondadori, presieduta dalla di lui figlia Marina Berlusconi, ha permesso all’azienda di risparmiare qualcosa come 340 milioni di euro di contenzioso fiscale. Stiamo parlando di tasse – contenzioso su tasse evase, per la precisione – che ammetterete, dopo Galatea e le Nereidi è una bella caduta di stile. Naturalmente continueremo a sentire nei telegiornali embedded della casa reale che la lotta all’evasione fiscale continua senza soste e cedimenti. Ma del super-sconto di famiglia direttamente dal produttore (di leggi) al consumatore (di condoni) non vi diranno nulla (sacrilegio!). Per fortuna, però, come nei migliori fascismi della storia, si sta con il “popolo”. Così nell’editoriale del settimanale di teoria politica del regime, Chi?, possiamo leggere la commovente lettera di Marta: “Faccio l’operaia…Con gli straordinari guadagno 1050 euro al mese… Ho iscritto mia sorella all’università, ha il libretto pieno di 30…Faccio i debiti, ma queste sono le soddisfazioni della vita. Ti scrivo per dirti che sono felice”. Bello, eh? E sotto a queste righe, foto di Marina Berlusconi in moto d’acqua, a cui il papà ha appena regalato una legge da 340 milioni di euro. Scommettiamo che è felice anche lei?
Alessandro Robecchi, Il Manifesto
Passera (senz’accento)?
L’altro giorno, tomo tomo cacchio cacchio, Corrado Passera è sceso dall’astronave che lo riportava sul suolo patrio dopo 20 anni di soggiorno su Saturno, atterrando dritto dritto sul Meeting ciellino di Rimini per tenere una dura requisitoria contro “tutta la classe dirigente italiana” che “non risolve i problemi della gente” e “suscita indignazione”. Applausi scroscianti dalla platea di Comunione e Fatturazione, anch’essa indignatissima contro questa classe dirigente che non risolve i problemi della gente, ma trova sempre il modo di risolvere quelli del Meeting di Cl, anzi Cf, finanziato negli anni dai migliori esponenti della classe dirigente: Berlusconi, Ciarrapico, Andreotti, Tanzi e altri gigli di campo; e ora da Banca Intesa, Eni e Formigoni (coi soldi della Regione Lombardia e delle Ferrovie Nord).Naturalmente il Passera in questione non è neppure lontano parente del Passera che, già amministratore delegato di Olivetti (poi venuta a mancare all’affetto dei suoi dipendenti), di Poste Italiane (i nostri abbonati ne sanno qualcosa) e ora di Banca Intesa (socia, fra l’altro, del Corriere della Sera in pieno conflitto d’interessi e sponsor del Meeting), appartiene a pieno titolo alla classe dirigente che fa indignare i cittadini, dunque non si sognerebbe mai di sputare nel piatto in cui mangia. Anche perché, in platea, avrebbe potuto imbattersi in uno degli azionisti Alitalia che han perso tutto grazie alla mirabile operazione condotta da Passera nel 2008 per conto del governo Berlusconi, scaricando sui contribuenti la parte marcia della compagnia (un buco da 3-4 miliardi) e regalando quella sana a 15 furbetti dell’aeroplanino. Nell’operazione Passera era contemporaneamente advisor del governo per trovare i compratori giusti e azionista della Cai, la compagnia acquirente della good company. Arbitro e giocatore. Si è guardato allo specchio e si è detto: bravo Corrado, hai vinto un posto nella nuova Cai, complimenti. Nella Cai sono entrati alcuni noti debitori di Banca Intesa di Passera, tra cui Carlo Toto, patron di AirOne, che vantava 900 milioni di debiti: ora i debiti si sono diluiti nel più grande calderone Cai e Banca Intesa di Passera non ha più nulla da temere. Ce ne sarebbe abbastanza per indignarsi contro questa classe dirigente, se per caso il Passera di Cai e di Intesa conoscesse il Passera di Rimini. Nel caso in cui lo conoscesse, due domande sorgerebbero spontanee. Che bisogno hanno questi cervelloni di rendersi ridicoli? E non sarà che, al posto dell’ometto ridicolo che ci governa, ne arriveranno altri più ridicoli di lui?Le stesse domande scaturiscono dalla lettura delle geremiadi del teologo Vito Mancuso, il quale ha scoperto con notevole tempismo di chi è la Mondadori che pubblica i suoi libri: pare addirittura che sia di B., che l’ha recentemente favorita con la quarantesima legge ad personam della sua nutrita collezione. Figurarsi come reagirà Mancuso quando scoprirà che B. la Mondadori l’ha pure sfilata vent’anni fa a De Benedetti grazie a una sentenza comprata da Previti con soldi suoi. Potrebbe persino venirgli una punta di acidità di stomaco. Per ora il teologo ritardatario s’è limitato a scrivere due articoli su Repubblica. Inerpicandosi sulla sua prosa, il lettore si attende da un momento all’altro il grande annuncio: “…E pertanto ho deciso di abbandonare Mondadori e di pubblicare i miei libri con un altro editore”. Invece no: si arriva in fondo, non senza una certa fatica, e si constata, non senza un certo disappunto, che l’annuncio non arriva. Mancuso voleva solo aprire il dibattito con gli altri autori Mondadori di provata fede antiberlusconiana (“aspetto le reazioni”). E vedere l’effetto che fa. “Che famo, se n’annamo o restamo? Fateme sape’”. Perché o se ne va tutta la comitiva, o forse resta anche lui. Soffrendo molto, ma forse resta. Poteva chiamarli uno a uno al telefono e risparmiarsi un po’ di ridicolo, ma erano troppi. Così ha scritto due articoli. Per risparmiare sulla bolletta.
Marco Travaglio, Il Fattoquotidiano

La mannaia della riforma Gelmini


Maria Stella Gelmini a proposito della riforma della scuola aveva ripetutamente affermato che l’operazione (in pratica un massacro degli organici delle scuole) non avrebbe comportato nessun licenziamento. Una bugia clamorosa drammaticamente confermata dai crescenti casi di protesta dei precari che oggi, da Palermo a Pordenone, arrivano adirittura allo sciopero della fame. Per anni, e talora per decenni, hanno lavorato e ora si trovano improvvisamente senza un posto. Docenti di ogni livello e personale tecnico amministrativo. Negli anni passati hanno lavorato perché sono stati chiamati a coprire posti vacanti, cattedre senza insegnanti e uffici senza il personale sufficiente per far funzionare le scuole.E quando è calatala la mannaia dei 135 mila posti da tagliare entro il prossimo anno in tutta Italia, per buona parte di loro il lavoro è svanito. Messi alla porta, scaricati come macchine da rottamare. E questi non sono licenziamenti? Chi lo nega si appella a cavilli formali che ormai non convincono neanche gli sprovveduti. I tagli erano stati giustificati, oltre che per risparmiare, per eliminare una volta per tutte la piaga del precariato che per decenni ha messo in discussione uno dei cardini della scuola, la continuità didattica? Non ci saranno più classi che ogni anno cambieranno insegnante? Niente affatto. Nonostante tutto proprio in questi giorni gli uffici scolastici territoriali stanno lavorando per coprire le cattedre che non hanno un titolare. Infatti, nonostante la manciata di immissioni in ruolo (16 mila, contro i 23 mila chiesti dalla stessa Gelmini al collega Giulio Tremonti), ci sono ancora migliaia di posti da assegnare, almeno al Nord. Ci sono addirittura sedi scolastiche ancora senza preside. E la soluzione non può essere che di tipo precario.Nel frattempo nelle scuole, e sempre a causa della riforma, ci sono almeno 10 mila insegnati cosiddetti soprannumerari. Insegnanti di ruolo che hanno il posto, ma non hanno più la cattedra. Che fare di queste persone che non avranno più una classe da guidare? Una situazione paradossale che il ministero ha affrontato con una circolare in cui si invitano gli uffici scolastici a lasciare questo personale per lo più nelle scuole dove hanno finora prestato servizio. A disposizione. E se ne vedranno di tutti i colori per cercare di tenerli in servizio senza fare nulla. Mai la scuola italiana ha vissuto tempi tanto assurdi. A scapito di chi ci lavora, e di conseguenza di chi la frequenta. Il nuovo anno scolastico è alle porte. Un anno che nelle intenzioni della Gelmini doveva rappresentare il recupero del merito e della qualità. Non è mai andata peggio di così.

Flamini(Prc)/Ikea: “Desta meraviglia che per la Cgil di Perugia sia incomprensibile un dibattito sul ruolo delle multinazionali”

Desta davvero meraviglia che la Cgil di Perugia, per bocca del suo segretario generale, faccia addirittura fatica a comprendere il senso del dibattito che si è aperto sulla vicenda Ikea.
Intanto, lo ribadiamo, considerare l’insediamento di questa multinazionale sul territorio come un’occasione, partire da questo presupposto, significa di fatto ritenere che ogni grande impianto commerciale che si presenti in Umbria vada accolto come la manna dal cielo. Poi si vedrà se, alle prime avvisaglie di crisi e dopo aver magari beneficiato di soldi pubblici, le “nostre” multinazionali se ne andranno lasciando al territorio solo nuovi disoccupati. Non fosse mai successo.
Certo, il lavoro è fondamentale. Ma il modello di sviluppo? Le ricadute sulle nostre attività produttive, non solo della città di Perugia, ma dell’intero territorio provinciale? I diritti delle lavoratrici e dei lavoratori? Su questi aspetti noi la pensiamo come il 40% delle lavoratrici e dei lavoratori di Pomigliano che hanno votato no all’accordo e al ricatto tra lavoro e diritti.Poi, affermare con certezza che Ikea porterà occupazione anche nella fase di costruzione dello stabilimento pare quantomeno azzardato. L’esperienza ci insegna che, di norma, l’allestimento dei cantieri avviene con ditte direttamente connesse alla multinazionale di turno. Non solo, la possibilità che la merce sarà completamente monomarca è reale e questo fattore non solo può indebolire possibili diversificazioni dei nostri produttori, ma può anche intaccare l’economia delle piccole e medie aziende locali del settore, dall’Alto Tevere all’Eugubino-Gualdese, dal Lago al Tuderte. Su questo problema specifico pensiamo che non possano essere derubricate le forti preoccupazioni arrivate da Federmobili, preoccupazioni che noi condividiamo e che interrogano tutti sul modello di sviluppo. Davvero si pensa di poter sostituire il lavoro artigianale con la distribuzione? Questo approccio già tanti danni ha fatto all’economia regionale determinando un impoverimento dei nostri saperi tradizionali e delle nostre professionalità, condannati sull’altare di un modello di lavoro a scarso valore aggiunto.
Per quanto attiene poi la qualità dell’occupazione e del lavoro, è bene ricordare che multinazionali di questo tipo difficilmente offrono impiego a tempo indeterminato visto che possono puntare sul precariato grazie alle sciagurate leggi sul lavoro promulgate dal governo Berlusconi.Insomma Rifondazione comunista di Perugia ha unicamente riconfermato quello che dice da anni e su cui anche e soprattutto la Cgil ha sempre lavorato e convenuto, e cioè che occorre, insieme almeno alle Regioni dell’Italia Mediana, definire strumenti normativi che regolino chiaramente i rapporti fra multinazionali e territorio partendo dalla responsabilità sociale delle multinazionali stesse, nel pieno rispetto delle nostre tradizioni democratiche, sociali ed imprenditoriali. Siamo consci ovviamente che sarebbe necessaria una legge europea ad hoc. Ma intervenire caso per caso non solo non ha più senso, ma ha prodotto spesso delocalizzazioni e perdite di posti di lavoro. Da lungo tempo ci battiamo anche perché le multinazionali presenti in Umbria adottino un codice comportamentale e di confronto con le istituzioni, le forze sociali e i lavoratori che non sia soltanto la ricerca del massimo profitto e del minor costo del lavoro, nonché delle sovvenzioni e degli aiuti pubblici, ma che punti ad un arricchimento del territorio, della qualità del suo sviluppo e della realtà occupazionale.
Aggiungiamo inoltre che non sarà sfuggito che i governi stanno tentando di intervenire in materia sia in Europa che negli Stati Uniti. La questione è che il nostro paese è talmente debole sul piano contrattuale che viene trattato dalle multinazionali come una mera colonia industriale. E così l’Umbria. Il problema vero è infatti che dopo aver deregolamentato l’economia, oggi non ci sono strumenti concreti a disposizione della politica per regolare il rapporto tra multinazionali e territorio. Per questo continuiamo a proporre la definizione di una legge sulla responsabilità sociale delle multinazionali. Diversamente quali sarebbero le modalità per determinare un equilibrio fra l’insediamento delle multinazionali con lo sviluppo della nostra filiera corta, con gli sbocchi commerciali per i prodotti umbri, con la valorizzazione e il potenziamento delle nostre realtà locali? Crediamo che questo dibattito stia a pieno titolo nel nostro tempo e nella nostra storia.
Enrico Flamini
Segretario Provinciale Prc Perugia

sabato 21 agosto 2010

Mondadori, il Cavaliere e l'evasione fiscale

Il 22 maggio scorso la Camera, trasformatasi per la 37esima volta in sartoria personale del premier, ha cucito una norma che ha tutto l'aspetto di un vestito fatto a posta per sanare le pendenze di Mondadori con il fisco. L'effetto è stato quello di far risparmiare all'azienda di Berlusconi, sottraendoli allo Stato, 165 milioni di euro.



I favori fiscali di cui ha beneficiato la Mondadori grazie alle norme ad hoc approvate dall'esecutivo, sono un atto gravissimo, una vera e propria alterazione delle regole di mercato. Uno schiaffo in faccia agli italiani onesti. Emerge ancora una volta l'enormità del conflitto di interessi del presidente del Consiglio e la natura corporativa di un governo che si preoccupa degli interessi del premier dimenticando gli italiani.
Secondo Bossi, Berlusconi e Tremonti il 5% è quanto devono pagare i grandi evasori nel nostro paese. Peccato che gli italiani in regola con il fisco paghino oltre il 43%. Fa senso sentir parlare di nuovo redditometro e di evasione fiscale e scoprire poi che il governo, per legge, la consente agli amici o alle aziende del premier. Si fanno favori fiscali a Mondadori ma si tagliano i soldi agli enti locali obbligandoli ad aumentare le tasse ai cittadini per continuare a garantire loro servizi essenziali. Si aiuta Mondadori e intanto l'economia italiana è maglia nera tra i paese sviluppati.
Dai banchi del Pd arriva quindi la richiesta di chiarimento. "Tremonti venga in parlamento e renda noto l'elenco delle aziende che hanno beneficiato, oltre alla Mondadori, dell'articolo 3 del decreto incentivi che ha offerto soluzioni per le controversie tributarie. Insomma, venga a smentire, se può, che sia stato un condono 'privato' per l'azienda della famiglia Berlusconi", chiede Francesco Boccia, coordinatore delle commissioni Economiche del Pd, il quale ricorda che "il gruppo dei Pd sollevò in Aula sdegnate e forti proteste contro quella norma proprio perché rappresentava un evidente caso di conflitto di interessi. Infatti, la Mondadori avrebbe incassato la sospensione della causa civile promossa dall'Agenzia delle Entrate. Tutto ciò avveniva mentre si chiedevano sacrifici al paese: ora Tremonti e l'intero Governo Berlusconi si prendano la responsabilità di spiegare questa gestione privata nel nostro sistema tributario".

mercoledì 18 agosto 2010

QUALCHE SEGRETO E TROPPE BUGIE


L'italia dei Gattosardi piange Cossiga, il suo campione. Ma Nando Dalla Chiesa non ci sta: "Costruiva trame inesistenti, spacciava panzane per misteri e ricordava i morti diffamandoli. Non mi mancherà


Sarò onesto, Cossiga non mi mancherà
Certo non si porterà nell'aldilà solo i segreti veri di questa Repubblica. Si porterà anche i segreti da lui inventati, le trame inesistenti fatte intravedere, le panzane spacciate per misteriSarò onesto: non mi mancherà. Guai se la pietà per la morte offuscasse la memoria e il giudizio che la memoria (viva, ben viva) porta con sé. Non esisterebbe più la storia. E dunque, parlando di Francesco Cossiga, rifiuterò il metodo che gli fu alla fine più congeniale: quello di ricordare i morti diffamandoli, dicendo di loro cose dalle quali non potevano difendersi. Fidando nel fatto che i familiari una cosa sapevano con certezza: che se avessero osato replicargli lui avrebbe inventato altri episodi sconvenienti ancora e poi li avrebbe dileggiati, forte della sua passata carica istituzionale e della compiaciuta docilità con cui la stampa ospitava ogni sua calunnia. Fece così con Moro, con Berlinguer, con il generale dalla Chiesa. Fece così con altri. Era nato d’altronde un autentico genere giornalistico, l’intervista a Cossiga, che consisteva nel mettergli davanti un microfono o un taccuino e ospitare senza fiatare le sue allusioni, le sue bugie.Da trasformare in rivelazioni storiche, provenienti dal loro unico e inesauribile depositario. Mi atterrò dunque ai fatti che tutti possono pubblicamente controllare. Perché ai tempi fui tra parlamentari che ne chiesero l’impeachement, anzitutto. Perché io il sistema politico di allora, quello che chiamavo il regime della corruzione, lo volevo cambiare per davvero. Ma per renderlo conforme alla Costituzione e a un decente senso delle istituzioni. Perciò mi scandalizzavo nel vedere un capo dello Stato giocare soddisfatto al picconatore, conducendo una massiccia attività di diseducazione civica. Quando poi Cossiga si mise alla testa della lotta contro i giudici, minacciando, lui presidente del Csm, di farlo presidiare militarmente dai carabinieri avvalendosi delle sue prerogative di Capo supremo delle Forze armate, pensai che la misura era colma. Che l’uomo esprimeva una cultura golpista e che era nella posizione istituzionale per tradurla in realtà politica.

Le chiavi di casa e i giudici ragazzini

Perché titolai la storia di Rosario Livatino “Il giudice ragazzino”. Esattamente in polemica con lui, che delegittimava i giovani magistrati che in Sicilia sfidavano la mafia. A questi giudici ragazzini non affiderei neanche le chiavi di una casa di campagna, aveva detto. E Livatino, morto a trentotto anni, aveva compiuto le sue prime coraggiosissime inchieste quando di anni ne aveva ventotto. Avevo imparato dai racconti di mio padre che quando si ha a che fare con la mafia chi ha un grado superiore protegge chi sta sul posto, ci passeggia insieme in piazza perché tutti capiscano. Che non è solo, che ha dietro lo Stato. Lui, capo dei magistrati, aveva invece umiliato sprezzantemente proprio i giudici più esposti negli anni della mattanza. Perchémi astenni, unico nel centrosinistra, sulla fiducia al primo governo D’Alema. Non per oltranzismo ulivista, ma perché non ero certo entrato in parlamento per fare un governo con Cossiga e con ciò che lui rappresentava nella vita del paese e nella mia vita personale. Il testo dell’intervento pronunciato in quell’occasione è agli atti. Allora mi valse richieste di interruzione da sinistra e qualche stretta di mano (tra cui quella di Gianfranco Fini). Perché l’ho spesso citato – ma non quanto avrei voluto – nei libri, negli articoli o negli interventi che avevano per oggetto la vicenda di mio padre.

Veleni attorno a un sacrificio

Perché ho sempre trovato maramaldo quello spargergli veleno intorno dopo il suo sacrificio. Non ho mai capito se fosse il seguito dell’isolamento che il sistema aveva inflitto al prefetto dopo l’ annuncio che sarebbe andato in Sicilia per combattere la mafia per davvero. Ricordo però con certezza che Cossiga iniziò a colpirne l’immagine in vista del maxiprocesso presentandolo con naturalezza come iscritto alla P2. I giudici che avevano indagato a Castiglion Fibocchi, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, mi garantirono che loro nella lista quel nome non l’avevano trovato. Lui insisté contro ogni atto giudiziario e parlamentare (della storia ho reso i particolari su “In nome del popolo italiano”, biografia postuma di mio padre, nel 1997). Finché anni dopo ancora raccontò la sua pazzesca verità: per proteggere mio padre Colombo e Turone, giudici felloni, avevano strappato un foglio dall’elenco. Non smise mai di raccontarlo. Così come, per sminuire il lavoro di Giancarlo Caselli e di mio padre contro il terrorismo, sostenne un giorno, poco dopo l’avviso di garanzia per Andreotti a Palermo, che il vero merito del pentimento di Patrizio Peci fosse di un maresciallo delle guardie carcerarie di Cuneo. Costui venne da lì lanciato pubblicamente in orbita giornalistica e televisiva per seminare nuove e inverosimili calunnie su mio padre, alcune delle quali si sono ormai purtroppo depositate negli atti giudiziari (tra i quali rimane però anche, a Palermo, il testo della controaudizione da me richiesta).Altro verrebbe da dire, dalla memoria di Giorgiana Masi uccisa in quella famigerata manifestazione del ‘77 zeppa di infiltrati in armi, al contrasto avuto con lui in Senato, dai banchi della Margherita, sui fatti della Diaz, che lui, sedicente garantista, avallò senza scrupoli. Come e più che con Giovanni Leone, che non ebbe comunque le sue colpe, avremo probabilmente un mieloso coro di elogi. Poiché l’uomo ha incarnato alla perfezione la qualità media della nostra politica questo è assolutamente naturale. Certo non si porterà nell’aldilà solo i segreti veri di questa Repubblica. Si porterà anche i segreti da lui inventati, le trame inesistenti fatte intravedere, le panzane spacciate per misteri. Riposi in pace, e che nessuno faccia a lui i torti che lui fece alle vittime della Repubblica.

LA CRISI EUROPEA PUO' ESSERE UN'OCCASIONE

Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o la distruzione dell'ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scende: l'occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salario nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono le attese scende la fiducia. Scende per finire l'energia psichica. Nessuno crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l'Economist naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedono allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamata adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato di aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più - e per fortuna, visto che l'oggetto automobile si è da lungo tempo rivelato inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzione nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mondo presentandosi come il salvatore dell'industria dell'auto. È difficile capire perché si debba salvare un'industria che produce oggetti ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuole comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant'è: questo tizio va in giro per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che costi (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l'agonizzante presidente Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insieme hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signor Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che lo stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l'impresa che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, è sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso della Chrysler per l'appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita da Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a queste condizioni sono capace anche io a fare l'imprenditore, anzi il capitano coraggioso.
Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzione dell'inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosa l'erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro, piuttosto che l'insistenza nel produrre l'inutile in cui si distingue Marchionne.Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamento dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione europea: presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti e superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva. E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella cultura europea, le energie e l'intelligenza capaci di rovesciare questa situazione, di cogliere l'occasione di una crisi senza vie d'uscita per indicare la via d'uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dalla super-produzione dell'inutile. Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose una riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e al dogma della crescita economica basata sull'automobile e sul petrolio, oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi che hanno sorretto l'edificio dell'umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa di differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contro il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usata per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso il profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentando l'intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatto della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserva che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definire neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L'Economist di nome Charlemagne in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dice che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progresso sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora è da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dice Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo. Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, e addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come se la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l'amore, invece di crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punto Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie alla forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinato al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresso è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso sociale culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quando i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale è costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovative, per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano tempo libero, e possono destinarlo all'istruzione, ai loro affetti, alla salute. Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace di curare se stessa.Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo del lavoro. Di conseguenza si riduce anche l'interesse del capitale a investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare un operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o un servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzione tecnologica, una riduzione dell'investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigente europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressione nell'impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca per nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana della società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni è destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino sta nella capacità di abbandonare l'intero quadro della superstizione economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il futuro della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologico del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l'occasione per iniziare - proprio qui, dove il modello si è formato nei cinque secoli della modernità - il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichiche, culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendente? Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea. Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso di Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farsi immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire al piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.

Franco Berardi "Bifo"


Il Manifesto

martedì 17 agosto 2010

Il benservito dei padroni a Berlusconi

Perché mai i padroni italiani, nonostante il fatto che il programma del governo sia identico al programma di Confindustria, stanno dando il benservito a Berlusconi? Per un sussulto costituzionale, per amore della legalità, per difendere il buon nome d’Italia nel mondo, per indignazione morale? Niente di tutto questo. Per comprendere il motivo di questo preavviso di licenziamento (l’unico contro il quale non ci sogneremmo di protestare) bisogna comprendere il paradosso che rende continuamente instabile la scena politica italiana, ossia il fatto che il gruppo economicamente dominante (il “grande capitalismo” privato bancario ed industriale, ingrassatosi con l’acquisto a basso costo delle imprese e delle banche pubbliche) non riesce ad essere dominante anche politicamente o, meglio, non riesce a dar vita ad un partito e ad un governo che rappresentino direttamente i suoi interessi. Questa incapacità, resa evidente dalla difficoltà di creare il “grande centro” dal quale condizionare tutti i possibili schieramenti, deriva dal fatto che il gruppo dominante è incapace di far progredire il Paese (ne fa fede la contemporanea diminuzione del tasso di crescita del Pil e della quota del reddito da lavoro sul Pil stesso) e quindi di assicurarsi il necessario consenso sociale. Cosicché è obbligato ad usare come classi di sostegno proprio quelle stesse classi che patiscono (pur se assai diversamente) del suo dominio, ossia il lavoro ed il “piccolo capitalismo”, appoggiando e tentando di influenzare ora il centro sinistra ora, e con più convinzione, il centro destra. E’ obbligato a governare attraverso governi che, pur assai benevoli, sono sostenuti da interessi divergenti dai suoi.Berlusconi, quindi, non è mai stato il rappresentante organico e diretto di tutto il capitalismo italiano. Estraneo al salotto buono, pieno di soldi d’incerta origine, più propenso alla finanza allegra che ai tagli di bilancio, troppo ossessionato dai suoi guai giudiziari, il nostro non ha mai avuto con Confindustria un rapporto lineare: ha tentato, su incarico di Giovanni Agnelli, di tagliare le pensioni, ma si è bruciato le mani; con D’Amato ha mirato allo Statuto dei lavoratori, ma gli è andata buca, ha allora iniziato a farsi i fatti suoi, anche perché Confindustria era ormai nelle mani del centrista Montezemolo. Ma negli ultimi tempi le cose sono cambiate: complice la crisi e l’impossibilità di sperperare troppo denaro pubblico a vantaggio delle sue clientele, per trovare un solido paravento contro “le procure”, il Cavaliere ha dovuto saldamente allearsi con una Confindustria che, nel frattempo, si è data un programma apertamente antisindacale. Ecco dunque il governo Berlusconi–Tremonti-Marcegaglia. Ciononostante, arriva il benservito. Perché?Perché nel frattempo Sergio Marchionne ha ricordato a tutti, ed anche a Confindustria, quanto dura sia la crisi e quanto nette ed impopolari siano le scelte da compiere se la si vuole affrontare dal punto di vista dei padroni. Queste scelte non possono essere gestite da un governo debole, e Berlusconi, nonostante tutto, è reso debole dalla necessità di sfuggire alle manette e dai continui, devastanti conflitti istituzionali che è disposto a creare a tale scopo. Per questo Fini si smarca, per questo Montezemolo avanza, per questo Draghi attacca e tutti invitano il nostro a restare a cuocersi nel suo brodo mentre gli altri preparano un’alternativa: il vero grande centro che finalmente possa dedicarsi indisturbato ai rapporti di classe, incassando politicamente, con una nuova alleanza, il plauso già sollecitamente tributato da buona parte del Pd alla linea Marchionne.Se oggi i padroni sfiduciano Berlusconi non è per improvvisa convergenza coi temi dell’opposizione: è per la necessità di assicurare la stabilità (sempre invocata da Confindustria, dalla Banca d’Italia e dalla stessa Chiesa) e proseguire con maggior comodo nell’attacco ai lavoratori.Questo è lo stato dell’arte. E di questo si deve tenere attentamente conto ogni volta che si propongono le diverse ipotesi della pur inevitabile politica unitaria. Anche perché, se tutti siamo d’accordo sul fatto che la sconfitta di Berlusconi è preliminare ad ogni altro avanzamento, questa sconfitta rischia di essere impossibile (e Berlusconi rischia di governare di nuovo, ma col solo consenso del suo “popolo” e quindi in maniera ancor più disastrosa) se il fronte che gli si oppone si identifica completamente nelle posizioni di Marcegaglia e Draghi. Per battere Berlusconi bisogna spostare di nuovo a sinistra quei voti popolari fluttuanti (del Nord ovest e del Sud) che nel 2006 diedero la vittoria a Prodi e nel 2008 la negarono a Veltroni: disoccupati, precari, giovani che hanno bisogno immediatamente, e fatte salve più articolate proposte per affrontare la crisi, di forti sostegni al reddito che possono essere garantiti solo da una proporzionale sottrazione di risorse a coloro che sulla crisi comunque lucrano. Se non affronta in qualche modo questo problema, ogni pur ampia coalizione rischia una sconfitta che oggi avrebbe conseguenze gravissime.Tutti questi nodi sono sottovalutati, a mio parere, nel pur argomentato articolo che Piero Di Siena ha recentemente scritto per Liberazione. Di Siena ci invita a rinverdire lo spirito della svolta di Salerno, quella con la quale Togliatti propose, nel 1944, una politica unitaria per completare la sconfitta del fascismo e per costruire in Italia una democrazia progressiva. Si trattò allora, indubbiamente, di un colpo d’ala. Ma oggi sarebbe un colpo a vuoto: oggi non siamo di fronte, come allora, ad una borghesia sconfitta, incerta sul da farsi, incapace di capire su chi puntare; né siamo di fronte a partiti di nuova formazione, ancora privi di rapporti organici e coerenti col mondo industriale e finanziario. Oggi è proprio la borghesia a dettare contenuti e tempi di un cambio di regime, mentre costruisce il proprio partito di riferimento. Se è alla lucidità storica e politica di Togliatti che vogliamo guardare, guardiamo allora al Togliatti delle Lezioni sul fascismo, quello che, analizzando realisticamente le forze in campo, sapeva individuare, dietro l’ascesa del “regime reazionario di massa”, l’“elemento organizzatore” fornito dalla grande borghesia italiana: lo stesso elemento che oggi propone, ma nello stesso tempo rende difficile, l’auspicabile ma non sicuro disarcionamento del Cavaliere. Per battere il fascismo allora, come oggi per difendere la Costituzione, sarebbe stata necessaria una tattica duttile, basata però su una precisa comprensione dei rapporti di classe: cosa che mancò negli anni ’20 e sembra ancora mancare, quasi cent’anni dopo.
Mimmo Porcaro, Liberazione 17.08.2010

Chi fermerà gli oligarchi?

Perché non si può leggere la crisi italiana solo in termini politici o istituzionali. Una risposta a Padoa Schioppa.

Non meraviglia che le élite dominanti si esercitino in una lettura tutta politica della crisi esplosa con la rottura del Pdl. «La politica curi la politica» era il titolo emblematico dell'editoriale del Corriere della sera del 14 agosto a firma di Tommaso Padoa-Schioppa (do you remember?). Non si tratta solo di schemi ideologici (l'idea che la contesa tra i partiti riguardi il sistema politico, per definizione separato dal contesto sociale). Influiscono anche interessi molto concreti, poiché circoscrivere il discorso al piano politico-istituzionale permette di ignorare il tema del modello sociale e di un reale rinnovamento della classe dirigente. Stupisce invece che la prospettiva politicocentrica, affine alla tesi dell'autonomia del politico, prevalga anche a sinistra. Stupisce e allarma, perché la confusione tra la malattia e i suoi sintomi è in questo caso un segno di grave regressione.Una verità Padoa-Schioppa la dice: le questioni alla base della crisi hanno natura costituzionale. Ma non si tratta tanto, come lui crede, dello scontro tra diverse concezioni dello stato, della politica e della legalità - questioni cruciali, ma risolvibili ridefinendo i rapporti di forza in seno alla classe dirigente che guida il paese da vent'anni a questa parte. La crisi in atto è diversa dalle precedenti perché certifica la fine della transizione inaugurata nei primi anni Novanta dal terremoto di Mani pulite e approdata due anni fa alle prove tecniche di bipartitismo dirette dall'asse Veltroni-Berlusconi sullo sfondo del nuovo binomio Pd-Pdl. I 15-20 anni della cosiddetta Seconda repubblica sono alle nostre spalle. In questo turbinoso periodo l'Italia è cambiata in profondità: nella composizione sociale, nei rapporti di forza tra le classi, nelle relazioni industriali, nella forma di governo, nel paesaggio culturale, nella stessa antropologia. Gli indicatori che misurano lo stato del paese e che raramente figurano nelle analisi della crisi politica (i dati su distribuzione del reddito, precarietà del lavoro, proprietà e controllo delle grandi imprese e dei maggiori mezzi d'informazione) dicono senza tema di smentite che sono state poste tutte le premesse perché l'Italia divenga anche formalmente una Repubblica oligarchica, fondata sull'asservimento del lavoro dipendente (in particolare operaio): sul suo impoverimento e sulla negazione della sua soggettività. La questione che oggi non soltanto la crisi politica, ma anche e in primo luogo la recessione mondiale pongono all'ordine del giorno è quale configurazione il paese debba stabilmente assumere (sul terreno economico e sociale, prima ancora che sul piano politico-istituzionale) dopo la grande devastazione compiutasi in questo ventennio e al termine dell'agonia del potere berlusconiano. In questo senso la crisi è costituzionale e sarà costituente. A quale esito approderà? Francamente, non si vedono molte ragioni di ottimismo. L'unico soggetto capace d'iniziativa è al momento il grande capitale privato, protagonista della transizione neo-oligarchica. Marcegaglia, Montezemolo e soprattutto Marchionne tengono la scena della crisi, lanciando segnali in tutte le direzioni. La pretesa è nota: smantellata la Prima Repubblica e svuotata la sua «obsoleta» Costituzione, ristabilire e costituzionalizzare l'ordine liberale, fatto sì di legalità e di rispetto dello stato di diritto, ma anche di sovranità dell'impresa privata e di silenzio del conflitto operaio e sociale; di iniquità fiscale e funzione servile dello Stato; di privatizzazione delle istituzioni e trasmissione ereditaria delle posizioni sociali. Tanto dinamismo dimostra che il padronato intuisce la portata della posta in gioco. Gli interlocutori non gli mancano. Ha anche avversari? Questo è il punto, al di là delle dispute tra gli schieramenti parlamentari e degli stessi sviluppi istituzionali dello scontro politico. Lo si capirà già nelle prossime settimane dalla disponibilità delle componenti più avanzate del centrosinistra ad aprire una discussione vera su quanto è accaduto negli ultimi 20 anni e a riflettere criticamente sulle scelte compiute sul terreno sociale e istituzionale. Queste scelte non hanno soltanto accompagnato e in qualche caso prodotto la sconfitta del lavoro nel nostro paese. Hanno anche determinato la scomposizione del blocco sociale imperniato sul lavoro dipendente, la crisi storica del sindacato e la frantumazione della rappresentanza politica delle classi lavoratrici e dei settori sociali più esposti agli effetti perversi della «modernizzazione neoliberista». Anche se al momento non si vedono che pallidi segnali di ripensamento, non è escluso che la gravità della crisi sociale e politica porti con sé una nuova consapevolezza. Pensarlo non è impossibile, sperarlo è doveroso.

di Alberto Burgio
su il manifesto del 17/08/2010

lunedì 16 agosto 2010

SENTI CHI PARLA

Chicco snob caduto da cavallo
La sinistra è snob. Questo si sa. Negli ultimi quindici anni ce lo siamo sentiti dire un po’ da tutti. Da quelli che rombano sui suv, dagli intellettuali che apprezzano i cinepanettoni dove si dice spesso “aò, buzzicona!”, dai possessori di ville principesche, dai produttori del velinismo nazionale e da utilizzatori finali vari. La sinistra è snob, non c’è niente da fare. Quindi, mi sono detto ieri leggendo il Corriere, sai che novità se me lo dice anche Chicco Testa, presidente dell’Enel, ex ecologista, oggi gran sostenitore del nucleare. Chicco Testa, come no. L’ho visto recentemente scalmanarsi scomposto in un dibattito in tivù e questo me lo conferma italianissimo e contemporaneo. Ma torniamo a noi snob. Chicco Testa attacca Carlin Petrini – mi sfugge in realtà per quale motivo, ma credo sarà lo snobismo di Carlin Petrini, ovvio – e ribadisce il concetto: “La sinistra è scivolata su posizioni elitarie, aristocratiche, assolutamente snob”. E dàgli. Chicco Testa pronuncia questa feconda verità sulla sinistra snob mentre se ne sta a cavallo, in Maremma, una delle cose meno snob che si siano mai viste (milioni di metalmeccanici di sinistra attraversano la Maremma a cavallo, è noto, forse per cercare Chicco Testa e catturarlo al lazo). La cronaca e l’intervista sono impietose per il povero Chicco. “Si sente il cavallo nitrire”, scrive il Corriere. E lui, Chicco Testa, il “picconatore della sinistra snob”, chiede che non si facciano ironie sul suo cavalcare maremmano: “E’ solo un vecchio ronzino”. Un purosangue sarebbe stato snob, ma un ronzino… E poi giù con altre riflessioni e contumelie e argomentazioni, che ha pure vergato (si spera scendendo da cavallo) su Il Riformista (me’ cojoni, direbbe uno snob) citando pure Marx, per non farsi mancare niente. Sono passate 24 ore e ancora sto ridendo. Chissà se Chicco è riuscito a cavalcare fino a casa, se il ronzino è stato all’altezza, se ha riflettuto ancora sulla sinistra elitaria, se giunto alla stalla ha sorseggiato un Martini nel tramonto di Capalbio, magari mentre un cameriere snob glielo serviva. Ghiacciato.

Alessandro Robecchi,

Il Manifesto, 15.08.2010

Ikea: sviluppo povero e lavoro precario

Umbria terra di conquista? Nuove opportunità di impiego o la reiterazione di lavoro precario e strapotere economico delle multinazionali? La vicenda Ikea torna a proporre questi interrogativi e molti altri. La richiesta di Confesercenti a Comune e Regione di avere precise informazioni sulla portata della operazione, per poter valutare l’effettivo impatto sul territorio, lascia intendere che sono molti e diversi gli aspetti da valutare. La stessa questione della legge regionale sul commercio 24/99 eventualmente da modificare, non è cosa da poco. Se per ogni grande impianto commerciale che si presenti in Umbria bisognasse cambiare le leggi, cosa le facciamo a fare, queste leggi; dobbiamo pensare che la politica si possa asservire ai poteri economici? La costruzione di una struttura come quella dell’Ikea poi, porterebbe realmente vantaggi economici alle aziende locali? L’allestimento del cantiere avverrà con ditte direttamente connesse alla multinazionale e, ovviamente, la merce sarà completamente monomarca, quindi niente produttori locali.Il fattore lavoro precario, poi, riveste un’importanza vitale; megastrutture di marca multinazionale come queste difficilmente offrono impiego a tempo indeterminato, se non per alcune figure amministrativo-dirigenziali, e con la complicità delle sciagurate leggi sul lavoro promulgate dal governo Berlusconi non avranno obbligo alcuno a stabilizzare i lavoratori.Una struttura del genere, inoltre, facilmente intaccherà l’economia delle piccole e medie aziende locali, dei commercianti, senza parlare dello stravolgimento urbanistico del territorio con la necessaria creazione di vie di comunicazione.Da tutto questo, che cosa ne avrà da guadagnare l’Umbria? Gli incassi della megastruttura non saranno reinvestiti in ambito locale, ma saranno trasferiti alla sede nazionale. Tutti soldi che se ne vanno dall’Umbria, in un periodo sicuramente non favorevole all’economia delle famiglie e con le prospettive per il futuro altrettanto non rosee.Riteniamo che il privilegiare le realtà produttive e commerciali locali, la cosiddetta “filiera corta” sia vitale per la sopravvivenza di un territorio fortemente caratterizzato da una qualità artigianale e imprenditoriale a carattere familiare di alto profilo.
Stefano Vinti,
Segretario Regionale Prc