giovedì 30 giugno 2011

Contratti - Un accordo autolesionista. Un errore da cancellare

Adesso non potrà più dire che mentre in America lo osannano qui in Italia gli tirano i gatti morti sul finestrino. Adesso anche da noi qualcuno lo ama. Sergio Marchionne ha vinto su tutta la linea. Dopo aver cooptato Cisl e Uil alla sua corte, dopo aver dettato le regole alla Confindustria con un ricatto - o cambiate tutto come dico io o vi saluto - analogo a quello a cui sono stati sottoposti gli operai di Pomigliano - o rinunciate a diritti e dignità o chiudo e vi mando tutti a spasso - l'amministratore delegato della Chrysler-Fiat ha sbancato anche in Corso d'Italia. Incassa la resa della Cgil guidata da Susanna Camusso.
Adesso i contratti nazionali sono derogabili dunque non esistono più, siglando così la fine del basilare principio di solidarietà che ha regolato il lavoro nel secondo dopoguerra del Novecento.

Adesso gli operai non possono più votare gli accordi e i contratti, firmati per loro conto da apparati sindacali sempre più organici al blocco di regime e dunque sempre meno sindacati. Adesso gli operai non possono scioperare, essendo stata sancita una «tregua». Come se il crollo di vendite di automobili Fiat in Italia e in Europa dipendesse da chi lavora alla catena di montaggio di Mirafiori o di Pomigliano, come se le tute blu avessero le braccia conserte per dimostrare la loro novecentesca aggressività e non perché non hanno nulla da costruire.
Tutto questo è avvenuto a Roma, nella dependance della Confindustria su cui erano puntati gli occhi dei lavoratori e di tutti quei cittadini e quelle cittadine che, insieme alla Fiom, avevano alzato il vento democratico del cambiamento. Adesso la strada si fa difficile e bisognerà riprendere a pedalare in salita tra le secchiate non di acqua rinfrescante ma di fango. Si è chiusa un'epoca, gridano gioiosi padroni e sindacati, plaudono i ministri, va fuori dalle righe persino il normalmente sobrio Sole 24 Ore, organo dei confindustriali che spara «Una firma per un'epoca nuova». Il Pd è contento, ma pensa un po'.
Siamo alla fine della storia? Lasciamo in pace Fukuyama, la storia non procede mai in modo rettilineo. Tra le parole di un accordo scritto nel fango e la realtà c'è di mezzo una variabile: le persone in carne e ossa, i lavoratori e tutti quelli che pensano al lavoro come a un bene comune e che non sono soli, hanno dalla loro la Fiom che «resiste ora e sempre all'invasore» come il villaggio gallico di Asterix e Obelix. Resiste e scompagina le carte ricordando a potenti e poveracci che ci sono diritti intangibili validi per tutti (sennò si trasformano in privilegi) che la dignità delle persone viene prima dei profitti. Bisognerà tenere i nervi a posto, tutti quelli che non intendono adeguarsi al modello sociale imposto da Marchionne dovranno tenere i nervi a posto. Perché la storia continua. La generosa battaglia della Fiom è una battaglia per la democrazia, perciò è una battaglia generale.
Ma la Fiom, e gli operai, da soli non ce la possono fare. Non dobbiamo lasciarli soli
di LORIS CAMPETTI - IL MANIFESTO del 30 GIUGNO 2011

CONTRATTI, BERSANI SULL'ACCORDO TRA CGIL, CISL, UIL E CONFINDUSTRIA

«Ne parleremo presto, in direzione e altrove»

Firmato Pier Luigi Bersani

CONTRATTI, VENDOLA SULL'ACCORDO TRA CGIL, CISL, UIL E CONFINDUSTRIA






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Firmato Nichi Vendola

mercoledì 29 giugno 2011

O che bel porcellum (confederale)

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E’ nato un porcellino confederale, anzi, un porcellum sindacale. E’ proprio vero che il porcellum non è solo una legge elettorale, ma un sistema di pensiero: un cancro che si è impossessato dell’Italia, una ideologia che seduce le classi dirigenti di destra e sinistra nei tempi di crisi, una scorciatoia per liberarsi di quel fastidioso problema che si chiama democrazia.
E’ in arrivo la bufera delle finanziarie tagliatutto? Va deciso se sottoscrivere o meno accordi infami? Il governo ti punta la pistola alla tempia? La risposta dei dinosauri del sindacalismo corporativo e para-aziendale è semplice (e a suo modo persino geniale): inventiamoci un trucchetto per cui, se siamo d’accordo tra di noi, la gente non possa più votare contro di noi. Facciamo un accordicchio per cui, se si mette insieme il 50% dei dirigenti dei sindacati su un contratto poi si impedisce per legge ai lavoratori di esprimersi per dire cosa pensino di quell’accordo. Incredibile ma vero, è questo il meraviglioso patto firmato fra Confindustria Cgil-Cisl e Uil.

Malgrado molti giornali ne occultino il senso, il compromesso che in queste ore è definito “una rivoluzione” è tutto qui. Anzi, c’è di peggio. Una volta che i sindacati non più sottoposti a nessuna verifica hanno firmato un accordo contro il tuo volere, tu – il lavoratore – non puoi più scioperare. Per definire questo pastrocchio si sono inventati un bellissimo eufemismo: “Clausola di tregua”. Esempio: la tua impresa propone un contratto osceno, ti chiedono di lavorare tutti i giorni, anche se sei malato, pena la decurtazione del salario (non è fantascienza, in alcuni accordi è già così). Tu sei contrario. il 51% della burocrazja sindacale invece è favorevole, e ti spiega: è il miglior contratto possibile. Sanno che la devi mandare giù perché il sindacal-porcellum gli garantisce che non ci saranno consultazioni. Però nella tua azienda la situazione precipita, aumentano gli infortuni. Immaginate che gli stessi iscritti dei sindacati che hanno firmato l’accordo, non avendo altri strumenti, debbano scioperare perché le condizioni di lavoro si fanno insostenibili. A questo punto l’imprenditore risolve il problema dei porcellini confederali provando a licenziare chi ha scioperato (ha violato la “clausola di tregua”, no?).
Che sindacati ormai tesi al fiancheggiamento stabile del governo reputino questa soluzione non solo sostenibile, ma persino auspicabile, non stupisce. Ma la domanda è: che diavolo ci guadagna Susanna Camusso? L’idea che la segretaria della Cgil non solo abbia voluto, ma addirittura cercato laccordo è tanto preoccupante quanto vera. Una ratio però c’è. La Marcegaglia sogna di offrire questo patto a Marchionne per recuperare lo scisma a destra della Fiat; la segretaria della Cgil per domare lo scisma a sinistra della Fiom. Con un anacronismo supefacente nei giorni in cui la vittoria dei referendum esalta la democrazia diretta come l’arma in più della sinistra sulla destra. Partita con l’idea di tornare protagonista grazie al porcellum, con il no della Fiom la Camusso rischia di perdersi per strada due cose: o i suoi iscritti, o la più forte delle sue organizzazioni. Quella, cioè, che proprio sul terreno dei referendum alla Fiat ha dimostrato di avere più consensi delle sue tessere.

di Luca Telese, www.lucatelese.it

"E' il suicidio del sindacato." - Intervista a Gianni Rinaldini

Gianni Rinaldini: l'«avviso comune» cancella il diritto di voto dei lavoratori.Il coordinatore de «La Cgil che vogliamo» boccia senza appello metodo e merito dell'accordo con Cisl, Uil e Confindustria sulla rappresentanza e i contratti
«Lunare e imbarazzante». Per Gianni Rinaldini, 8 anni da segretario generale della Fiom, ora coordinatore dell'area «La Cgil che vogliamo» e membro del Direttivo nazionale di Corso Italia, la discussione che va avanti tra Confindustria e i sindacati è fotografata da questi due aggettivi. Che valgono però anche per il dibattito interno alla Cgil.
Sembra abbiano firmato l'accordo...
È la conferma delle voci che dicevano che il testo c'era già. Non è credibile che, in una trattativa così complicata, abbiano fatto tutto nel giro di poche ore.
Si apre un problema nella Cgil?
Non è stato presentato nessun testo scritto. Al tavolo non c'era neppure una «delegazione trattante». Han fatto tutto in due o tre della segreteria. Una roba inaccettabile nella vita interna della Cgil. Non c'è stato nemmeno un «ufficio» ad affiancare, come si fa di solito, con i segretari di categoria. Nei miei ricordi, trattative così delicate e importanti vedevano la Direzione della Cgil (ora non c'è più) convocata in seduta permanente e in continuo contatto con la delegazione al tavolo. Viene siglato o firmato un accordo assolutamente misterioso per i segretari generali di categoria e il coordinatore di un'area nazionale della Cgil. Di fatto il Direttivo sarà messo nelle condizioni votare una sorta di «fiducia» alla segretaria. Sì, esiste ormai un problema di democrazia nella vita interna della Cgil.
Non si è discusso abbastanza?
Con il meccanismo sviluppatosi purtroppo negli ultimi anni, ogni votazione del comitato direttivo si configura alla fine come un voto di fiducia sul segretario generale. Pensando in questo modo di annullare l'articolazione del dibattito esistente. Stavolta non mi sorprenderei che qualcuno, rientrato recentemente in Cgil come coordinatore della segreteria del segretario generale, dopo aver svolto a lungo ruoli amministrativi (Gaetano Sateriale, ndr), abbia in questi giorni lavorato alla definizione del testo.
Cosa sai sul merito dell'accordo?
E' riassumibile in un aspetto centrale decisivo, da cui discende tutto il resto: lavoratori e lavoratrici non sono chiamati a votare le piattaforme e gli accordi che li riguardano. Il meccanismo individuato prevede che attraverso la «certificazione» (un mix tra iscritti e voti alle rsu) le organizzazioni che superano il «50%+1» possono fare accordi che diventano immediatamente esecutivi. Questo è devastante. Perché nega la democrazia, che assieme al conflitto è l'unico strumento a disposizione dei lavoratori per intervenire sulla propria condizione. E inquina fortemente gli stessi tavoli di trattativa, perché quando ci si parla tra soggetti sociali espressione di interessi diversi, non si è in un club di amici. È prevedibile che si darà vita a un mercato del tesseramento, teso a favorire le organizzazioni più disponibili a certi accordi. Non mi sorprenderebbe che arrivassero pacchi di iscritti a questa o quell'organizzazione. Sta nelle cose.
Qual'è il punto di principio?
Non sottoporsi al voto e al giudizio dei lavoratori vuol dire affermare il concetto che i contratti sono proprietà delle organizzazioni sindacali, e non fanno capo all'espressione della volontà dei soggetti interessati. Non era mai avvenuto che la Cgil istituzionalizzasse in un accordo che questi sono validi senza il pronunciamento dei lavoratori. Tutt'al più, in questi anni, si è discusso sulle forme della consultazione. Faccio presente che gli accordi separati dei metalmeccanici, nel 2001 e 2003, avvennero proprio sul referendum tra i lavoratori a fronte di posizioni diverse. In ambedue i casi, Fiom e Cgil decisero congiuntamente.
Che fine fanno le RSU?
A livello aziendale, lì dove ci sono le RSU, queste decidono senza il voto dei lavoratori; dove ci sono le RSA, i lavoratori possono votare il loro contratto. Inoltre, sulle deroghe, c'è una questione che non ho capito o che è inaccettabile: invece di «deroghe» di parla di «adattabilità» a livello aziendale. È anche peggio delle «deroghe definite».
E sul diritto di sciopero?
Anche qui. o non ho capito bene oppure è inaccettabile: si parla genericamente di possibilità di una «tregua», che in termini sindacali non può che voler dire tregua sugli scioperi. La clausola della Fiat, insomma. Ma la Cgil non ha mai firmato limiti all'esercizio del diritto di sciopero. E mi domando: se si accettano questi criteri in una trattativa con le aziende private, non credo si possano affermare cose diverse nel corso di una trattativa interconfederale col governo. Penso che questa operazione sia il suicidio della Cgil.
Ma perché la Cgil si va a suicidare?
Non vorrei che fosse per le cosiddette «ragioni politiche»... Una divisione sindacale può creare problemi a partiti che in tutti questi anni si sono limitati a dire «fate l'unità», per evitare di pronunciarsi sul merito. Poi c'è l'idea folle per cui, in questo modo, si creerebbe un rapporto «dinamico» nei confronti del governo «tra le forze sociali», con Confindustria. E questo alla vigilia di una manovra economica in cui il contributo di Confindustria è chiedere sia ancora più pesante nei confronti di lavoratori e pensionati...
In queste condizioni, com'è possibile fare opposizione al la manovra?
La Cgil non potrà che decidere le necessarie iniziative di lotta contro la manovra. Sarà difficile spiegare che un accordo che annulla la democrazia dei lavoratori sia un elemento che rafforza le iniziative contro il governo.
Se la democrazia sta così, anche in Cgil, come si cambiano le cose?
Siamo di fronte a una questione enorme. Abbiamo già convocato l'assemblea dell'area congressuale per il 13 luglio (dopo il Direttivo dell'11- 12), lì decideremo le iniziative conseguenti. È incredibile, con quello che è successo in altri paesi europei e in Italia - il voto di amministrative e referendum, il crescere di forti movimenti fondati sulla richiesta di partecipazione e democrazia - la Cgil non trovi di meglio che negare a chi lavora un diritto democratico fondamentale. Con l'evidente rischio di complicare tutti i rapporti con tutti i movimenti che ci sono nel paese, a partire da studenti, precari, diverse forme di autorganizzazione e inziative. Ed è ora di dire che il «patto di stabilità» europeo va assolutamente cambiato.
In quale direzione?
Questo è un patto tutto finalizzato alla stabilità monetaria, senza alcuna politica: sociale, sull'ambiente, sull'armonizzazione fiscale. Niente. Alla fine l'Europa si presenta solo con la faccia dei vincoli monetari.
di ROCCO DI MICHELE - IL MANIFESTO del 29 GIUGNO 2011

Il golpe contro il lavoro

Non ci sono altri termini per definire quello che è avvenuto ieri: un golpe. Silenzioso, “concertato”, senza spargimento di sangue (per ora). Ma un golpe.
Quello firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, infatti, non è un accordo come tanti altri. Cambia in radice la natura delle relazioni industriali in questo paese, i rapporti tra imprenditori e lavoratori; insomma il fondamento della lotta fra classi sociali con interessi differenti e divergenti.
In estrema sintesi, il dispositivo che presto il ministro anti-lavoro Maurizio Sacconi tramuterà in legge stabilisce che esistono soltanto tre organizzazioni titolate a “rappresentare” i lavoratori e a firmare contratti; che i contratti nazionali non decidono quasi nulla, mentre quelli aziendali tutto; che i lavoratori non possono votare mai – in pratica – per approvare o bocciare gli accordi che fissano le condizioni di lavoro e salariali che dovranno subire, né per scegliere i propri delegati di fiducia.
Come dice con drammatica sintesi Gianni Rinaldini, “non sottoporsi al voto e al giudizio dei lavoratori vuol dire affermare il concetto che i contratti sono proprietà delle organizzazioni sindacali, e non fanno capo all'espressione della volontà dei soggetti interessati”. E' il punto decisivo, da cui dipende tutto. Si ripristina insomma il cuore del sistema corporativo fascista, quello per cui – visto che non viene ammessa una differenza di interessi concreti tra impresa e lavoratore – i “dipendenti” non hanno alcun diritto di parola su organizzazione del lavoro, salario, ritmi, inquadramento professionale, turni, straordinari, e qualsiasi altro tema decisivo.
I “sindacati ammessi”, in questa cornice, “rappresentano” i lavoratori meno di un avvocato d'ufficio in tribunale. Non esiste più alcuna continuità di interessi materiali tra chi effettua la prestazione lavorativa e chi ne gestisce la contrattazione.
Ma c'è di più. Non è più ammesso che i lavoratori possano scegliere un “rappresentante” diverso o autonomamente organizzarsi per crearlo. Chiarissime le spiegazioni fornite dal comunicato Usb sulla “soglia di sbarramento” e la “certificazione degli iscritti”, con cui il compito decisivo di stabilire “chi” effettivamente “rappresenta” qualcosa è attribuito alle stesse imprese. Le conseguenze pratiche sono abbastanza chiare, afferma chi ha ormai una esperienza ultratrentennale di sindacato conflittuale: “è prevedibile che si darà vita a un mercato del tesseramento, teso a favorire le organizzazioni più disponibili a certi accordi. Non mi sorprenderebbe che arrivassero pacchi di iscritti a questa o quell'organizzazione. Sta nelle cose”.
In questo sistema “l'iscrizione” a un “sindacato” cessa di essere – per principio legale – una scelta libera del singolo e diventa merce di scambio tra impresa e “sindacato complice”. Finisce persino l'epoca in cui ci si poteva iscrivere a un sindacato “giallo” nella speranza – o nella certezza – di ottenere qualche vantaggio sul posto di lavoro (turni, straordinari, favoritismi vari, ecc). Dal punto di vista del singolo lavoratore, infatti, la mancata iscrizione a uno dei tre Moloch “sindacali” diventa un rischio, un sospetto di opposizione morale, un dissenso potenziale. Si è spinti a iscriversi per non essere eventualmente discriminati. Il sistema corporativo fascista è esattamente questo: avere la tessera per mettersi al riparo, lasciar scambiare il proprio silenzio per un assenso al regime. Perché di regime si deve parlare.
Può sorprendere l'osservatore superficiale che Susanna Camusso abbia firmato, obbligando così la Cgil a piegarsi o a sfiduciarla. La craxiana espulsa alla fine degli anni '90 insieme a Gaetano Sateriale dalla Fiom di Paolo Sabattini (“per manifesta incapacità sul campo” fu dichiarato, perché sembrava poco onorevole per tutti indicare la vera ragione: “intelligenza con la controparte”, anche in quel caso, e non per caso, la Fiat), aveva già allora dimostrato di essere tutt'altro che un sindacalista.
Ma la selezione del personale dirigente, all'interno di una grande organizzazione sociale, non avviene mai per caso. La logica della “concertazione” ha fatto il suo fetente lavoro. Sono state potenti, in questi anni, le spinte all'emarginazione dei sindacalisti “puri” da parte di quelli “politici”. La cui carriera è orientata da un partito – il Pd, in genere.
Sta di fatto che il quadro istituzionale dell'attività sindacale ora è definitivamente mutato. Vale per il sindacato di base, da sempre in lotta per l'emersione a soggetto unitario di dimensioni nazionali. Ma vale anche per la Fiom e quel che c'è di opposizione autentica all'interno della Cgil.
Contro questa componente è scontato prevedere un attacco frontale continuo, uno stillicidio di espulsioni, ritiro di deleghe e “licenziamenti” (funzionari rispediti nell'azienda di provenienza, se pure esiste ancora). Già da qualche mese ci sono stati i primi casi e altre avvisaglie.
Mentre sul fronte teoricamente opposto le aziende pretenderanno di negare i permessi sindacali e il ritiro delle quote in busta paga ai “non firmatari di contratto” o di accordo (vale per la Fiom, ma al momento anche per pubblico impiego, scuola, università e ricerca, commercio).
In un sistema corporativo fascista non è possibile esser riconosciuti come “componente” libera di giocare per la conquista della maggioranza. Al massimo, come avveniva nel ventennio, si può restare “clandestini” a coltivare la relazione con i lavoratori. Ma per i delegati che si sono schierati “a sinistra” fin qui nel conflitto interno alla Cgil, non c'è nemmeno questa possibilità.
Il problema riguarda però anche i movimenti che fin qui hanno accompagnato, con diversi gradi di partecipazione e consapevolezza, le mobilitazioni del sindacato di base come della Fiom, che hanno dato vita a forme di autorganizzazione dei precari come alle prime forme di “sindacato metropolitano”.
La svolta del “28 giugno” obbliga tutti a misurarsi immediatamente con la nuova situazione. L'illusione che ogni componente dell'opposizione di classe possa intanto sopravvivere da sola, ben chiusa nelle proprie convinzioni, riti, tematiche, è per l'appunto un'illusione.
Siamo nel vortice di una crisi globale che sta per aumentare di intensità. Nessuno potrà resistere se resta “un'isola”. Il messaggio che arriva dall'attacco militare alla Val di Susa spiega fin nei dettagli anche questo.
di Dante Barontini, www.contropiano.org

lunedì 27 giugno 2011

Val di Susa. Mai più da soli!

La prova di forza militare che gli apparati coercitivi dello stato hanno attuato sulla Val di Susa suonano a conferma del clima politico e della posta in gioco nelle relazioni sociali nel nostro paese.
Lo scenario, per quanto possibile, è nitido: da una parte una intera popolazione in alleanza con alcune reti di attivisti politici e sociali che si sono opposti per anni ad un progetto devastante per il territorio; dall'altro i poteri forti finanziari e industriali, pienamente sostenuti dalla “politica” e dagli apparati statali, che non hanno inteso recedere da un affare per loro economicamente colossale, ma dall'assai dubbia utilità sociale.
In questo conflitto – legittimo dal punto di vista delle ragioni ambientali, sociali, democratiche – ma del tutto asimmetrico sul piano dei rapporti di forza “militari”, non poteva che prevalere l'aspetto coercitivo, supportato dal sostegno pressochè unanime di tutto il quadro politico locale e nazionale, sia di centro-destra che di centro-sinistra. In un certo senso, la Val di Susa è l'antipasto del clima che potremmo respirare qualora la crisi del governo Berlusconi trovi come sostituito un governo di “unità nazionale” costruito per far fronte alla crisi economica e alle sue ripercussioni sociali.
Il fatto che si siano potuti concentrare in una valle 2.000 agenti di polizia, guardia di finanza, forestali, carabinieri, per poter espugnare un presidio popolare e alcune barricate, rende evidente che su questo piano non c'era partita possibile. Lo Stato è lo Stato e l'asimmetria di forza è indiscutibile, tanto più se la medesima asimmetria si manifesta anche sul piano politico.
La popolazione della Val di Susa e le reti di attivisti politici e sociali loro alleate, hanno potuto contare solo sulle proprie forze, e il radicamento sociale sul territorio – fattore fondamentale di ogni resistenza – non poteva essere sufficiente.
Solo se si fosse in grado di esercitare la medesima pressione in più punti si sarebbe potuto impedire la concentrazione delle forze coercitive in un punto solo.
Ma questa non è ancora lo stato della realtà del conflitto sociale in Italia. E' evidente come l'esperienza della Val di Susa, una delle più ricche e avanzate nel nostro paese, suoni come lezione anche agli altri fronti del conflitto sociale. L'idea corre immediatamente alla resistenza popolare contro l'emergenza rifiuti in Campania, alle lotte sociali a Roma o alle esperienze che cercheranno di dare attuazione al mandato popolare ottenuto con il referendum per mettere fine alle privatizzazioni dell'acqua.
Non solo. A nessuno sfugge come il “patto sociale” messo in cantiere da Confindustria (con Cisl, Uil e la “pentita” Cgil) miri non solo e non tanto a definire nuove regole restrittive sulla rappresentanza sindacale, quanto a espropriare i lavoratori della possibilità di ricorrere allo sciopero quando lo ritengono necessario per ostacolare o limitare l'ingordigia padronale sui ritmi di lavoro, sui diritti acquisiti o sul blocco dei salari.
Dalla Val di Susa dobbiamo quindi trarre una lezione precisa: quanto prima occorrerà guardarsi nelle palle degli occhi, condividere una visione della posta in gioco sulle questioni principali del conflitto che oppone gli interessi “popolari” da quelli privati dei “prenditori”, e sperimentare tempi e modi comuni per riaffermare questi interessi dentro l'agenda politica ed economica del paese.
Occorre dunque una vera alleanza politico-sociale, un movimento il più possibile unitario, che riesca magari anche ad attrarre quella parte di “politica” disposta a corrispondere alle esigenze dell'emancipazione e non a quelle della conservazione e del politicismo. Un fronte politico-sociale di resistenza al capitalismo, più coordinato, più unito e più radicale, che contrasti la concentrazione delle forze avversarie su un unico punto per volta. Se un proletario di Napoli o Roma cominciasse a vedere le cose come un valligiano della Val di Susa, se un metalmeccanico bresciano le vedesse come un giovane precario bolognese o siciliano, le cose potrebbero cominciare a cambiare sul serio e la partita si potrebbe giocare con qualche chance in più.
di Alessandro Avvisato, www.contropiano.org

La Tav dieci anni dopo Genova

Non c’è niente da fare. Certi riflessi non scompaiono mai. A pochi giorni dal decennale del G8 di Genova 2001, quello in cui fu ucciso Carlo Giuliano, le forze di polizia hanno dato oggi un’altra prova della loro potenza manganellando i manifestanti della Val di Susa, attaccandoli con i lacrimogeni, cariche, getti d’acqua. E non è un caso se l’ex capo della Digos di Genova ai tempi del controvertice, Spartaco Mortola, sia stato appenna nominato dirigente del compartimento Polfer di Torino, nonostante una condanna in secondo grado, in particolare tre anni e 8 mesi per l’irruzione alla scuola Diaz e a un anno e due mesi per l’induzione alla falsa testimonianza dell’allora questore di Genova Francesco Colucci. Mortola, del resto, era stato promosso Questore il 2 giugno scorso tra le proteste dei sindacati di polizia che chiedevano di attendere, almeno, l’esito del ricorso in Cassazione.
Ma, appunto, certi riflessi sono duri a morire. Le cariche della polizia di oggi rilegittimano quelle di ieri perché hanno lo stesso impulso. Di fronte a una protesta popolare, massiccia e pacifica che non lascia scampo, non lascia spazio alle falsificazioni – “la Tav è sicura” – e scoperchia gli affari e i profitti che si nascondono dietro l’opera, la risposta è di nuovo il manganello.
I manifestanti hanno appena detto di aver perso un round “ma non la guerra”. E dovrebbe sconfortare il fatto che siano costretti ad affrontare una “guerra” per difendere le proprie vite, il proprio territorio, il futuro dei propri figli. Una guerra dichiarata da un governo imbelle e inerme, incapace di fare alcunché, per le sue debolezze interne, ma ancora in grado di cercare coesione e compattezza caricando una manifestazione pacifica.
Ma, crediamo, lo sconforto non ci sarà. Gli abitanti della Val di Susa hanno dimostrato da anni di saper resistere e lo faranno ancora e forse li aiuterà il vento nuovo che si respira nel Paese.
Resta da vedere, però, che faranno quelle forze politiche, come il Pd, che di questo vento intendono essere le depositarie ma che in Piemonte spingono per la repressione.

Qui non è più tempo di facile antiberlusconismo: dopo le vittorie alle amministrative, quella sui referendum, è tempo di dire con chi si sta. Con l’acqua pubblica o privata? Con Marchionne o con gli operai? Con i No Tav o con la polizia che li manganella? Fassino, Bersani, Veltroni e compagnia cantando questa scelta devono farla, ora.

Salvatore Cannavò, Il Fatto quotidiano
Quelli di stamani in Val di Susa sono avvenimenti spiacevolissimi. C'è molta amarezza da parte nostra.
Nel movimento no-Tav ci sono anche frange violente:
negarlo significa assolverli e non siamo d'accordo".

Pierluigi Bersani, da Repubblica di oggi 27/6

"C'è molta amarezza da parte nostra. nel centrosinistra ci sono anche frange violente che sostengono i bombardamenti della Libia e le manganellate in Val di Susa: negarlo significa assolverli e non siamo d'accordo"

Maurizio Acerbo, profilo Facebook di oggi

domenica 26 giugno 2011

Sì, c’è da essere storditi

Giuliano Ferrara, uomo di potere fin dalla culla, si dichiara “stordito”. Stordito dal silenzio dei direttori dei grandi giornali sullo scandalo increscioso delle intercettazioni che loro stessi pubblicano. Segue il tradizionale pippone sulla privacy e sulle mascalzonate della magistratura, che spunta sempre quando la privacy violata è quella dei potenti, di cui Ferrara si sente, per vari motivi, storia, tradizione e complicità, parte integrante.

In effetti sì, siamo indignati anche noi. E’ ora di dirlo chiaro e tondo, ci uniamo all’indignazione stordita di Ferrara. E’ uno scandalo, una cosa inaccettabile, che la signora Prestigiacomo diriga le politiche ambientali del paese. Una che pare (al telefono con Bisignani) più preoccupata della sua visibilità che del dissesto idrogeologico, più angosciata da “Mara”, altra ministra, poveretti noi, che dai problemi ambientali. E’ uno scandalo che il direttore generale della più grande azienda culturale del paese parli di Santoro con toni da raffinato hegeliano, dicendo cose come “Je stiamo a spacca’ er culo. So’ arrapato come ‘na bestia”. Che l’amministratore delegato delle Ferrovie telefoni col cappello in mano, che la Santanché si faccia strada grazie alle spinte e alle conoscenze, che il nuovo che avanza, tipo Montezemolo, baci la pantofola per questa o quella fiction da sbloccare. La ministra Gelmini che definisce “un cretino” Cicchitto ci può anche stare, è il fatto che sia ministra che stordisce.

La triste farsa del berlusconismo, la putrefazione della destra italiana, sono lì da leggere e da sfogliare. E’ comprensibile che Ferrara, che ne è stato cantore, teorico, portavoce e devoto seguace si secchi. Ma la vera questione è un’altra: è che gente come Prestigiacomo, Gelmini, Masi, Letta e su su fino al conducator latin lover che ci ritroviamo, e traffichini, furbetti, affaristi e Frattini vari governino il Paese. I risultati, del resto, si vedono.

Dov’è lo scandalo: che si violi la privacy della classe dirigente o che la classe dirigente sia questa accozzaglia di gaglioffi? In effetti, sì, c’è da essere storditi.

Alessandro Robecchi, Il Manifesto

O la Borsa o la Vita. Basta ricatto del debito sovrano

Le grandi banche d'investimento hanno procurato la crisi debitoria e devono pagarla loro. Chi a sinistra non lo capisce, finirà come Zapatero e Papandreou
Il debito è stato lo strumento principe che ha permesso,dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, di continuare a crescere superando i limiti strutturali di questo modo di produzione capitalistico. È stato grazie al processo generale di indebitamento - degli Stati,delle famiglie e delle imprese- se i paesi occidentali (ad eccezione del Giappone) hanno potuto rimandare di ben trent'anni la crisi da sovraproduzione e la conseguente, inevitabile stagnazione economica. È stata la prima volta, dalla nascita del capitalismo industriale, che sono state infrante tutte le teorie sul ciclo economico -da Schumpeter a Kalesky a Kontradieff - con una crescita economica che in occidente , con brevi interruzioni, è durata dalla fine della seconda guerra mondiale alla crisi finanziaria del 2007-08, ed alla conseguente «Grande Recessione» odierna, come la definisce il Nobel Paul Grugman. Adesso, è arrivato il tempo di pagare il conto di questa crescita «drogata» e di ridurre drasticamente il processo di indebitamento, a partire dal debito pubblico.
Ma, i debiti non sono uguali per tutti. Lo sappiamo bene. Ci sono piccole e medie imprese che sono fallite a causa di un alto indebitamento, e ci sono grandi imprese che ancora distribuiscono utili agli azionisti malgrado un indebitamento spaventoso che sfiora il fatturato annuo. Così, ci sono Debiti Sovrani- i debiti dello Stato- che rischiano di far fallire grandi e piccoli paesi europei, mentre gli Usa - il paese più indebitato al mondo, con un debito pubblico che ha raggiunto i 14.700 miliardi di dollari, pari al 95% del Pil- non è chiamato a risponderne (finché i Fondi Sovrani cinesi continueranno a comprare titoli di Stato a stelle e strisce).
I paesi del Sud Europa appartenenti all'area Euro, insieme ad Irlanda e Belgio, rischiano il default se non decideranno drastiche misure di tagli alla spesa pubblica, abbassamento dei salari, licenziamento dipendenti pubblici,ecc. È il ricatto dei Mercati Finanziari, veri e propri usurai che si gettano sul corpo della vittima per spremerlo fino a portarlo al suicidio.
La Grecia, piccolo e affascinante paese, con solo il 2% della popolazione e meno del 2% della ricchezza prodotta nella UE, sta diventando la «pietra d'inciampo», il punto di svolta di tutta la costruzione istituzionale europea. La Commissione Europea si riunirà il 2 Luglio per decidere se concedere una ulteriore tranche dei 110 miliardi di euro per salvare il paese dal default. In cambio Bce e Fondo monetario internazionale chiedono una micidiale cura dimagrante allo stato greco, la svendita del patrimonio naturale e storico, tagli pesanti alla spesa sociale, riduzione dei dipendenti pubblici, ecc. Una terapia d'urto inutile e disastrosa. Inutile, in quanto la Grecia non potrà mai restituire questo prestito, visto che per piazzare i suoi Bot è arrivata a pagare un tasso di quasi il 30% a due anni , e visto che con queste misure draconiane il suo Pil si stima che cadrà del 4-5% annuo nei prossimi tre anni. In breve, con queste ricette avvelenate la Grecia si troverà con un rapporto Debito/Pil ancora più alto di quanto non sia oggi. Per farvi fronte dovrà mettere all'asta un intero paese, dalle sue isole sull'Egeo al porto del Pireo (in parte già comprato dai cinesi), a quello che resta della sua struttura produttiva. E non basterà. Di contro, se non accetta queste misure/ricatto imposte dalla UE e dal FMI dovrà uscire dall'Euro, ritornare ad una dracma che sarà fortemente svalutata e produrrà una spirale inflazionistica.
Stessa sorte toccherà agli altri paesi Ue del sud Europa, nell'ordine: Portogallo, Spagna ed Italia. La Germania non vede di buon occhio questa possibile uscita dall'Euro dei paesi sud-europei, sia per una concorrenza sui prezzi di monete svalutate, sia perché come ha scritto Romano Prodi «la Germania è troppo grande per l'Europa, ma è troppo piccola per l'economia-mondo». Inoltre, se la Grecia fallisce sono proprio le banche tedesche le prime a pagare lo scotto.
Se non si capisce che la questione del «debito pubblico», non è un problema tecnico per specialisti, ma una questione politica di prima grandezza, una questione di rapporti di forza, allora il destino per le popolazioni del sud Europa è segnato. Sia che si rimanga nell'Euro pagando un enorme costo sociale, sia che se ne esca, sono i lavoratori, i giovani, i disoccupati, ed anche il ceto medio, che ne pagheranno le conseguenze.
A questi diktat dei «mercati finanziari» e delle istituzioni internazionali (Bce, Fmi, ecc.) esiste una alternativa. I paesi del sud-Europa , insieme all'Irlanda ed al Belgio, rappresentano la metà dei paesi aderenti all'Eurozona (se non consideriamo i piccoli paesi come Malta, Cipro e la Slovenia). Avrebbero pertanto un peso non indifferente se agissero insieme, individuando una piattaforma comune che consenta la ristrutturazione dei debiti sovrani. Certo, qualche istituto finanziario dovrà rimetterci qualcosa, qualche titolo bancario subirà uno scivolone in Borsa, ma salveremmo la qualità e la quantità della vita di oltre 130 milioni di cittadini europei. Non solo.



Questa è l'occasione per rilanciare la Tassazione delle Transazioni Finanziarie (Ttf). In tutto il mondo occidentale sta montando una campagna per la Ttf, che si chiama Robinhood tax , nei paesi anglosassoni o campagna dello 005 che è partita in Italia ed ha già raccolto il sostegno di insigni studiosi, intellettuali e varie associazioni, a partire da quelle cattoliche. Con una TTF di solo lo 0,05%, secondo uno studio coordinato da Leonardo Becchetti (Università Roma 2) si otterrebbe un gettito di 210 miliardi l'anno che potrebbe non solo risanare i conti, ma rilanciare una politica sociale che è urgente in tutta l'Unione Europea.
Gli «indignatos» di tutta l'Europa mediterranea chiedono a gran voce proprio questo: che si scelga tra la Borsa e la Vita. Se la crisi debitoria l'hanno procurata gli hedge fund, le grandi banche d'investimento, che la paghino loro e non la gente. Se le forze politiche della sinistra italiana non lo capiscono faranno la fine degli Zapatero e dei Papandreou, tanto da farci rimpiangere ...Tremonti. Non basta cacciare Berlusconi se non si imbocca la strada dell'alternativa a questo modello economico e sociale ormai fallito.

di TONINO PERNA - IL MANIFESTO del 26 GIUGNO 2011

sabato 25 giugno 2011

B. stia tranquillo. Ci pensano loro

Soltanto loro potevano, e possono, salvarlo. Dopo le amministrative, dopo i referendum. Era il pensiero che in tanti, me compreso, avevano espresso. “Loro”, ovviamente, è il centrosinistra. Non sono passate neanche due settimane dal plebiscito referendario, e già sembra tutto così lontano.

Ricapitolando.

Subito dopo il successo dei Sì, Pier Luigi Bersani rilascia una fastidiosissima conferenza stampa in cui fa lo sborone e si appropria della vittoria. Ma anche no. Bersani era favorevole, come tutto il Pd, al nucleare. Poco e nulla ha fatto, come tutto il Pd, contro il legittimo impedimento. E riguardo all’acqua pubblica, gioverebbe riascoltare quel discorso di Carpi in cui esortava ad affidare l’acqua alla Veolia. Chiedendo al suo amico ministro Mastella, peraltro, di zittire i medici che si permettevano di dire quanto gli inceneritori fossero dannosi per la salute dei cittadini.
Massimo D’Alema, in quei giorni, ha detto a Ballarò: “E’ curioso. Se perdiamo è colpa nostra, se vinciamo è merito della società civile. Noi non vinciamo mai. Ahahahahah”. Ahahahahah. Ride lui, rido io: è l’unica cosa condivisibile detta dal Presunto Intelligente negli ultimi 62 anni. Già, D’Alema. Un altro che esultava, dopo quei referendum che, fino a Fukushima e ai successi delle amministrative, erano sgraditi poiché “facevano il gioco di Berlusconi” (cioè rubavano il lavoro al Pd). E con lui esultavano Casini, e Fini, e Rutelli. Tutta gente che, anche dopo il disastro in Giappone, era favorevole al nucleare (e Casini, già che c’era, si era adoperato di persona per il legittimo impedimento).
I rutelliani, in una delle molte sintesi panecicoriesche che li hanno resi mitici, hanno aggiunto che il loro appello a votare ai referendum è stato aritmeticamente decisivo per la vittoria dei Sì. Considerando che di rutelliani, in Italia, ce ne sono sì e no 7, evidentemente non mi sono accorto che il quorum è stato raggiunto per un nonnulla.
Ma torniamo a D’Alema. E’ lui uno dei primi rianimatori berlusconiani. Da sempre e non solo per la Bicamerale. Nessuno ha mai capito bene se sia ingenuo, tonto, in malafede o un infiltrato berlusconiano nelle file della “sinistra” italiana. Non si sa, però lui ci ha tenuto a far sapere che sulle intercettazioni su Bisignani e la P4 “Leggiamo una valanga di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con vicende penali e sgradevolmente riferiscono vicende private delle persone”. Una sintesi garantista, peraltro riassumibile col sempiterno Sticazzi, a cui non era arrivato neanche il ministro (va be’) Alfano.
Berlusconi è finito. Si telefona da solo, la base leghista lo strozzerebbe, nessuno lo sostiene davanti ai Tribunali. Lo schifa anche la serva. E’ però qui che il Pd, solerte, lo aiuta. Da una parte sostenendo tesi inaccettabili (per chi dice di essere alternativo al premier), dall’altra fermandosi sempre un attimo prima – anzi, molto prima – di portare l’ultimo colpo al pugile rivale. La maggioranza barcolla, e loro si nascondono. Sono già tornati mansueti. E Bersani ha smesso di farsi rappresentare da Crozza nei discorsi importanti: peccato, ci aveva guadagnato in cipiglio e credibilità.
Il sistematico bocca a bocca del centrosinistra al governo non si limita però al Partito Democratico. E’ di questi giorni la rutilanza di Antonio Di Pietro, uno dei reali vincitori del referendum. Più cauto, più moderato, più trattenuto. E già questo aveva infastidito qualcuno. La sua chiacchierata a Montecitorio con Berlusconi ha poi fatto inferocire molti internauti. Una polemica patetica, che dimostra come la Rete sia sì straordinaria, ma permetta anche a qualsiasi frustrato di sfogare bile e rabbia sul personaggio famoso di turno. Ergendosi a duro e puro che insulta, protetto da anonimato, il “traditore”. Che colpe ha Di Pietro? Che doveva fare?Menargli, come ha ironizzato lui? “Inciucio” de che? Non scherziamo, via. L’episodio dimostra piuttosto quanto sia messo male il Premier. “Un signore” - ha raccontato Di Pietro - mi si avvicina e mi dice ‘Buongiorno’… Poi mi domanda: ‘Visto quanto è bello il mio discorso’?”. Berlusconi è così solo da andare dal suo peggior nemico per ricevere un complimento. Poveraccio. Di Pietro ha fatto benissimo a parlarci, dicendogli quello che lui dichiara di avergli detto (“La cosa migliore per il Paese è che lei se ne vada a casa”). Il problema non è questo, ma casomai la sua nuova veste di Pifferaio Magico dei delusi destrorsi.
Basta leggere l’intervista di stamani a La Stampa, fatta da Fabio Martini. Legittima la svolta moderata, legittimo il sottolineare quanto in Parlamento la vera opposizione l’abbia fatta (quasi) soltanto l’Italia dei Valori. Ci sta anche la sverniciata al Retore Supercazzolico Vendola (“Lui vuole le primarie, ma per fare cosa? Per capire cosa farebbe il candidato Vendola, potrei guardare in Puglia. Ma cosa sta facendo? Niente. O comunque nulla di rivoluzionario”).

Facile anche l’attacco al Pd: “E’ un pachiderma. E’ finito per loro il tempo di sentire applausi. L’unica cosa che hanno fatto, dopo averci sparato addosso per i referendum, è stata quella di metterci il cappello sopra. Si sentono sempre i primi della classe, ma si devono dare da fare. Riconosco che il motore debba essere costituito dal partito di maggioranza relativa, però suono la sveglia”. Meno condivisibile accusare il Pd di aver detto sempre “no”, come l’asino di Buridano che poi morì di fame (sempre ruspante, Di Pietro, quando ricorre ai paragoni): di “no”, il Pd ne ha detti pochi. Troppo pochi. E i risultati si vedono.

E’ però la sintesi finale a non convincere. Con il crollo del Cavaliere c’è tutto un elettorato che va riportato sulla retta via. Ce lo hanno già detto i referendum: sono andati a votare 27 milioni di italiani, molti di più dei 17 che votarono centrosinistra alle Politiche”. Poi: “Io non voglio morire di inedia in attesa che il Terzo polo decida che fare. Nel sistema bipolare gli elettori liberaldemocratici che non vogliono buttare il proprio voto, se votano centrosinistra sanno di trovare nell’Idv un riferimento ben strutturato. Noi siamo una realtà liberaldemocratica che vuole dialogare con la sinistra ma non essere ghettizzati ideologicamente a sinistra. Lo Stato sociale va difeso ma il libero mercato non è un nemico da abbattere. Difendiamo i lavoratori, ma senza imprese i lavoratori non ci stanno. L’assistenzialismo fine a sé stesso non porta da nessuna parte”. Quindi: “Dobbiamo intercettare i voti in uscita da destra.

I politologi l’hanno definita svolta moderata dell’Idv. E non si scopre oggi che Di Pietro non sia mai stato un uomo di sinistra. Casomai, il fatto che lui e Grillo continuino a intercettare gli Orfani Sinistri dà la misura di quanto la nomenklatura di sinistra sia impresentabile – e per fortuna gli elettori del Pd sono molto superiori a chi dovrebbe rappresentarli.

La sintesi politica del “nuovo” Di Pietro suona però raffazzonata. Un po’ MoVimento 5 Stelle, un po’ Casini , un po’ D’Alema. Poche idee e confuse. Volere intercettare i voti della destra è leit motiv antico. Lo sostiene il bolscevico Follini, lo ripete nell’ultimo numero di MicroMega il grillino Favia, affermando che nessuno può riuscirci tranne loro (falso: Gunny De Magistris a Napoli c’era riuscito eccome. Infatti, come premio, adesso lo stanno lasciando tutti solo).
E’ chiaro che esiste una fetta di elettorato fluttuante, quasi sempre centrista tendente alla destra. C’è sempre stata. Ciò che Di Pietro non capisce, è che se spinge verso destra, forse può intercettare parte dei mitologici “2 milioni di voti” che servono per vincere le elezioni, ma al tempo stesso ne perde altrettanti – se non di più – a sinistra. E’ la classica coperta corta. Di Pietro ha avuto successo proprio per i suoi toni netti, duri, a volte manichei. Nel momento esatto in cui esce dall’arena per entrare goffamente nella realpolitik, diventa un “ex sbirro” qualsiasi. Un Casini fuori tempo massimo. Un D’Alema di destra (cioè un D’Alema 2).
Amministrative e referendum hanno dimostrato che il centrosinistra vince quando non si vergogna di essere tale. Quando propone persone credibili, quando se ne sbatte dei diktat dall’alto. Quando si impegna in battaglie “felicemente bipartisan”. Quando non scimmiotta veltronianamente il finto moderatismo del centrodestra. Di Pietro si è appena iscritto all’esercito smandruppato dei presunti statisti. Quelli che inseguono il centro, e nel frattempo perdono la base. Viene da chiedersi: e se la soluzione fosse convincere non i delusi di destra, bensì intercettare – ancora di più – quegli orfani di sinistra che nel 2008 si astennero, ma due settimane fa sono stati i primi a votare quattro Sì?
Stia tranquillo, Berlusconi. Ci pensano loro, a rianimarla un’altra volta. Hanno già cominciato.
Andrea Scanzi; Il Fatto quotidiano