venerdì 12 novembre 2010

Primo, cacciare B. Ma per andare dove?

Fallisce, come era prevedibile, anche l'incontro tra Bossi e Fini. La crisi del quadro politico imbocca sempre più i viali dello squallore tatticista, della banalità del gioco del cerino. Il dissolvimento del blocco maggioritario governativo dilania la seconda Repubblica; e segna un contesto in cui la politica economica e sociale dell'Unione europea condanna a morte lo stesso modello sociale europeo. Causando macelleria sociale, ma anche una lunga fase recessiva, economicamente e depressiva della psicologia di massa. Le politiche deflattive guidate dalla Germania mettono a rischio la stessa unità dei paesi europei, producendo, di fatto, un'Europa a più velocità e a cerchi concentrici; favorendo, in tal modo, secessioni e competitività sfrenata fra territori. Si configurano perfino scissioni statuali (e la scissione fra nord e sud in Italia è, di fatto, dietro l'angolo). Qui si colloca la crisi politica italiana. Che è inoltre crisi del bipolarismo maggioritario, soprattutto nella versione bipolare-bipartitica che Berlusconi e Veltroni vollero sciaguratamente configurare. Gli esiti della crisi politica organica non sono trasparenti e determinabili. Proprio perché è una crisi che non viene innestata dalle dinamiche sociali, perché il sistema politico si è da esse separato. Vi è una grande alienazione politica di massa. E' l'implosione di un regime, percorso dalle turbolenze della nomenclatura, che nascono dalla dislocazione, dentro la violenza della globalizzazione liberista, degli interessi padronali. C'è il fondato rischio, per paradosso, che il movimento di classe (e le sinistre con esso) ne esca con le ossa rotte. Basta pensare al fatto che il secessionista e razzista Bossi viene elevato a mediatore con Fini e tratta sulla futura presidenza della Repubblica, sul ruolo di Tremonti e sulla futura legge elettorale in cambio del federalismo secessionista. E' grave che emergano torbide manovre su una futura legge elettorale; una legge elettorale che, invece di prendere atto, con lineare trasparenza, del fallimento del bipolarismo maggioritario, sembra limitarsi a costruire normative cucite sugli interessi di Berlusconi, Fini, Casini o Bersani. Invece di eliminare il premio di maggioranza, si parla di trasformarlo in un più ridotto «premio di stabilità al 40 o al 47 per cento»; con una proposta Violante che allude ad un sistema, in parte francese, con una quota proporzionale, senza abolire la soglia di sbarramento. Ma è ammissibile discutere di legge elettorale senza un serio bilancio della crisi della formazione della rappresentanza, del pluralismo, del costituzionalismo democratico? Il tema, per noi, è rompere la corazza maggioritaria che il sistema politico ha costruito per evitare che il conflitto sociale possa incidere, nella sua autonomia, anche sugli equilibri istituzionali. Bersani, Fini, Casini parlano di un esecutivo «tecnico» per gestire il dopo Berlusconi. Ma questo esecutivo «tecnico» finirebbe, anche se durasse un solo anno, con l'essere il governo della Confindustria, dell'asse Marchionne-Bonanni; costruito attorno ad un presunto «patto sociale» che sarebbe ben più regressivo della stessa concertazione socialdemocratica, attaccata da destra dal padronato sotto la frusta della feroce competitività internazionale tra sistemi industriali e finanziari. Basta pensare alla demolizione del Contratto nazionale, dello stesso Statuto dei lavoratori, al «collegato lavoro» che ha distrutto il processo del lavoro. Il «patto sociale» intende autorappresentarsi al governo. Mi chiedo: si può pagare la cacciata di Berlusconi con un ulteriore massacro del mondo del lavoro? Ed è a questo che punta la manovra di avvicinamento al cambiamento del quadro politico di cui parla la nuova segretaria della Cgil? Possiamo, insomma, accettare un esito che, in cambio dell'abbattimento del tiranno, affida il Paese alle politiche confindustriali, alle destre che si richiamano al nuovo patto di stabilità europeo, contro il lavoro, i beni comuni, contro ogni ipotesi di programmazione e di intervento pubblico qualificato e socializzato? Vi è un'altra strada. Sviluppare, articolare territorialmente, organizzare quella prima espressione di blocco sociale e di movimento di massa che si è espresso nella preparazione e nella manifestazione del 16 ottobre, lì dove i nessi unitari fra movimenti, conflitti, rivolte (prima disperatamente dispersi e non comunicanti) hanno cominciato a trovare una condivisione unitaria. Non esistono scorciatoie politiciste, che si avvitano in maniera impotente su se stesse: come stanno, infatti, insieme governo di transizione che dia anche una «scossa all'economia», come ha detto D'Alema, con il cosiddetto «nuovo Ulivo», con la più larga alleanza per la Costituzione? Né crediamo alle virtù miracolose dei cortocircuiti plebiscitari, dove i programmi sono fievoli e generici e le aggregazioni si costruiscono intorno al carisma personale. Dare, invece, rappresentanza al 16 ottobre significa anche piena indipendenza culturale e strategica delle sinistre anticapitaliste, anche perché l'indipendenza di esse è presupposto per costruire una alleanza per la difesa della Costituzione, che è ipotesi autonoma dal governo. Ne deriva che, se esiste un Pd liberaldemocratico, aclassista, che ha accettato le ragioni del capitale, occorre accelerare il percorso unitario per costruire il polo alternativo della sinistra anticapitalista. Senza omologazioni né annessioni, ma con una concezione forte del pluralismo. Vi sono le condizioni? Ve ne è la necessità.
Giovanni Russo Spena,


Liberazione 12.11.2010

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