giovedì 16 dicembre 2010

Qualcosa sta cambiando nel Paese. Ora cambi la politica

Solo chi è immerso nell'autistico isolamento del palazzo o è abituato a ragionare riproducendo vecchi schemi mentali può non aver capito che la protesta di martedì - anche nelle modalità più ruvide in cui si è espressa - non sia intestabile solo a gruppi isolati, ai cosiddetti Black bloc, ai professionisti della provocazione fine a se stessa.
Ieri, nelle strade di Roma, si è materializzato qualcosa che era già nell'aria da tempo e che lì si è espresso in forme particolarmente dure perché, contemporaneamente, nei luoghi istituzionali della rappresentanza politica sovrana, blindata dall'ennesima "zona rossa", andava in scena il miserabile spettacolo di un governo, ovvero di un grumo di interessi di casta, politici e personali, che si fa beffe della drammatica condizione di disoccupazione, di precarietà, di deprivazione di futuro che sta devastando la vita reale di milioni di persone e, massimamente, di giovani a cui non viene offerta una via d'uscita. Una generazione, più probabilmente due - abbiamo detto - sta prendendo coscienza di uno scarto insopportabile fra la propria condizione e l'irresponsabile indifferenza di un ceto politico che autoriproduce se stesso e i propri rituali in una bolla autosospesa, che promana cinismo e corruzione.
La verità è che ad ogni latitudine del Paese, con una coesione impressionante, cresce la ribellione, spesso senza riferimenti politici, perché gran parte della politica è latitante o impalpabile, mentre le forze organizzate che si uniscono alla protesta lo fanno per immersione, come parte nel tutto, insieme al movimento più che alla guida di esso.
Eppure, una cifra politica c'è, e molto ben visibile. Vive nella domanda che lo Stato, che i tenutari delle redini del potere si occupino della cultura, della scuola pubblica, dell'università e della ricerca, del lavoro. Insomma, di quello che è avvertito da masse sempre più ampie come il bene comune. Prorompe da lì una domanda inevasa di giustizia, di uguaglianza, di pulizia che rinvia - né più né meno - a ciò che la Costituzione riconosce come diritto e che chi governa nega con crescente arroganza.
Che la repressione poliziesca della protesta invocata da Sacconi con un linguaggio (e un tono) da dittatore sudamericano del tempo che fu, possa venire a capo di quello che è tutto meno che un fuoco fatuo, è illusione proterva, ma non per questo meno pericolosa.
Anche perché il peggio è davanti, non dietro di noi.L'Unione Europea sta per chiedere all'Italia una manovra di rientro dal debito di dimensioni spettacolari, in ottemperanza alla strategia ipermonetarista decisa a Bruxelles con la benedizione del Fondo monetario internazionale. Perché nessuno coltivi dubbi, il nodo scorsoio si stringerà attorno alla già asfittica spesa sociale, al welfare, alla rete dei serizi pubblici, ai salari. Per cui quello che si è visto con la legge di stabilità appena varata dal parlamento non rappresenta che l'antipasto del piatto forte che verrà prossimamente somministrato - bisogna saperlo - ad una parte del Paese e ad una parte sola. Precisamente, a quella che oggi sta già pagando.
Tutto ciò, dentro un quadro segnato dalla fragilità e dall'endemico nanismo del nostro apparato industriale, dal deficit che tocca punte inedite a causa degli sprechi e delle spese improduttive, dalla caduta (e non dalla crescita, come sproloquia Tremonti!) delle entrate fiscali, mentre spopola l'evasione e si divarica la forbice tra ricchezza e povertà.
Non dovrebbe essere troppo difficile comprendere che per fare assorbire ad un corpo sociale già fortemente indebolito una simile frustata occorrono alcune condizioni.
Della prima si sta incaricando, direttamente, Sergio Marchionne, per nome e per conto della parte più aggressiva del capitalismo italiano: distruggere, contemporaneamente, il contratto collettivo di lavoro e il potere di coalizione dei lavoratori.
Della seconda è titolare il governo, che attraverso il cosiddetto "collegato lavoro" e la proposta di legge che smonta lo Statuto dei lavoratori, annichilisce le tutele individuali, toglie l'acqua nella quale il sindacato vive.
Alla terza condizione lavorano molte forze, della destra, del centro e del centrosinistra, le quali pensano che la ricetta monetarista non abbia alternative e si candidano a fornirle la base politica e parlamentare necessaria: fra Tremonti e Padoa Schioppa - per essere chiari - non esistono muraglie cinesi, tutt'altro.
Per questo Berlusconi non durerà, a prescindere dalle alchimie politiciste e dai giochetti di corte cui dovremo ancora assistere prima di vederlo gettare la spugna.Tutti attendono con comprensibile ansia il prossimo 20 gennaio per vedere se la Consulta, con la propria inappellabile sentenza sulla costituzionalità del legittimo impedimento, sancirà la fine della stagione politica del caudillo per inaugurare quella giudiziaria. Ove questo avvenisse, saluteremmo con sollievo l'evento, consapevoli che si tratterebbe di un bene in sè. Ma guai a pensare che l'egemonia della destra e dei padroni si sciolga come accade agli incantesimi nelle favole. Per questo l'appuntamento più interessante sarà un mese prima, il 20 di dicembre, in Corso d'Italia, presso la sede della Cgil, dove il Comitato direttivo del più grande sindacato italiano dovrà prendere atto che l'Ad della Fiat e Confindustria hanno definitivamente sepolto ogni (velleitaria) ipotesi di patto sociale. Sarà difficile eludere lì il vero tema all'ordine del giorno, quello dello sciopero generale.
Dino Greco, Liberazione

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