venerdì 11 febbraio 2011

Alcune verità sulla pulizia etnica degli italiani in Slovenia e Croazia

Rudolf Bratuz (Rodolfo Bertossi) ed il Commissario del Campo di concentramento dell'Abbadia di Fiastra.
Gli storici, evidentemente, di fronte alla tragedia dei LAGER, hanno ritenuto di poco conto (o, quantomeno, di non primaria importanza) l'approfondimento delle condizioni di vita nei campi di concentramento fascisti. Uomini e donne di ogni età (cittadini jugoslavi o allogeni della Venezia Giulia) vennero deportati ed internati in massa per ridurre drasticamente l'appoggio popolare al movimento partigiano jugoslavo. Strappati ai loro affetti ed alle loro case, essi subivano il sequestro dei loro beni e venivano sottoposti alla violenza preventiva e punitiva dello stato fascista. Col procedere della guerra l'internamento interessò un numero sempre più alto di persone ed in alcuni campi la mortalità per fame e per stenti superò percentualmente quella che si ebbe nei LAGER nazisti non di sterminio. La ricerca di sedi idonee per l'internamento sarebbe durata sino alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia quando, in una circolare telegrafica inviata alle prefetture il 1 Giugno 1940, il Ministero dell'interno sintetizzò e ribadì tutte le norme predisposte negli anni precedenti assieme al Ministero della Guerra. Appena dichiarato lo stato di guerra si leggeva, tra l'altro, nella circolare dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolose sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l'ordine pubblico e commettere sabotaggi o attentati, nonché le persone italiane o straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l'immediato arresto. L'8 Giugno 1940, a soli due giorni dall'entrata in guerra dell'Italia, un'altra circolare, la n. 442/12267, emanò le "prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino" dando così uno degli ultimi ritocchi alla macchina dell'internamento ormai pronta ad entrare in funzione.Il campo di concentramento di Gonars, vicinissimo alle zone slovene, zone in cui era già iniziata la guerra di liberazione, fu uno dei luoghi in cui si svolse la grande tragedia di questi deportati. Venne istituito già nel dicembre del 1941, costituito da tre settori, circondato da filo spinato, controllato dai carabinieri e da circa 600 soldati con 36 ufficiali. All’arrivo i nuovi internati venivano denudati, "disinfestati", rapati a zero. Ma nonostante la pulizia quotidiana delle baracche tenuta dagli stessi internati, i parassiti si moltiplicavano. Essi si diffondevano in prevalenza addosso agli internati che, a causa dell’indebolimento fisico, giacevano sempre a letto e si lasciavano andare all’apatia. Il 25 febbraio 1943 ci sono a Gonars 5.343 internati di cui 1.643 bambini. Ci sono intere famiglie provenienti da Lubiana o dai campi di Arbe (Rab) o di Monigo (Treviso); due terzi croati e un terzo sloveni. Baracche strette e lunghe, da 80 a 130 prigionieri per baracca con stufe mal funzionanti, ma molti (specialmente uomini adulti) dormivano in tenda; igiene impossibile per mancanza di tutto; per quanto riguarda le donne incinte, l’80% dei nati erano morti. Mangiare del tutto insufficiente, minestrone mezzogiorno e sera, praticamente acqua, + 200 g di pane. "La gente è affamata. Ma forse è meglio dire che muore di fame", scriveva il salesiano padre Tomec, come risulta da una sua lettera in data 6 febbraio 1943. "Queste famiglie non hanno nessuno che possa mandargli i pacchi, perché le loro case sono state bruciate e i parenti sparpagliati.…Una grande maggioranza di internati è venuta da Arbe (Rab) e sono giunti già esausti, simili a scheletri. ... Dal 15 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943 ne sono morti 161. In media muoiono 5 persone al giorno. Il maggiore medico Betti mi ha detto che in due mesi il 60% di questa gente morirà, se prima non vengono liberati. …Una scena triste viene offerta dalla baracca nella quale ci sono soltanto bambini orfani che hanno perso i genitori ad Arbe o a Gonars". "Dio ci guardi da qualche epidemia nel campo. Le persone cadrebbero una dopo l’altra come mosche." Nel monumento ossario del cimitero di Gonars sono sepolti 453 corpi.http://www.carnialibera1944.it/documenti/lagerfriuli.htmI primi campi di concentramento sorsero ad Arbe (isola di Rab) e ne seguirono altri - a cui ci riferiremo in seguito ed a Gonars in Venezia Giulia. Nel luglio 1942, momento massimo della deportazione, sono allestiti nuovi campi a Monigo Tv. (2.500 persone); a Chiesanuova di Padova (2.500, fra i quali 1.000 bambini); a Renicci, Visco, Pietrifica, Tavernette, Brescia, Chieti, ecc. Coi primi tentativi di guerra partigiana in Slovenia (solo una provincia era amministrata formalmente dagli Italiani), si scatena la repressione con retate che nel giro di un anno, dall’autunno del 41 a quello del 42, non portano ad un nulla di fatto se non ad eccidi diffusi e deportazioni (vedi foto). I deportati sono stipati in piccole, vecchie tende militari, scarsamente o per nulla impermeabili, su paglia già usata, con una leggera coperta: il tutto pieno di pidocchi e cimici. Molti sono stati rastrellati mentre lavoravano nei campi in estate, sono semi nudi e nulla viene dato loro per coprirsi. Condizioni bestiali, in particolare per l'autunno e l'inverno: pioggia, neve, con la gelida bora imperversante. Alla fine del 1942 il sottosegretario all’Interno Buffarini dа notizia al Duce che “50.000 elementi sloveni” sono stati internati in Italia. Nell’autunno 1942 la diocesi di Lubiana fa arrivare alla Santa Sede un documento dal tono molto preoccupato, che chiedeva interventi per evitare che i campi “diventino accampamenti di morte e di sterminio”. Più volte la Chiesa cattolica interviene a favore degli internati cattolici sloveni di Gonars. I vescovi di Lubiana, Rozman, (ma di Rozman e Stepinac circolano ben differenti giudizi sulla loro pulizia etnica ortodossa) di Gorizia, Margotti, e di Krk, Srebnic, sollecitano un’iniziativa della Santa Sede. Il vescovo di Krk, monsignor Srebnic, il 5 agosto 1943 in una lettera al Papa parlerà di più di “1.200 internati morti”. Il segretario di Stato cardinale Luigi Maglione, invia a Gonars il nunzio apostolico Borgoncini-Duca, il quale però non riesce a capire le reali condizioni di vita e scrive che “il vitto non manca e l’acqua è abbondante”. Altre testimonianze raccolte da Alessandra Kersevan sono assai diverse. Il segretario dell’arcivescovo di Zagabria Stepinac, don Lackovic, nel ’43 denuncia alla Croce Rossa italiana che a “Gonars si trovano oltre 4.000 croati (in questo caso si difende il croato in quanto cattolico), in maggioranza donne e bambine che soffrono molto e muoiono in gran numero”. Il salesiano padre Tomec descrive al Comitato di assistenza di Gorizia la terribile situazione di Gonars in una lunga relazione: “La gente muore di fame. La minestra è acqua nella quale nuotano due chicchi di riso e due maccheroni”. E chiede la possibilità di inviare pacchi di viveri ai prigionieri. Il 27 marzo 1943 il prefetto di Udine impone all’Autorità ecclesiastica di bloccare i pacchi per evitare che “aiuti siano prodigati a una razza siffatta che non ha mai nutrito, né nutre, sentimenti favorevoli all’Italia”. E a Lubiana Grazioli ordina di “far cessare ogni assistenza in favore degli internati”.

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