mercoledì 29 dicembre 2010

Accordo separato a Mirafiori, Fiom e movimenti

Neo vescovo e sindaco torinesi saranno soddisfatti per lo scontato pacco regalo: l’accordo separato – cioè senza firma Fiom – tra Fiat e Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Quadri per il futuro dello stabilimento di Mirafiori. Non c’è stato neanche uno straccio di trattativa tra le “controparti”. Inezie a parte il testo dell’accordo è sostanzialmente quello imposto da Marchionne col ricatto di ventilati investimenti che dovrebbero portare a più del raddoppio (?!) delle auto prodotte nello stabilimento torinese secondo le previsioni di una ripresa del mercato globale dal 2012 (?!). L’accordo ricalca il ricatto imposto ai lavoratori di Pomigliano: 18 turni alla settimana, primi due giorni di malattia non pagati, 120 ore straordinarie obbligatorie, turni “avvicendati” di dieci ore, pause cancellate sulle linee, orario mensa a fine turno quindi con mezz’ora in più di lavoro, misure anti-assenteismo. In più e di peggiorativo c’è però il piano di costituire una newco (propriamente una joint venture con Chrysler) con la quale la Fiat va oltre le stesse deroghe al contratto nazionale fuoriuscendone in vista di un contratto auto specifico che recepisce in pieno l’accordo di Pomigliano.
A suggellare il tutto, la cancellazione della rappresentanza sindacale… non “di servizio”: chi non firma è fuori dalle Rsu di fabbrica, si spera così di de-fiommizzare i posti di lavoro. (Chiosa però il giornale della Confindustria: “in un periodo di forti tensioni sociali, la mancata presenza del secondo sindacato nello stabilimento simbolo dell’industria italiana non è di poco conto”).
Non poteva mancare la sanzione “democratica”: il referendum tra i lavoratori previsto per gennaio. Quello stesso istituto che gli inqualificabili Bonanni e Angeletti escludono categoricamente come strumento di consultazione dei lavoratori/trici ora va bene se si va a votare col fucile alla schiena…
La vicenda Mirafiori acquisisce dunque un significato generale. Primo, per il quadro sindacale a venire. La situazione presuntamene eccezionale addotta per Pomigliano diviene la nuova norma ben oltre la stessa Fiat. E’ la fine del modello di relazioni industriali incentrato sul contratto collettivo sostituito dall’appartenenza del singolo lavoratore all’impresa con l’appendice di una rappresentanza sindacale sempre più svuotata e rigorosamente aziendale. E’ la stessa direzione in cui sta operando il ministro Sacconi con il collegato lavoro, il Libro bianco sul welfare e la cancellazione in vista dello Statuto dei Lavoratori.
Secondo. La vicenda è l’ennesima riprova che l’unica strategia di “uscita” dalla crisi globale ai piani alti del potere è quella di sfruttare la stessa crisi prodotta da lor signori per farla pagare una seconda volta a chi sta in basso col peggioramento delle condizioni di vita. Ma attenzione: questa volta lo “scambio” proposto non ha contropartite reali in termini di rilancio della crescita comunque intesa. Si tratta in realtà di saziare una finanza sempre più onnivora a spese della vita sociale produttiva e riproduttiva.
Si guardi alla sostanza complessiva dell’operazione diretta da Marchionne: sta riuscendo nel capolavoro di smembrare l’ultima industria di peso italiana per singole aziende, che è poi il corrispettivo reale della fine del contratto nazionale. Ciò deve permettere da un lato la definitiva fuoriuscita degli Agnelli dall’auto, a conferma del carattere oramai pienamente redditiero delle “famiglie” del capitalismo nostrano, e dall’altro di appropriarsi dei pezzi migliori residui da collocare in dollari sui mercati finanziari senza alcun riguardo per i destini industriali qui tanto evocati. In effetti, dove sono i piani industriali per la “Fabbrica Italia”? Cosa si è visto finora a Pomigliano? Non è evidente che mister maglioncino cerca una scusa per abbandonare gran parte delle produzioni italiane? Se il sospetto è stato espresso anche da qualche pezzo grosso della Confindustria…
Ecco ciò cui plaudono politici, preti, sindacalisti, giornalisti e zerbini vari. Del resto, non è un’anomalia italica ma il tratto fondante del capitalismo globale reale e del suo più recente ciclo politico, ben personificato qui da noi dal Berluska. Un ciclo entrato in crisi. Non è un caso se lo stesso Marchionne, da manager da tutti decantato, riscuota sempre meno consenso non solo tra gli operai ma tra le gente. Sempre meno credibili le promesse di grandiosi investimenti da parte di un finanziere che i soldi (altrui) è abituato a prenderli più che a metterli. Un crollo di consensi pari a quello che si sta verificando verso l’intero quadro politico e che la piazza del 14 a Roma ha finalmente messo a nudo.
E’ questo quadro complesso che rende l’opposizione della Fiom qualcosa di più, potenzialmente, di una ancorché dignitosa ma isolata resistenza su vecchie trincee. La Fiom col il suo no senza mediazioni al terreno imposto da Marchionne (attenzione: non a ogni mediazione possibile su basi differenti) e alla distruzione del contratto nazionale sta a suo modo prendendo atto e segnalando la trasformazione del modello di sviluppo capitalistico e la sua accelerazione nella crisi globale. Ed è costretta, nell’assenza oramai strutturale di sponde politiche istituzionali e a fronte di una Cgil sempre più inebetita, ad assumere l’azione sindacale come terreno politico.
Qui incontra la novità di questi mesi. Sta emergendo nel paese una corrente di passioni finalmente non tristi, uno sdegno attivo trasversale ai diversi soggetti sociali che dapprima, il sedici ottobre, ha verificato di esserci e poi lo scorso quattordici ha sancito un passaggio di fase con l’emergenza, confusa quanto si vuole, di un soggetto sociale, quindi potenzialmente politico, nuovo in grado di catturare consenso non nonostante ma grazie alla propria multiforme radicalità.
Un soggetto alla ricerca di nuove strade. La Fiom sta cercando di aggrapparsi a questa spinta. Coi suoi limiti, sa di non poter puntare solo sulla mobilitazione sindacale classica ma di dover aprire a quanto di dinamica reale di conflitto si agita nel paese. Il rapporto con studenti, giovani, precari diviene indispensabile per costruire una risposta efficace non solo sulla questione operaia ma rispetto al quadro complessivo di risposta alla crisi.
Vedremo se ai propositi rilanciati ieri all’assemblea delegati di Torino dal segretario generale Landini – costruire un percorso unitario aperto a nuove alleanze sociali e al movimento di questi mesi, rilanciare in questa prospettiva lo sciopero generale – seguiranno comportamenti fattivi e aperture concrete sui territori e verso il movimento in tutte le sue sfaccettate dimensioni e sensibilità, senza pretese di selezionarne i “rappresentanti” più consoni.
Studenti da un lato e metalmeccanici dall’altro hanno in questo momento un obiettivo immediato: come non far passare sul campo quanto previsto a tavolino dal Ddl Gelmini e dagli accordi separati Fiat.
Una “guerriglia” che però ha vitale necessità di non richiudersi sul proprio ambito, sui propri problemi. Ma di agganciare una strategia generale e unitaria i cui elementi sono stati abbozzati da questa prima ondata di antagonismo reale. Non è il caso di ripetere che non abbiamo davanti una riedizione tipo operai e studenti uniti nella lotta. Al contrario, bisogna “uscire” dalle università e dalle fabbriche verso l’insieme del rapporto sociale. In gioco è la costituzione in fieri di un nuovo soggetto composito, produzione e riproduzione strettamente intrecciate, che ha già iniziato a fare i conti con quanto di potenzialmente altro può emergere da una risposta in prima persona alla crisi.
di Raffaele Sciortino,
fonte: UniNOMADE 2.0

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