venerdì 8 luglio 2011

L'accordo è una prigione, ma la partita resta aperta

di Fausto Bertinotti

Si potrebbe dire che l'intera vicenda delle relazioni sindacali, e dei rapporti sociali tra lavoratori e impresa capitalista, sia leggibile attraverso la sorte toccata ad una sola parola: esigibilità.

L'esigibilità dei contratti di lavoro è stata rivendicata per un intero periodo storico dai lavoratori e dalle loro organizzazioni nei confronti dell'impresa. La ragione è evidente. Il contratto di lavoro prescriveva un miglioramento delle condizioni di lavoro, di salario e di orario a cui il padronato spesso resisteva alla sua pratica attuazione, sicché l'esigibilità è stata comprensibilmente un'istanza del mondo del lavoro. Questa istanza è stata sempre promossa attraverso un esercizio democratico e partecipato, spesso con la mobilitazione e l'azione sindacale.

Nel nuovo ciclo economico e sociale, in specie nell'era Marchionne, si è consumato il rovesciamento. L'esigibilità è diventata una richiesta padronale. La ragione è altrettanto evidente: nei casi che pretendono di fare scuola e di indicare la tendenza, il nuovo contratto è un contratto in "peius" che peggiora la condizione lavorativa. Perciò è l'impresa a pretenderne l'attuazione incondizionata ed è essa a temere una prevedibile resistenza. Ma cambiando i soggetti protagonisti, cambiano anche i metodi di azione. Se ieri l'esigibilità era rivendicata dai lavoratori con una prassi democratica, oggi l'esigibilità è pretesa dai padroni con una pratica neoautoritaria e con la sospensione della democrazia. La prima e fondamentale ragione per opporsi all'accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil consiste proprio nel constatare come alla sua origine ci sia questo rovesciamento dei rapporti sociali che vorrebbe liberare l'impresa e imprigionare i lavoratori.

La filosofia di Marchionne è diventata la base dell'accordo confederale, quella che dovrebbe guidare le relazioni sindacali d'ora in avanti. Per il sindacato confederale il danno e la beffa. Infatti, non potendo essere retroattivo, l'accordo non risolve alla Fiat il contenzioso di legittimità degli accordi capestro di Pomigliano e Mirafiori. La Confindustria si "accontenta", invece, del presente e del futuro. Qualcuno, anche assai autorevole, ha mosso un'obiezione a questo giudizio, sostenendo che l'accordo non sarebbe la svolta negativa denunciata, bensì la registrazione di ciò che stava già avvenendo. Non capisco come non ci si avveda di dare così un giudizio liquidatorio e definitivo sul sindacalismo confederale.
Un osservatore attento, non certo un militante della Fiom, come Massimo Mucchetti ha individuato come tendenza in atto "il costante scivolare delle ragioni di scambio contrattuale dai lavoratori agli azionisti e al management nell'economia globalizzata (…). In queste condizioni, bene che vada, la difesa del lavoro si risolve in una ritirata strategica. E se l'impresa non è in grado di produrre in loco per mercati avanzati la ritirata rischia di diventare una rotta mentre la Borsa trova altrove ragioni per festeggiare". Ecco, l'accordo è, per il sindacato, l'accettazione di questa tendenza devastante e una gabbia eretta al fine di stabilizzarla, anche, eventualmente, contro la volontà dei lavoratori e, persino, imponendo una tregua al possibile maturare della contestazione e del conflitto.
E' l'eutanasia del sindacalismo confederale, cooptato in assetto neocorporativo dominato dall'impresa e dal mercato.
C'è allora una ragione di classe e una ragione democratica per rifiutare l'accordo. Il vulnus democratico è profondissimo. Richiederebbe l'indignazione di tutti i democratici. O, se il diritto al voto viene negato ai lavoratori in quanto tali, il vulnus è perciò meno grave? Per loro il principio di una testa un voto non vale, essi, come lavoratori, sono condannati ad essere esclusi dalla cittadinanza? Il voto di stato, qui il voto per organizzazione, prende il posto dell'esercizio individuale del voto. Questo accade nella definizione del contratto nazionale di lavoro che pure riguarda, anche individualmente, la lavoratrice e il lavoratore e questo viene sancito da un accordo tra le parti sociali. Non è una ragione sufficiente per indignarsi?
Carla Maggio è un'iscritta a un sindacato confederale. Con la sua attività in azienda e fuori da essa nella società, ha fatto crescere il suo sindacato, lo ha alimentato, lo ha difeso, anche quando pure più di una critica la convinceva. Carla ha fatto le assemblee per il contratto, ha organizzato scioperi e picchetti (la sua è una categoria combattiva), ha organizzato pullman e manifestazioni, ha discusso, e discusso ancora, la piattaforma e i suoi possibili punti di caduta. Li ha sostenuti, per senso di appartenenza e per realismo politico, anche quando non ne era del tutto convinta. Ma ora, alla stretta conclusiva, su un punto decisivo è passata la tesi confindustriale, il sindacato si è diviso, la maggioranza dei sindacati (per iscritti e voti di RSU), tra cui il suo, ci sta; l'accordo viene firmato. Carla Maggio è contraria, ma come iscritta viene calcolata come se fosse consenziente (è falso: ognuno sa che si possono avere buone ragioni per aderire ad un sindacato e altrettante per non essere d'accordo con una sua scelta contrattuale). Carla Maggio è contraria ma come lavoratrice, seppure sindacalizzata, non può votare.
Giovanni Autunno è un suo compagno di lavoro, non è più iscritto al sindacato per una storia di cui non vuol più parlare. Lui sta persino peggio, rispetto alla democrazia, della sua amica Carla. Lui non è neppure considerato. I sindacati a cui non è iscritto firmano il contratto che viene a lui esteso, come un erga omnes, senza che neppure gli si chieda un parere. Pensate che con il sindacato dei consigli, Giovanni non solo votava e il suo voto contava per uno come conta quello dell'iscritto, ma poteva essere eletto delegato ed essere lui, Giovanni, a rappresentare tutti i lavoratori del gruppo, sia che fossero iscritti al sindacato sia che non lo fossero. Quel sindacato aveva l'ambizione di rappresentare tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, senza eccezioni. Questo sindacato, invece, nel timore di non saper dar forza alle ragioni dei lavoratori, accetta di essere legittimato non dai lavoratori, ma dal suo poter fare comunque e sempre l'accordo, tra le parti sociali anche quello richiesto dalle pure ragioni d'impresa. Il sindacato confederale ha deciso di farlo con questo accordo confederale, anche a costo di rinunciare, di fatto, al carattere unificante del contratto nazionale e anche se, per garantire questa scelta, ha dovuto accettare la soppressione della verifica del mandato dei lavoratori a stipulare gli accordi. A completare il quadro c'è l'impegno a non organizzare lo sciopero contro l'accordo, quand'anche un sindacato lo contesti.

Un vecchio riformista ci insegnò, parecchio tempo fa, che alle ingiustizie bisogna ribellarsi. E' un insegnamento ripreso in tante piazze e strade e urne in questa Europa dove sono tornati a spirare venti di democrazia partecipata e di rivolta. La risposta dell'accordo confederale è stata quella della paura di questi venti, è stata quella dell'arroccamento contro la possibilità che essi possano contagiare anche quei luoghi di lavoro, nei quali già si sono viste scelte coraggiose ed efficaci di lavoratori, come a Mirafiori o Pomigliano, e di organizzazioni, come la Fiom. Perciò l'accordo è una prigione, ma la partita resta aperta e comincia dalla democrazia.

Fausto Bertinotti

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