martedì 2 novembre 2010

Il regime dei padroni da Berlusconi a Marchionne

Esce in questi giorni in libreria “Il regime dei padroni, da Berlusconi a Marchionne” di Giorgio Cremaschi. Con questo suo nuovo libro il sindacalista della Fiom affronta temi che sono di ancor più stringente attualità, dopo le polemiche sulla recente intervista televisiva di Sergio Marchionne e le grandi controversie della vicenda Fiat. Cremaschi colloca la vicenda di Pomigliano e il conflitto in corso alla Fiat nel quadro della progressiva crisi della democrazia italiana. L’autore ripercorre le principali vicende sociali e politiche degli ultimi trent'anni dal punto di vista del mondo del lavoro, inquadrando la situazione attuale nelle sue radici storiche, a partire dalla marcia dei quarantamila. Lo sbocco finale di questa crisi, secondo Cremaschi, è un regime aziendalistico fondato sul dominio assoluto dei valori dell'impresa e del mercato, che cancella non solo la costituzione materiale, ma anche quella formale del nostro paese. Così l'Italia viene descritta come un paese nel quale gli effetti negativi della globalizzazione sono accentuati da una crisi politica che viene da più lontano. In Italia, oramai, vengono messe in discussione conquiste sociali, civili e democratiche che traggono origine dalla sconfitta del fascismo. Con questo suo terzo libro, dopo Liberismo o libertà e Il salario è un furto, Giorgio Cremaschi, intrecciando analisi dei fatti, ironia e indignazione, entra direttamente in quella che è stata definita la crisi della seconda Repubblica.

IL RIFORMISMO DELLA MISERIA
di Giorgio Cremaschi
(stralci da "Il riformismo della miseria", sesto capitolo dell'ultimo libro di Giorgio Cremaschi "Il regime dei padroni" (Editori Riuniti, pp.220, euro 15,00)
Oggi riformismo è diventato sinonimo di trasformismo. Cioè di quel fenomeno politico di fine Ottocento, definito dal poeta Giosuè Carducci come: “La sinistra che si fa destra senza essere più sinistra e senza essere vera destra”. Oggi la ripresa del progresso sociale e civile può essere guidata solo da una cultura conflittuale. Anche per ottenere piccoli cambiamenti bisogna costruire conflitti che rompono le compatibilità del potere. Non si può più essere riformisti, ma modernamente e democraticamente rivoluzionari.


Tina: There Is No Alternative. Non c'è alcuna alternativa. L'acronimo della globalizzazione è questo.
Il primo che l'ha adoperato nella polemica politica quotidiana è stato il primo ministro britannico, signora Margareth Thatcher, nelle sue guerre degli anni Ottanta contro i minatori e contro tutte le conquiste sociali del suo paese. Non c'è alternativa: le scelte del mercato hanno la stessa oggettività della natura, sono eventi naturali. Che poi l'ideologia della naturalità del mercato sia professata da parte di chi sta distruggendo gli equilibri dell'ambiente e della vita sul pianeta, è solo il segno che, chi pensa così, in realtà pone il mercato al di sopra di tutto. Per i fanatici del Tina il mercato è la prima natura. La natura vera, quella che ci circonda, viene dopo e può essere manipolata a piacere. L'aria, l'acqua, la terra e la vita possono essere sfruttate e devastate, perché gli unici limiti realmente intoccabili sono quelli del profitto. Il delirio d'onnipotenza che si manifesta dietro la sindrome del Tina è mal simulato dalla oggettività di cui si circonda. Evidentemente un potere che si legittima dando forza di natura alle proprie scelte, si sente insindacabile. Può essere solo rovesciato, come i sovrani assoluti francesi, che erano figure sacre, addirittura dotate di capacità taumaturgiche. Ai sovrani francesi l'autorità veniva direttamente da Dio; ai potenti della globalizzazione viene direttamente dal mercato. La svolta politica liberista dei governi ha così prodotto, come effetto collaterale, la distruzione del prodotto più tipico della cultura politica europea: il riformismo.
Ma com'è possibile affermare che il riformismo sia stato distrutto dalla globalizzazione, se oggi la maggior parte delle forze politiche di destra e di sinistra usano questo termine per autodefinirsi?
Sono riformisti i sindacalisti e i governanti, gli scienziati e i teologi, gli imprenditori e gli operai. Il riformismo pare abbracciare tutto e tutti, definisce il perimetro che chiude il campo della politica reale; perimetro oltre il quale veleggiano solo le utopie. (...)
Nella storia europea il riformismo è sempre stato la cultura politica e sociale della crescita equilibrata, senza avventure rivoluzionarie. Soprattutto dopo la sconfitta del fascismo è stato l'alternativa vincente rispetto al comunismo, che aveva conquistato l'Europa orientale. Il riformismo mostrava che potevano crescere i diritti sociali e il benessere, poteva affermarsi un certo livello di eguaglianza sociale, anche senza mettere in discussione la democrazia, come invece si faceva a Oriente. Il cambiamento graduale, l'equa ripartizione della ricchezza senza danneggiare davvero nessun ceto sociale, lo sviluppo che includeva sempre più persone nella cittadinanza: tutto pareva destinato a continuare. (...)
Quando invece il riformismo ha preteso di definirsi come tale, proprio allora il progresso graduale si è arrestato e le società europee hanno cominciato a regredire. Così il riformismo ha trovato la sua precisa collocazione. Non era più lo strumento per disciplinare la crescita economica e l'eguaglianza sociale senza avventure rivoluzionarie, ma quello per governare la ritirata dalle conquiste sociali e civili di un secolo. Se non ci sono alternative al domino del mercato globalizzato, compito del riformismo è di educare ad accettare le perdite, trasformandole in rinunce condivise. Riformismo diventa così una parola malata, secondo il giudizio dell'ex segretario della Cgil Sergio Cofferati. Una parola che serve semplicemente a sorreggere le ragioni del potere. Sono tutti riformisti, perché nessuno lo è davvero più. (...)
Il compromesso riformista prevedeva che il pubblico guadagnasse spazi e arrivasse anche a rilevare importanti settori del sistema industriale e del sistema bancario. Tutto, però, senza intaccare gli affari e i poteri fondamentali della casta economica che guidava le imprese private. In ogni caso anche questo compromesso venne messo in discussione a partire dagli anni Ottanta e da allora la parola riforme ha cambiato il suo significato sociale. Oggi i lavoratori, quando sentono parlare di riforme, subito hanno un brivido e mettono la mano per tenere fermo il portafogli. Essi sanno perfettamente che le riforme cui si allude li riguardano. Di riforme strutturali oggi parlano il Fondo monetario internazionale, la presidenza della Banca europea, le agenzie di rating che danno i voti sull'affidabilità speculativa delle aziende così come degli stati, la Confindustria e il sistema delle imprese.
Se un'economia non va bene, vuol dire che ha bisogno di riforme strutturali. Che nella sostanza sono il riavvolgimento all'indietro del film del progresso sociale. Le riforme di oggi sono semplicemente controriforme. Dove c'era il pubblico, si torna al privato; dove la gestione politica, i poteri del mercato; dove il servizio sociale, il profitto; dove c'era l'uguaglianza, la frantumazione, per favorire la competizione tra le persone. (...)
Oggi si usa la parola riforma proprio per distruggere le riforme sociali realizzate nel secolo scorso.
Quelle riforme in molti casi estendevano a tutti i cittadini diritti e conquiste sociali che i lavoratori avevano raggiunto per se stessi. I risultati privati dei lavoratori diventavano diritti pubblici. Le mutue diventavano sistema sanitario nazionale, le pensioni diventavano un sistema pubblico per tutti, il controllo sindacale sul mercato del lavoro diventava pubblico collocamento e così via. (...)
Quando il lavoro estendeva le sue conquiste, miglioravano i diritti di tutti; quando l'impresa impone alla società la sua logica del profitto, quei diritti sono messi in discussione. Qui sta la miseria del riformismo attuale. Che non a caso, nella crisi permanente della politica italiana, è progressivamente diventato sinonimo del trasformismo. Cioè di quel fenomeno politico di fine Ottocento, definito dal poeta Giosuè Carducci come: “La sinistra che si fa destra senza essere più sinistra senza essere vera destra”. (...)
E così i politici di destra e di sinistra si contendono la primogenitura delle scelte più incisive e, come si dice oggi, coraggiose, a favore del mercato e ai danni delle conquiste sociali. Tutte le parole cambiano segno: le riforme diventano controriforme, il coraggio significa sfacciataggine contro i più deboli, il nuovo e il moderno spesso nascondono il ritorno all'antico, alle condizioni sociali di prima delle grandi riforme. (...)
La differenza tra destra e sinistra non sta nei diversi obiettivi, ma solo nel metodo per realizzarli. (...)
I tempi per tagliare le pensioni e la sanità pubblica, flessibilizzare il lavoro, superare i contratti nazionali, possono essere così più lunghi, perché bisogna concertare con i sindacati. Ma il punto d'arrivo è lo stesso.
Questo sosteneva il ministro Padoa Schioppa, mentre si preparava a guidare l'economia nel governo Prodi, e si capisce perché quel governo sia rapidamente crollato, aprendo la via al ritorno al potere di una destra ancora più aggressiva di prima. Lo stesso è avvenuto in molti altri paesi occidentali, dove magari il riformismo ha governato di più, come nella Gran Bretagna del primo ministro laburista Tony Blair, che si considerava l'autentico erede della signora Thatcher. Può durare di più o di meno, ma questo riformismo, alla fine, lascia dietro di sé solo macerie di democrazia e di diritti; soprattutto, una rassegnazione sociale sulla quale costruisce le sue fortune la destra. (...)
La miseria del riformismo attuale è nel suo essere diventato solamente un riformismo della miseria, totalmente dominato dalla sindrome del Tina. Per questo il riformismo, almeno nella sua versione attuale, non ha più niente da dire.
Con la crisi le caste dominanti e il sistema di potere della globalizzazione hanno irrigidito tutte le proprie posizioni e ridotto ai minimi termini la disponibilità alla mediazione. Come i sovrani assoluti e la nobiltà precedenti alla rivoluzione francese, chi comanda oggi vuole conservare tutto il suo potere e non è disponibile ad alcun reale cambiamento.
Oppure, in Italia, quel potere è capace di comportarsi come il nipote del principe di Lampedusa nel romanzo Il Gattopardo. Quel nobile allo sbarco dei garibaldini in Sicilia nel 1860, decise di arruolarsi con loro. E a suo zio, che rivendicava la fedeltà di famiglia ai Borboni, spiegava: “Deve cambiare tutto perché non cambi niente”.
Per questo solo grandi movimenti sociali e solo grandi conflitti possono cambiare le cose. I riformisti di una volta sapevano che la lotta di classe era necessaria per avere le riforme. Essi usavano perfino strumentalmente la minaccia dell'impossibile, per ottenere i risultati immediati. In una società dove la mediazione sociale è stata cancellata e tutte le rigidità del potere si scaricano sul lavoro e sui poveri, la ripresa del progresso sociale e civile può essere guidata solo da una cultura conflittuale diversa dal riformismo attuale. Anche per ottenere piccoli cambiamenti bisogna costruire conflitti che rompono le compatibilità del potere, bisogna mettere in discussione alla radice i principi del Tina.
Quando la pura e semplice contrattazione dei tempi di lavoro, per gli operai di Melfi come per quelli di Pomigliano, viene intesa dalla Fiat come un atto di sabotaggio, da combattere con i licenziamenti e le minacce; quando tutti i riformisti di governo e d'opposizione si schierano con l'azienda, spiegando che quello che chiede è inevitabile; quando la più piccola affermazione dei diritti richiede sacrifici personali e lotte eccezionali, allora è chiaro che siamo entrati in un'epoca nella quale non si può più essere riformisti, ma modernamente e democraticamente rivoluzionari. Più stato sociale, più diritti, più giustizia e più cultura non sono obiettivi incompatibili con la ricchezza che abbiamo raggiunto e accumulato: lo sono solo con il potere che le governa.
Per questo ogni lotta e ogni richiesta autenticamente riformatrice diventano, necessariamente, radicali. Perché la casta politico-economica che ci comanda non vuole rinunciare a nulla e perché il suo potere, così come l'ha costruito, è un potere che a ogni richiesta risponde dicendo di no. Perché Tina.

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