lunedì 13 settembre 2010

Diritti sul lavoro: anno zero

Se non c’è la fabbrica non ci sono i diritti” è la frase più ripetuta del momento. Vuol dire: “Lasciate fare all’impresa, che sa cosa è bene e che cosa è male”. Ecco dunque la frase che molti, anche nel Pd (un partito che dovrebbe essere “del lavoro” più di tutti gli altri rappresentanti in Parlamento) considerano “innovazione”. È “innovazione” perché libera l’impresa dalla “rigidità” (altra parola in voga per dire il nemico dell’innovazione) e dal dovere di mantenere impegni presi, con contratti debitamente firmati da tutti, verso i lavoratori. A proposito, avete mai notato che l’opinione pubblica e politica non viene mai coinvolta in un dibattito sulle imprese (come vanno, dove vanno), ma sempre, solo sul lavoro e gli operai come unica ragione di conflitto, crisi, delocalizzazione, chiusura?
Le regole buttate al macero


La storia del mondo industriale democratico non ci dà nessuna notizia di aziende affondate a causa del costo del lavoro. Ma la proposta adesso è “innovazione” perché non solo vuole tagliare liberamente i costi. Intende cancellare ogni patto precedentemente stipulato tra impresa e lavoro. Ora, dopo una violentissima crisi economica che ha scosso, con la furia di un ciclone, un’Europa senza economisti e senza idee e un’Italia senza governo, la proposta è di uscire da una crisi grande come il ‘29 (parola di esperti) facendo esattamente l’opposto dell’America del New Deal. Che cosa vuol dire New Deal? Vuol dire nuovo patto. Vuol dire futuro, fiducia (non fiducia astratta, ma fiducia gli uni negli altri) e comunità (siamo insieme, o tutti o nessuno, il Paese sono le sue fabbriche e ogni fabbrica è il Paese, Costituzione, leggi, regole concordate). Che cosa accade adesso in Italia? Non solo non ci sarà un New Deal, ma non ci sarà niente. Anzi, facciamo una cosa. Per evitare equivoci, cancelliamo ogni patto che c’era prima. Via i contratti nazionali. Via le regole discusse e negoziate da una parte e dall’altra, a volte per anni e con confronti anche duri, ma – ovviamente – con l’intento umano e civile di proteggere la parte più debole, che non può ogni volta presentarsi in fabbrica con una batteria di avvocati.
Così inizia il monologo delle aziende.


Il nuovo slogan è “basta con la lotta di classe”. Nel caso della fabbrica, “fine della lotta di classe” (che per fortuna non c’era; c’erano, come dicono i codici, parti e controparti, con molti interessi diversi e uno grande in comune: il lavoro) vuol dire che una parte tace e l’altra è libera di iniziare il grande monologo. Vanno bene 10 minuti per la pausa mensa? Va bene andare in bagno due volte invece di tre? Va bene fare straordinari la notte e il sabato senza retribuzione? Va bene fare o non fare, o interrompere le ferie, sempre a titolo di donazione del prestatore d’opera alla fabbrica? Non devi rispondere. Se lo fai, disturbi la produzione e potresti essere accusato di sabotaggio. La pena è il licenziamento. E se il giudice – restato indietro con le leggi ancora non abrogate della Repubblica – ti reintegra nel posto di lavoro, questo fastidioso dettaglio alla controparte che conduce il monologo non interessa. La controparte è avanti, è nel futuro, è con l’innovazione, confortata dal fatto che anche la ex sinistra chiama innovazione la cancellazione dei diritti. Dunque, giudice o non giudice, vi possiamo buttare la busta paga sulla porta, ma dovete restare fuori.
La nuova versione di “O la borsa o la vita”


Per buona misura interviene, nell’umiliante caso di Melfi (tutta la Fiat contro tre operai) il settimanale Panorama (9 settembre 2010) con la più spregevole copertina mai apparsa nel giornalismo italiano. La forza di un periodico da milioni di copie viene gettata contro tre operai da 1.000 euro al mese (quando non sono – e lo sono spessissimo – in cassa integrazione), messi alla gogna in copertina con la loro fotografia e il titolo “Gli eroi bugiardi”; l’accusa (sempre in copertina) di sabotaggio, dunque di un reato, che dà dello stupido (e anche del comunista) al giudice che li ha reintegrati nel loro posto di lavoro. È una nobile iniziativa che assicura a quegli operai che non saranno mai più accettati in alcun posto di lavoro in Italia. Ma tutto trova la sua giustificazione nel nuovo motto da issare sui cancelli: “Se non c’è la fabbrica, non ci sono i diritti”. La prima reazione, che avrebbe dovuto dare una scossa a tanti silenzi ed evitare qualche lode fuori posto, è che la frase corrisponde in modo quasi letterale al celebre grido dei vecchi racconti polizieschi: “O la borsa o la vita”. Il messaggio è chiaro: o cedi o finisci sulla copertina di Panorama. Ma c’è l’altro aspetto inquietante. La frase resta intatta se formulata a rovescio: “La fabbrica c’è se non ci sono i diritti”. D’ora in poi la fabbrica è extraterritoriale. Si fa secondo le regole che vigono nel territorio in cui vuoi essere accettato perché un po’ ti pagano. Se non ti va bene, ti accompagnano subito alla frontiera. Ora ditemi se tutto un mondo di persone, che un tempo chiamavamo lavoratori, deve rassegnarsi a vivere senza un sindacato (l’immagine della Fiom è peggiore di quella di Vallanzasca), senza un partito (vedi la cauta distanza del Pd dalla questione), con la sola opzione di obbedire. E il rischio di un linciaggio pubblico nello sciagurato caso di una protesta.
Furio Colombo

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