lunedì 31 ottobre 2011

E venne il giorno del Cordero "politico"

di  Dante Barontin, www.contropiano.org

E' il momento dei posizionamenti. Dopo Mario Monti, anche Luca Cordero di Montezemolo “scende in campo”, scegliendo Repubblica come trampolino di lancio.

Ma non si tratta di “concorrenza”. Il programma montezemoliano e identico. Quindi si vanno schierando pezzi interi di “classe dirigente”, che vanno componendo un “blocco” in grado di affrontare senza troppi traumni gli scossoni del dopo-Berlusconi, quando il Pdl e il Pd esploderanno, liberando valanghe di “personale politico” in cerca di sistemazione altrove.
Il blocco in costruzione fonda però la sua solidità sull'”assetto proprietario” più che sul consenso popolare. E questo è il suo elemento di rischio: fare politiche antipopolari con il consenso del popolo è davvero difficile. Né si può dire che Montezemolo produca la sensazione del genio che arriva e mette a posto tutto. La sciocchezza populista del “si possono ridurre le province del 90% senza cambiare la Costituzione”, per esempio, se la poteva tranquillamente risparmiare. Attualmente sono 110, certamente troppe; ma il 90% in meno significa che ne resterebbero soltanto 12, meno delle Regioni... Possono insomma essere abolite, ma va cambiata la Costituzione.
La chiave di volta del programma è però il punto 3 (“ Dobbiamo tornare ad essere il paese del lavoro e della produzione. Non possiamo più permetterci di avere un fisco che premia rendite e patrimoni”). Segna una discontinuità secca nel blocco dominante del dopoguerra, una rotture del fronte interno “borghese”. La contraddizione col berlusconismo, sul piano economico-sociale, è tutta qui. Ridimensionare la rendita a favore del profitto, priorità alla produzione rispetto ai patrimoni, fiscalità di vantaggio per i capitali investiti, un livello più elevato di emersione dal “nero”, ecc.
Cambia poco o nulla, invece, per il lavoro. L'eliminazione immediata delle pensioni di anzianità e la sponsorizzazione piena della “proposta Ichino” ­ abolizione dell'art. 18 e licenziabilità per “motivo economico oggettivo” - esattamente come nella lettera del governo al Consiglio europeo – chiarisce al di là di ogni dubbio che quella in corso è una battaglia “dentro” il blocco dominante. E basta.
Il futuro governo dovrà rappresentare al meglio questo blocco di interessi, facendo da aggregatore in mezzo alla frammentazione totale della rappresentanza politica. Un ruolo “oggettivamente centrista” che esclude la praticabilità anche solo ipotetica di qualsiasi “alleanza elettorale” con quanti, della vecchia sinistra ex-parlamentare, ancora ragionano entro i confini del bipolarismo pro o contro Berlusconi.
Resta un'incognita molto pesante in questo “spariglio” interno al blocco dominante. Anche dando per scontata la fine politica del Cavaliere, non altrettanto si può sperare dei suoi “rappresentati” che verranno chiamati a pagare la crisi in prima persona. L'ipotesi che nascano nuovi soggetti politici “populisti” di destra, orientati a legare insieme il “leghismo territoriale” e le paure crescenti di ampie fasce di popolazione impoverita, è tutt'altro che remota.
Variabili che ogni “fronte di classe” in costruzione, a partire dal sindacalismo conflittuale, deve tener presenti per orientare al meglio la propria azione sociale.

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Da Repubblica

"Il tempo è scaduto, Berlusconi lo capisca"

Da maggioranza e opposizione non arrivano risposte adeguate. Il governo è paralizzato da conflitti interni. L'opposizione ha una linea di politica economica confusa e non è in grado di garantire quanto richiesto dall'Europa. Le elezioni non rappresenterebbero dunque una soluzione e paralizzerebbero il paese.
La lettera all'Unione europea è manifestamente insufficiente rispetto alla gravità della situazione. Le tensioni che percorrono l'Italia non consentono di affrontare i problemi con soluzioni parziali, che diano l'impressione di riservare i sacrifici solo a una parte dei cittadini, magari proprio quelli che non votano i partiti di governo. Con questo metodo l'Italia rischierebbe di esplodere. Esiste oggi una ampia condivisione, da parte di cittadini e di esponenti politici moderati e riformisti, sulle misure prioritarie da adottare.

1. Prima di chiedere ulteriori sacrifici ai cittadini, la politica e le istituzioni devono mettere mano ai loro stessi costi, partendo dal numero dei parlamentari, dall'abolizione delle province e degli altri enti inutili. Non ci vuole una legge costituzionale per abolire il novanta per cento delle provincie. E poi varando una "patrimoniale sullo Stato", una vendita massiccia di cespiti pubblici che vada ben oltre quanto attualmente prospettato dal governo.
2. Lavoro. Non possiamo chiedere più flessibilità in uscita senza affrontare il problema del precariato permanente e la riforma degli ammortizzatori

sociali. La proposta Ichino è del tutto condivisibile e attuabile, ma va presa nella sua interezza. Bisogna abolire i contratti a termine (mantenendo solo quelli fisiologici e stagionali), sostituendoli con un contratto unico, che consenta il licenziamento per motivi economici o organizzativi, ma che protegga il lavoratore dalle discriminazioni, gli eviti di dover rincorrere rinnovi periodici e lo supporti in caso di perdita del lavoro. I lavoratori che attualmente godono di un contratto a tempo indeterminato, protetto dall'art.18, continuerebbero a beneficiare di una protezione più ampia rispetto ai giovani lavoratori, ma in cambio dovrebbero andare in pensione più tardi, contribuendo così a finanziare i nuovi ammortizzatori sociali.
3. Dobbiamo tornare ad essere il paese del lavoro e della produzione. Non possiamo più permetterci di avere un fisco che premia rendite e patrimoni. Non è solo una questione di giustizia sociale, ma anche di efficienza dell'economia. Se la crescita scompare anche il valore dei patrimoni diminuisce. Occorre reperire risorse da destinare all'abbattimento delle aliquote su lavoratori e imprese. Con l'introduzione di una imposta permanente sulle grandi fortune e l'abolizione degli incentivi alle imprese si potrebbe tagliare in maniera radicale l'Irap. Mentre, vincolando per legge i proventi della lotta all'evasione alla diminuzione dell'Irpef, ad iniziare dai redditi medi e bassi, si creerebbero le condizioni per un positivo conflitto di interessi tra chi paga e chi evade. Un ulteriore ritocco all'Iva può essere valutato, ma solo a patto che vada automaticamente a diminuire la pressione fiscale sulle persone. Tutta la manovra sul fisco deve essere sottoposta al vincolo di destinazione. La sfiducia dei contribuenti, che non sanno più dove vanno a finire i loro soldi, si combatte evitando discrezionalità nell'uso delle risorse che provengono dalle loro tasche.
4. Bisogna intervenire subito sulle pensioni, abolendo quelle di anzianità e passando ad un sistema interamente contributivo. Una parte consistente dei proventi generati andranno utilizzati per investire in un welfare dedicato ai giovani e alle donne.
5. Per esperienza diretta so quanto rapidamente la liberalizzazione di un settore può dare impulso a investimenti e occupazione e quanto però siano forti le resistenze della politica per mantenerne il controllo. La lista dei settori da liberalizzare è lunghissima. E' fondamentale che insieme ai provvedimenti di apertura alla concorrenza si rafforzino i poteri dell'Antitrust per dare agli investitori la garanzia del rispetto delle regole.
Questi cinque provvedimenti, se attuati simultaneamente e accompagnati da un grande piano di rilancio dell'immagine internazionale dell'Italia, rappresenterebbero un valido argine alla speculazione, ridarebbero una prospettiva di crescita al paese e opererebbero nella direzione di una maggiore equità sociale.
Sappiamo però che nessuno dei due schieramenti porterà avanti questa agenda. Al contrario di quanto avviene nelle democrazie avanzate, dove l'obiettivo è la conquista dell'elettorato moderato, in Italia la preoccupazione dei partiti è quella di compattare la parte più populista dell'elettorato, appellandosi ad un "serrate i ranghi" permanente. Oggi, per fortuna, molte persone non si riconoscono più in questa logica. Dentro la destra e la sinistra stanno emergendo forze che spingono per un rinnovamento vero del proprio schieramento. Compito di tutta la classe dirigente è quello di mettere da parte ogni ambizione personale per dare un contributo affinché queste forze vengano valorizzate e trovino un terreno di incontro.
Questo è quello che dobbiamo fare oggi in vista di un prossimo futuro. Ma l'urgenza della situazione richiede soluzioni immediate. Non abbiamo tempo di attendere la naturale evoluzione del quadro politico. Il Presidente del Consiglio deve rendersi conto che l'unica strada per salvare il paese passa oggi attraverso un governo di salute pubblica. In passato, in situazioni non più gravi di questa e con un'opposizione ideologicamente più radicale, i leader del partito di maggioranza relativa trovarono il coraggio per aprire una stagione di ampia collaborazione, nella consapevolezza che ci sono momenti in cui ridare coesione al paese viene prima di ogni altra considerazione. Se Berlusconi continuerà ad anteporre le proprie ambizioni al bene dell'Italia, e se la sua maggioranza lo asseconderà in questa pericolosa scelta, si concluderà nel peggiore dei modi un percorso politico che ha ombre e luci, ma che non merita di affondare nello spirito del "dopo di me il diluvio".

sabato 29 ottobre 2011

Ripartire dai contenuti e dalla democrazia - di Coordinamento "No debito"

Un documento del Coordinamento: “No debito”. 
Quelli del 1 ottobre rilanciano e danno appauntamento alle assemblee locali in tutto il paese e ad una nuova assemblea nazionale il 17 dicembre.
La Bce in agosto ha mandato una lettera al governo italiano in cui chiede di distruggere tutto lo stato sociale, tutti i nostri diritti, di mettere all’asta i nostri beni comuni, per pagare le cambiali del nostro debito alle banche e alla speculazione finanziaria internazionale. Berlusconi alla fine ha risposto, accettando tutte le condizioni capestro e mettendocene anche qualcuna in più.
Non si tratta più solo dell’annuncio della libertà di licenziamento, sempre desiderata e sempre più vicina, visto l’articolo 8, visti i ricatti aziendali, vista la distruzione dei diritti e l’estensione della precarietà. Oggi un tallone di ferro schiaccia il mondo del lavoro e ogni misura di flessibilità e di liberalizzazione serve solo a calare i salari e i diritti, a sfruttare di più. Per questo l’accordo del 28 giugno non è un freno ma è una inutile resa a questa aggressione.
Ma a tutto questo si aggiungono le misure apparentemente più neutre, a partire dall’avanzo primario di bilancio, che significa in realtà la distruzione di ciò che resta dello stato sociale, per finanziare le banche. E si aggiungono le privatizzazioni e le liberalizzazioni. Così si cancella la nostra democrazia, tradendo il referendum di giugno, ove la grande maggioranza degli italiani aveva detto no alla privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni. Siamo all’opposto di ciò che grida il movimento occupy wall street: non ci si preoccupa di ciò che chiede e di ciò di cui ha bisogno il 90% della popolazione, ma si difendono gli interessi e il potere della parte più ridotta, del 10%.
La lettera di intenti di Berlusconi è semplicemente una cambiale sulla nostra democrazia. Bisogna rifiutarla oggi, con le lotte e con la mobilitazione democratica: ci trattano come la Grecia, dobbiamo reagire come il popolo greco. Per difendere la nostra democrazia le opposizioni e i sindacati devono dire prima di tutto che quelle lettere non valgono nulla e non sono esigibili. Altrimenti la crisi della nostra democrazia affonderà nella palude delle finzioni. La lettera della Bce, la lettera di Berlusconi vanno strappate in faccia all’Europa, altrimenti sono tutte chiacchiere.
La drammatica evoluzione della crisi italiana, l’aggressione sempre più estesa ai diritti sociali e civili, danno ragione al percorso che abbiamo iniziato il 1° ottobre e mostrano tutta la validità e tutto il potenziale della mobilitazione del 15 ottobre.
Chi ha manifestato in quel giorno, così come chi lotta in Val Susa, nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche, nei territori e nelle città, oggi non è solo contro il governo Berlusconi, ormai alla conclusione della sua parabola, ma anche contro quel potere economico finanziario che nel nome del debito vuol far pagare alla maggioranza della popolazione tutti i costi della crisi. La manifestazione del 15 ottobre, le iniziative che l’hanno preceduta, erano quindi contro due avversari: il governo e, assieme ad esso, la Bce e la dittatura finanziaria che sta distruggendo i diritti in tutta Europa.
Gli scontri del 15 ottobre e la successiva loro gestione mediatica hanno oscurato per alcuni giorni tutto questo. Si è così prodotta una regressione del confronto, si è tornati indietro di molti anni e sono state cancellate le novità vere della mobilitazione. Questa regressione è un risultato negativo che non può essere ignorato. Il problema non è riproporre una divisione tra buoni e cattivi nelle lotte e nei movimenti. La questione di fondo è quella della autodeterminazione dei movimenti e delle lotte, che le manifestazioni successive al 15, da quella dei metalmeccanici a quelle della Val Susa, hanno esemplificato.
Una manifestazione composita, plurale ma unitaria non può essere spinta e segnata da scelte che la manifestazione del 15 ha subìto, percepito in gran parte come ostili e, soprattutto, mai discusso. Nessuno può imporre pratiche e azioni di distruzione durante il corteo, che si sono ritorte contro la manifestazione stessa. La questione non è quella della rabbia esistente e del modo di farla valere e vedere. La questione è quella che nessuno può imporre le proprie modalità a tutto il movimento, né soprattutto può imporre scelte che la grande maggioranza non condivide. Allo stesso modo affermiamo che la gestione della polizia a piazza San Giovanni è stata evidentemente irresponsabile e ha prodotto la radicalizzazione e la generalizzazione degli scontri.
Riteniamo però a questo punto che non si possa andare avanti all’infinito in questa discussione. Occorre prendere atto che la manifestazione del 15 ha determinato questo risultato negativo e trovare le modalità per cui il proseguimento delle iniziative, reso indispensabile dall’aggravarsi della crisi, non ripresenti gli stessi problemi. Questa è la ragione per cui riteniamo necessaria una discussione di merito politico tra tutte le forze che hanno in comune la lotta contro la globalizzazione e la politica della Bce e dell’Unione europea. L’ultimatum consegnato al governo pochi giorni fa, a cui Berlusconi ha risposto con la sua vergognosa lettera, conferma che abbiamo due avversari. Oltre al governo Berlusconi, dobbiamo essere contro l’Unione europea così come è oggi, con la dittatura delle banche e della finanza che impone le sue scelte a tutti i governi.
La manifestazione del 15 conteneva un vuoto politico e una debolezza, che si è cercato di affrontare anche con proposte come quella dell’accampata, che avevano lo scopo di affermare una radicalità necessaria e diversa da quella delle manifestazioni tradizionali. Questa debolezza politica era accentuata dal fatto che la manifestazione del 15 appariva di più come una scadenza importata, nel quadro di un appuntamento internazionale di grandissimo valore, piuttosto che un obietto di lotta nostro. Occorre una piattaforma precisa, oggi, contro gli avversari italiani ed europei dei diritti sociali e civili; per questo pensiamo che non sia riproducibile nel nostro paese l’esperienza dei social forum. Esauritasi l’esperienza del social forum italiano e in profonda crisi quella europea, è necessario pensare a nuove modalità di costruzione e a una precisa piattaforma da collocare in spazi politici pubblici italiani ed europei.
Abbiamo quindi lanciato il 1° ottobre un movimento contro il pagamento del debito, contro la dittatura delle banche, con 5 punti sul piano sociale e politico che per noi rappresentano una reale alternativa. Abbiamo anche sottolineato che oggi come oggi non solo il centrodestra, ma anche il centrosinistra non assumono questi temi e anzi, in molti casi, ne sono addirittura controparte. Per questo abbiamo rivendicato la necessità di un nuovo spazio politico pubblico che dia legittimità piena a rivendicazioni politiche e sociali oggi assolutamente estranee a gran parte dell’attuale sistema rappresentativo. Su questo, secondo noi, si deve sviluppare il confronto, se si vuole mantenere il dialogo tra espressioni diverse del movimento.
Occorre quindi che da ogni parte si faccia la scelta precisa di rinunciare all’egemonia e di aprirsi al confronto di merito. Noi non pretendiamo di essere tutto il movimento, così come pensiamo che nemmeno altre forze o gruppi lo siano. Tutti insieme, misurandoci concretamente sulle differenze e sui contenuti, siamo in grado di costruire grandi iniziative. Ma per superare la crisi del 15 ottobre occorre un’operazione di verità e non il diluvio di polemiche.
La crisi politica nel nostro paese rende sempre più chiaro che la nostra democrazia è commissariata dal regime delle banche e della finanza d’Europa. Per questo comprendiamo la diffidenza che si sviluppa tra chi lotta, rispetto a tutte quelle istituzioni che sorridono alle mobilitazioni, salvo poi sostenere scelte economiche e politiche che vanno esattamente contro i contenuti di esse.
Il futuro dei movimenti in Italia è quindi fondato sull’indipendenza dall’attuale quadro politico. Questo è il punto su cui si deve davvero discutere, anche misurandoci sulle diverse opzioni. Forse questo è il punto su cui si è discusso meno, occorre cioè una pratica democratica assembleare dove ci si confronti davvero sulla piattaforma, dal debito, al lavoro, all’ambiente, alle questioni sociali, alla democrazia. Non è più tempo di diplomatismi o di minimi comun denominatori, abbiamo visto che questi creano una debolezza politica che viene poi coperta da altre scelte e altre forze.
Se vogliamo uscire dalla sindrome del post 15 ottobre dobbiamo quindi affrontare con democrazia, partecipazione e rispetto una grande discussione democratica sui contenuti della nostra piattaforma.
Per queste ragioni il nostro movimento decide di rilanciare la compagna e l’organizzazione della lotta contro il debito e per una vera alternativa sul piano economico, sociale e democratico. Andremo avanti, sui contenuti e nella ricerca di forme nuove di partecipazione e democrazia, disposti e interessati al confronto con tutti, ma nella consapevolezza che la crisi italiana è troppo grave per continuare con inutili polemiche.
Il comitato promotore del movimento No debito, dà appuntamento il 17 dicembre a Roma per una grande assemblea, preceduta da iniziative e incontri in tutto il territorio del paese.

Comitato promotore “No debito”

Acqua, fare come a Napoli - di Paolo FERRERO

di Paolo Ferrero, segretario PRC
su Liberazione del 29/10/2011

L'approvazione della gestione pubblica del ciclo integrato dell'acqua a Napoli, votata pochi giorni fa quasi all'unanimità dal Consiglio comunale partenopeo, con l'istituzione dell'Abc (Azienda Bene comune Napoli) è un fatto politico di valore nazionale. È stato premiato l'impegno del movimento ambientalista che ha portato alla vittoria referendaria dello scorso giugno. Il provvedimento sottolinea inoltre il valore politico della svolta operata a Napoli con la vittoria di De Magistris e della coalizione che l'ha sostenuto. Si è decisa infatti la costituzione di un'azienda speciale integralmente pubblica che attua la ripubblicizzazione dell'intero ciclo, seguendo l'esperienza virtuosa di Parigi, con un soggetto pubblico che garantirà tra l'altro il diritto al minimo vitale di acqua - pari a 50 litri al giorno - per i cittadini in condizione di disagio sociale e la presenza di due esponenti del movimento ambientalista nel consiglio d'amministrazione. Il percorso per la totale ripubblicizzazione del ciclo integrato a Napoli ha visto la battaglia del Prc sin dal 2004.
All'epoca, sulla base della normativa vigente, per due volte l'Ato (Ambito territoriale ottimale) tentò di mettere a gara il servizio gestito dalla Arin (Azienda Risorse Idriche napoletane) Spa, e su iniziativa dei movimenti e di Rifondazione in giunta e nel consiglio, si riuscì a convincere il sindaco Jervolino a fermare la gara. Successivamente, nel 2009, si aprì una battaglia che puntava a realizzare un'azienda integralmente pubblica come ente di diritto pubblico. Tuttavia l'inconcludenza dell'amministrazione precedente non portò a nulla, al punto che nel settembre 2010 il rappresentante Prc nel consiglio dell'Arin si dimise per l'impossibilità di realizzare quanto concordato.
La delibera approvata negli scorsi giorni rappresenta dunque una grande innovazione giuridica e politica, perché, come si legge nello statuto, l'Abc è un ente di diritto pubblico, un'azienda speciale, che gestisce interamente il ciclo: dalla captazione alla depurazione, fino alla distribuzione, sciogliendo di fatto aziende preesistenti come l'Arin Spa e il consorzio della depurazione. È la prima volta in Italia che si attua pienamente lo spirito del referendum, in quanto l'abrogazione del famigerato articolo 23 bis del Decreto Ronchi rende possibile l'attuazione dell'azienda speciale proprio come ente di diritto pubblico. Questo è un punto fondamentale perché vuol dire che la battaglia fatta con il referendum - a cui il governo non vuol dare alcun seguito - può essere ripresa dai territori, dalle amministrazioni locali. Inoltre, nello statuto dell'Abc vi è il principio della democrazia partecipativa che prevede spazi per i movimenti per l'acqua pubblica sia nella fase di indirizzo (ovvero nel comitato di sorveglianza) che, come già spiegato, nella fase di gestione (con due membri nel Cda) e il principio della gratuità del minimo vitale quotidiano per i soggetti svantaggiati, come previsto dalla normativa europea.
La delibera di Napoli deve quindi essere solo un primo passo da estendere in tutta Italia. Occorre quindi rilanciare - a partire dalla manifestazione del 26 novembre prossimo - la battaglia per l'acqua pubblica, con una semplice parola d'ordine: fare come Napoli, che ha dimostrato che l'acqua pubblica non solo è necessaria ma è possibile. Utilizziamo l'esempio di Napoli per fare un passo in avanti e rompere quella sensazione di impotenza che rischia di anestetizzare la realtà sociale.

venerdì 28 ottobre 2011

CACCIA GROSSA A CHI LAVORA - di Galapagos, Il Manifesto

Partiamo da un numero: 1000 miliardi di euro, una cifra stratosferica, quasi 4 volte il debito pubblico greco. Mille miliardi è la somma che il Consiglio d'Europa ha deciso di impegnare per la salvezza del sistema finanziario europeo. Non c'è da stupirsi che ieri le borse abbiano fatto baldoria con guadagni clamorosi in una fase della congiuntura mondiale che non spinge di certo all'ottimismo.  
Il sistema è salvo, scrivono i commentatori. Ma quale sistema? Ieri il manifesto ha pubblicato con grande rilievo una notizia di fonte Credit Suisse, una della banche più accreditate del sistema finanziario: nell'ultimo anno meno dell'1% della popolazione mondiale ha «arraffato» il 39% della ricchezza globale, quasi il 4% in più in appena dodici mesi. Se non bastasse, l'Ufficio del bilancio del Congresso Usa ci ha fatto sapere che negli ultimi 28 anni il reddito dell'1% della popolazione più ricca è salito, in termini reali, del 275%, mentre quello del 20% della popolazione più povera di appena il 18%. Insomma , la forbice della distribuzione dei redditi si sta allargando.
Questi numeri (uniti ai 1000 miliardi) sono la conferma che il bailout, cioè la ciambella di salvataggio ha funzionato a senso unico salvando (quasi banale ripeterlo) chi la crisi del 2008 aveva provocato. Anzi, rendendolo più ricco. Ma c'è un altro aspetto niente affatto secondario: questi numeri smentiscono la vulgata che indicano nella globalizzazione la soluzione di ogni problema. Al contrario è «questa» globalizzazione che ha portato al trionfo della finanza e allo schiacciamento dei diritti delle persone. Ieri Gianni Rinaldini ha scritto che «in questi anni c'è stato un quotidiano smantellamento di ciò che conferisce al lavoro umano una condizione diversa da una merce». La lettera spedita da Berlusconi al Consiglio d'Europa ne è la conferma.
Con una premessa: in quella lettera poteva esserci scritto qualsiasi cosa: i 27 avrebbero dato in ogni caso la loro benedizione (perché cane non morde cane e quei 27 capi di stato e di governo dovevano salvare se stessi) anche in presenza di impegni evanescenti, coerenti unicamente con la peggiore ideologia liberista. Tipo quella, tanto cara a Sacconi, che solo diminuendo i diritti del lavoro con la libertà di licenziamento, si potrà garantire una maggiore occupazione.
Nella lettera spedita a inizio agosto da Trichet e Draghi a Berlusconi era scritto: «Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento». La replica del governo italiano non si è fatta attendere: «Entro il maggio 2012 l'esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenza di efficienza dell'impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici». Attenzione, per motivi economici anche oggi i licenziamenti, anche di massa, si possono attuare. Basta seguire le regole che prevedono prima la Cig e poi la mobilità. I motivi economici evocati nella lettera sono altri. Significa potersi liberare di un lavorare anziano che guadagna molto di più dei giovani che potrebbero essere assunti al suo posto. Il lavoratore è sempre più «merce» e come tale viene trattato: se viene giudicata troppo cara non lo si compra più e la si allontana dalla produzione e dalla vita.
Nella lettera d'intenti di Berlusconi c'è anche molto altro. A volte grottesco. Tipo: «Il governo trasformerà le aree di crisi in aree di sviluppo». Lo vadano a dire ai lavoratori di Termini Imerese per i quali non è ancora stata trovata una soluzione credibile, non di sviluppo, ma più banalmente di conservazione del lavoro esistente. Una delle promesse che ha raccolto maggiore attenzione è stata quella del pensionamento per tutti a «almeno» 67 anni nel 2026. Ma non si tratta di una novità: con l'anticipo delle norma sulla «speranza di vita» i 67 anni erano già una certezza.
Quello che è certo, invece, è che per i dipendenti pubblici arriveranno tempi «cupi». Su questo punto Brunetta (uno dei «grandi» estensori della lettera) si è scatenato: mobilità obbligatoria; cassa integrazione; superamento delle dotazioni organiche. Tradotto: la Pubblica amministrazione sarà ridotta all'osso per cedere le sue attività (come sta già accadendo con la complicità di direttori generali di nomina governativa) ai privati.
Questa lettera ai potenti piace perché protegge le elite dominanti e disprezza la vita del 99% (o giù di lì) della popolazione. La sola speranza è che rimangano impegni presi sulla carta perché Berlusconi e i suoi ascari non hanno la forza per realizzarli. Speranza è anche che il futuro governo sappia fare di meglio. Ma più di un dubbio è autorizzato considerati i ripetuti applausi ricevuti dalle richieste delle autorità europee all'Italia. Anche dalle forze di opposizione, anche dai richiami rivolti agli opposti schieramenti politici dal presidente della repubblica. Berlusconi potrebbe essere sostituito con un governo tecnico che porti a compimento il massacro.

giovedì 27 ottobre 2011

Flamini/Prc Perugia: Ripubblicizzare l'acqua come a Napoli



Rifondazione comunista di Perugia saluta con grande soddisfazione la ripubblicizzazione  del ciclo integrato dell’acqua a Napoli. Il Consiglio Comunale partenopeo ha votato la trasformazione dell'azienda
Rifondazione comunista di Perugia saluta con grande soddisfazione la ripubblicizzazione  del ciclo integrato dell’acqua a Napoli. Il Consiglio Comunale partenopeo ha votato la trasformazione dell'azienda "Arin S.p.a." in “Acqua Bene Comune Napoli”. In altri termini siamo di fronte ad un soggetto pubblico che gestirà le risorse idriche. 
Riteniamo questo fatto di straordinario valore politico sia perchè attua di fatto il  voto referendario di giugno, sia perchè inizia così un percorso generale per la ripubblicizzazione del servizio idrico nel nostro paese.
In questo senso ci rivolgiamo alle altre forze politiche e sociali della sinistra e a tutti i comitati per fare in modo che anche il nostro territorio segua l'esempio napoletano per andare nella direzione della gestione pubblica e partecipata del servizio idrico. Questo è stato e sarà l'impegno del nostro partito dentro e fuori dalle istituzioni. 
Soprattutto ai burocrati difensori dell'esistente, più o meno politicizzati, diciamo chiaramente che l'acqua è tornata ad essere un bene comune e che non accetteremo più di sentir dire che "non si può fare". Si può fare, eccome. 

Enrico Flamini, Segretario Provinciale Prc Perugia


mercoledì 26 ottobre 2011

«Pensioni, partita truccata Falso che l'Italia spenda di più»


di Roberto Farneti
su Liberazione del 26/10/2011
 
Intervista a Felice Roberto Pizzuti, professore di Economia all'Università di Roma

Professor Felice Roberto Pizzuti, l'Europa ci ha lanciato un ultimatum. Al vertice europeo di domani (oggi ndr) l'Italia si dovrà presentare con un pacchetto di misure per la crescita, contenente anche l'innalzamento dell'età pensionabile. Al posto del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, lei cosa avrebbe risposto a Francia e Germania?

Domenica scorsa l'Unione europea ci ha sollecitato a presentare un pacchetto di misure per stimolare la crescita senza fare alcun riferimento esplicito a interventi nel settore pensionistico. Del resto, non ci sono ragioni di bilancio per giustificare che si intervenga proprio lì e non, ad esempio, sull'evasione fiscale.

Il punto sono le pensioni di anzianità. E' vero che esistono solo in Italia?

Se confrontiamo l'età di pensionamento di fatto, vediamo che in Italia gli uomini vanno mediamente in pensione a 60 anni e qualche mese; in Germania a circa 61 anni; in Francia circa a 59 anni. L'Italia si situa cioè a metà strada tra Francia e Germania. Eppure in Germania l'età di pensionamento di vecchiaia è 65 anni. Allora come si spiega che c'è chi va in pensione prima? Evidentemente anche lì esistono altri canali che ti consentono di farlo. E comunque, dal punto di vista economico, quello che conta è l'età effettiva di pensionamento.

D'accordo, in Francia uomini e donne per ora vanno in pensione a 62 anni. Però Sarkozy ha già fatto una riforma che porterà gradualmente l'età per andare in pensione a 67 anni nel 2020. L'Italia non dovrebbe fare la stessa cosa?

Tanto per cominciare l'età di vecchiaia in Italia non è 62 anni, come in Francia, ma è già 65. Più un anno di differimento delle finestre, arriviamo a 66. Nel 2013, quando scatteranno i tre mesi connessi con l'aumento della vita media attesa, l'età di vecchiaia salirà a 66 anni e tre mesi, al livello più o meno della Germania. Francamente che i francesi, ma anche i tedeschi, sostengano che il nostro sistema pensionistico è più generoso del loro è molto poco credibile. Dal 1992 in Italia le prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli aumenti salariali reali, ma solo al costo della vita e in misura parziale. In Germania invece le pensioni sono agganciate sia ai salari reali che all'inflazione.

Il problema è che, malgrado i bassi importi degli assegni erogati, per le pensioni l'Italia spende comunque troppo. Una recente analisi comparativa della Commissione Europea ha calcolato che, senza l'introduzione di correttivi al nostro sistema previdenziale, già tra nove anni avremmo la più alta incidenza di spesa per le pensioni rispetto al Pil tra i 27 paesi dell'Ue: il 14,1% contro il 10,5% della Germania, il 9,5% della Spagna, il 6,9% del Regno Unito e via dicendo.

La comparazione europea è falsata. Basti dire che Eurostat tra le prestazioni pensionistiche italiane include anche il Tfr. Ma noi sappiamo che il Tfr non è una prestazione pensionistica, è semplicemente salario differito, un prestito forzoso che i lavoratori fanno alle imprese. ll Tfr equivale circa un punto e mezzo di Pil. Ancora, in Italia i prepensionamenti a seguito di crisi aziendali diventano spesa pensionistica, in altri paesi sono considerati interventi di politica industriale non contabilizzati nella spesa pensionistica. In Germania i soldi che escono dagli enti pensionistici sono esattamente quelli che entrano nelle tasche dei pensionati e la spesa pensionistica viene contabilizzata al netto di ciò che viene pagato. In Italia invece viene registrato come spesa pensionistica il lordo erogato, inclusa la ritenuta d'acconto. Poiché dal punto di vista contabile ciò vale altri due punti e mezzo di Pil, se togliamo dal computo questa spesa e il punto e mezzo di Pil del Tfr, già la differenza tra Italia e Germania scompare del tutto. Inoltre in altri paesi il sistema pensionistico privato è più diffuso, mentre da noi le pensioni sono ancora quasi totalmente pubbliche. La vera anomalia sta perciò nelle statistiche, che non tengono conto di questi elementi di disomogeneità.

In Italia la Confindustria è tra i più accesi sostenitori della necessità di alzare l'età pensionistica. Sul Corriere della Sera gli economisti Alesina e Giavazzi propongono di sostituire la cassa integrazione con sussidi di disoccupazione temporanei e di introdurre le gabbie salariali nel pubblico impiego. Lei cosa pensa di questa visione, neoliberista, secondo cui le protezioni sociali, siccome costano, sono di ostacolo alla crescita, mentre i diritti sindacali sono un freno alla capacità di competere delle aziende?

Alesina e Giavazzi non sembrano trarre insegnamento dalla più grande crisi della storia del capitalismo. Non capiscono che il modello economico che ha dominato negli ultimi trent'anni, a fronte del continuo aumento della capacità di offerta, non ha reso possibile una equivalente crescita della domanda effettiva. Questo mancato equilibrio è dovuto in particolare a due motivi: la cattiva distribuzione del reddito, che ha depresso la capacità di consumo dei lavoratori, e la riduzione dell'interazione con i mercati da parte dell'intervento pubblico. In quell'articolo si suggerisce di intervenire sul costo del lavoro ma non c'è un punto su come agire sulle vere cause della crisi. E' come se fossero fermi a vent'anni fa.

lunedì 24 ottobre 2011

IKEA, CHE IDEA 2 di Renzo Massarelli

E' un terreno accidentato quello di San Martino in Campo, pur così lineare e tranquillamente disteso oltre il lembo del Tevere, tra Deruta e Torgiano e davanti alle magnifiche colline del contado perugino, ma non per colpa del disinteresse generale che ha sciupato  - con la presenza di piccole discariche abusive, capannoni dismessi, costruzioni artigianali aborrite, - quelli che il piano regolatore definiva, pur con qualche compiacente eccesso, terreni agricoli di pregio.
 
Quello di San Martino in Campo non pare così naturalmente pianeggiante da quando non è più destinato alle coltivazioni di qualità ma alle magnifiche e progressive idee del futuro, quelle del commercio e della grande distribuzione. E da quando, soprattutto, l’affare IKEA, che non è ancora affaire, ma ci manca poco, è entrato nella sfera di competenza non solo dei progettisti e di tutti gli altri addetti ai lavori, ma della magistratura. Per carità siamo solo agli inizi di un’inchiesta e per ora la sola notizia certa è che delle persone in divisa sono entrate nelle stanze del comune di Perugia e in quelle delle Opere Pie, proprietarie del pacchetto di San Martino in Campo e protagoniste di uno scambio complicato di proprietà con un imprenditore di Marsciano, per capire se dietro questa specie di baratto si possa nascondere un reato, quello di corruzione e se in questa storia abbia una qualche responsabilità anche il Comune.
 
Dunque, i terreni, è il caso di dire, sonno due, quello del giudizio nel merito del progetto e sul quale il dibattito è aperto da tempo, e l’altro, quello giudiziario, ed è un peccato perché la cancellazione freddamente pianificata di una delle zone più meritevoli di tutela e di una diversa valorizzazione, avrebbe avuto bisogno di una discussione libera da condizionamenti di questo tipo. C’è chi guarda al valore del paesaggio, all’equilibrio del territorio, alla necessita di coniugare le ragioni dello sviluppo con quelle dalla tutela e chi, al contrario, costringe la stessa idea di progresso dentro un orizzonte più limitato ed immediatamente esigibile.  Sarebbe stato un bel dibattito, ma a Palazzo dei Priori hanno corso come un treno per arrivare, senza tanti complimenti, all’obiettivo che si voleva raggiungere. Del resto si poteva dire di no ad Ikea?
 
Succede sempre così a Perugia e non è certo cosa nuova. Si poteva dire di non al multiplex di Centova? E si poteva dire di no al progetto di una nuova Monteluce concepita come una specie di Perugia 2 e, negli anni più lontani, si poteva dire di no alla Perugina e alla costruzione del centro direzionale di Fontivegge? Sulla giustezza di queste scelte, tra l’altro ognuna con una propria e diversa connotazione, non è più neanche il caso di discutere. Sono state fatte e sono lì, così che ognuno può misurare nel tempo la loro utilità sociale. In fondo questa città non è il risultato di ciò che i piani regolatori avevano previsto, ma delle varianti che sono arrivate, immancabili, quando c’è stata la necessità di soddisfare esigenze fortemente sostenute.
 
C’è però una riflessione da non tralasciare. Tutti questi progetti, figli di altrettante varianti, destinati a cambiare il volto della città e, in alcuni casi, il nostro stesso modo di viverla, sono nati non per rispondere ad un bisogno collettivo, ad una necessità di carattere generale. Di tutte queste cose si poteva tranquillamente fare a meno o scegliere altre strade. Perché allora è andata così? È andata così perché la ragione fondamentale di questi progetti è sempre stata la ricerca di una rendita fondiaria, necessaria in quel momento per ragioni ogni volta diverse. Così, in fondo, un po’ a caso è cresciuta nel corso della nostra vita questa città. A Monteluce servivano fondi per completare l’ospedale Silvestrini, a Fontivegge per rinfrescare le finanze di un’azienda che assicurava occupazione. A Centova le cose erano assolutamente diverse perché si trattava , chissà se proprio a ragione, di soddisfare aspettative private. A San Martino in Campo l’intreccio è più complesso ancora e i cosiddetti diritti acquisiti di chi possiede un terreno, molto meno chiari e dimostrabili.
 
Siamo solo al principio di un’indagine che deve completare la magistratura, ma l’affare Ikea è piuttosto semplice da capire. È una delle tante storie italiane dove, ad un certo punto, compare un personaggio che è svelto e molto furbo. Non è questo il paese dei furbi? Solo che perché ci siano i furbi è necessario che ci siano quelli che non sanno riconoscere i furbi se no, il furbo, è nudo come il re. Certo con gli svedesi non faremo una gran bella figura. Troviamo, noi italiani, sempre il modo di farci riconoscere.

Fonte: Il Corriere dell’Umbria del 22.10.2011

LA TRAPPOLA ECONOMICA DELL’AUSTERITÀ di ROBERT REICH



Il nuovo piano economico appena proposto da Ron Paul, consistente nel taglio di 1.000 miliardi dollari dal bilancio federale nel primo anno (presumibilmente ciò significa entro il 2013), è solo leggermente più ambizioso di quelli proposti da altri candidati repubblicani. Tutti loro stanno spingendo per forti tagli alla spesa , chiedendo, altresì, che essi abbiano inizio il prima possibile.
Cosa hanno fumato?
Possiamo mettere da parte solo per un attimo l’ideologia per parlare chiaramente della realtà? La spesa dei consumatori (il 70 per cento dell'economia) è piatta o in caduta perché i consumatori stanno perdendo il lavoro e i salari e non hanno più soldi. Le imprese non assumono più perché non hanno abbastanza clienti.
L'unico modo per uscire da questo circolo vizioso è che il governo – l’ultima risorsa come possibile soggetto che spenda soldi - rilanci l'economia. I conservatori auspicano, invece, che il governo faccia l’esatto contrario.
Anche se i Repubblicani non avessero proposto questi progetti senza senso, si sta comunque andando verso questa direzione. A meno che i Repubblicani non acconsentano per un accordo sul bilancio entro la fine dell’anno (non trattenete il respiro nel frattempo), la temporanea riduzione delle imposte sui salari e le estese indennità di disoccupazione finiranno.
Il risultato sarà la più rigida stretta fiscale sulla più grande economia del mondo.
Unendo questi nuovi tagli a quelli già in corso a livello di governo statale e locale, la dimensione di questa contrazione fiscale sarebbe quasi senza precedenti.
Verrà un momento in cui 25 milioni di americani saranno alla ricerca di un lavoro a tempo pieno, i redditi medi caleranno, aumenteranno i pignoramenti delle case e il 37% delle famiglie americane con figli piccoli vivrà in povertà.
Facendo il punto della situazione tutto ciò è una follia economica.
E se pensate che il 2011 sia stato un cattivo anno, in realtà il peggio deve ancora venire.
Anche se si è atterriti dal deficit, la strategia basata sul taglio della spesa è da pazzi. Invece di ridurre il rapporto tra debito e PIL, questa strategia fa incrementare tale rapporto perché induce una riduzione dell’economia.
Tutto ciò può essere definito la “trappola mortale dell’austerità”.
Con questa strategia, più un paese lavora per ridurre il proprio debito, più peggiora il rapporto tra debito e PIL, perché l’economia si riduce più rapidamente.
La Grecia è già caduta in questa trappola. La Spagna e l’Italia ne sono pericolosamente vicine. Anche la Gran Bretagna, la Francia e la Germania vi si stanno approssimando in punta di piedi. E noi adesso.
Gli uccellacci del malaugurio del deficit devono capire che il primo passo da fare è rilanciare la crescita e l'occupazione. In questo modo, i ricavi aumentano e il rapporto debito/PIL diminuisce. Solo allora, dopo che si sarà verificato il rilancio dell’economia, si potrà iniziare a tagliare il debito.
All’inizio dell’amministrazione Clinton il deficit annuale di bilancio era di circa 300 miliardi di dollari. Ma invece di prendere la falce per tagliare la spesa, abbiamo spinto per la crescita, e lo stesso fece la Fed. L’espansione degli anni ’90 rese semplice il controllo del budget. Nel 2000 avevamo un surplus di 226 miliardi di dollari.
Rimarrà invischiato nella trappola dell’austerità anche il repubblicano Mitch-McConnell la cui più alta priorità è “assicurarsi che Obama abbia un unico mandato da presidente”.
La probabilità che i Repubblicani riescano a raggiungere questo obiettivo aumenta, ma la cosa non si fermerà qui. Poiché la trappola dell’austerità durerà per molti anni, e qualsiasi sia il successore repubblicano di Obama sarà anch’egli un presidente con un unico mandato.

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Fonte: The Austerity Death-Trap

 
 

L'Europa preme. Berlusconi spreme. Bossi teme. L'opposizione freme.

Cerchiamo di far luce su quello che sta avvenendo in queste ore di grande confusione. Tra diktat e risate a pagare sono sempre gli stessi.

L'Europa preme
L'Europa chiede all'Italia una "rapida approvazione e applicazione di un pacchetto completo di riforme che comprende misure su crescita, occupazione e riforma della giustizia". Questo quanto detto oggi dal portavoce del commissario Ue agli Affari economici. Insomma, non gli bastano le manovre 'lacrime e sangue' finora adottate, vogliono di più per 'tranquillizzare' i mercati.
 
Berlusconi preme
Berlusconi si organizza e oggi presenterà al CDM straordinario le sue proposte per accontentare l'Europa. Si parla di privatizzazioni, vendita degli immobili pubblici e persino di un aumento dell'età pensionabile fino a 67 anni.
 
Bossi teme
Bossi fa sapere che non se ne parla di toccare l'età pensionabile. Ma ha detto tante cose il capo del carroccio in questi mesi per poi allinearsi come tutti gli altri (vedi guerra in Libia per esempio).
 
L'opposizione freme
Dall'opposizione parlmantare arrivano segnali decisi per accelerare il processo che porti ad un governo tecnico, di transizione o, come lo chiamano ultimamente, di 'responsabilità'. Una soluzione per rimescolare le carte, ma per giocare allo stesso gioco. Infatti, non si mettono in discussione le politiche economiche europee, quelle che impongono austerità ai paesi indebitati, ma solo Berlusconi e la sua credibilità ormai ai minimi storici. Nessuna garanzia di cambiamento di tendenza insomma, anzi tutto fa pensare ad una continuità con il disegno devastante deciso a Bruxelles. "Oggi è il momento di un governo di responsabilità nazionale" dice il vicesegretario del pd, Enrico Letta, ai microfoni di Skytg24. "Siamo disponibili a fare la nostra parte, nell'interesse del paese", aggiunge. Sulla stessa linea Bocchino, vicepresidente di Fli: "Siamo pronti a votare" l'innalzamento del'età pensionabile "a patto che un minuto dopo il premier vada al Quirinale a rassegnare le dimissioni". 
 
Fonte: controlacrisi.org | Autore: Antonio Ferraro 

venerdì 21 ottobre 2011

La sola sinistra "unibile"è quella che ha scelto di stare fuori dal recinto

di Ramon Mantovani
su Liberazione del 21/10/2011

Bisogna ringraziare Liberazione per il Forum del 9 ottobre con Greco, Landini, Bertinotti e Ferrero. E per aver ospitato il dibattito che ne è scaturito. C'è bisogno di discutere seriamente invece che di "mosse", slogan e sondaggi. Io penso che la fase attuale si caratterizzi per due aspetti preminenti. Il primo è che c'è una dittatura del mercato e del capitale finanziario che ha costruito un "recinto" nel campo della politica tale per cui chi vi si oppone è reso impotente, espulso dalle istituzioni od omologato nei fatti ogni volta che si misura con la funzione di governo. Bertinotti descrive bene il "recinto". Ma questa situazione non è affatto il prodotto oggettivo della ristrutturazione capitalistica. È il prodotto, invece, di precise scelte politiche attuate da governi, spesso guidati da forze di "sinistra". Oltre ad esistere due sinistre, una antagonista e un'altra interna al sistema (non una divisa dal "recinto"), esse si distinguono ideologicamente in modo inequivocabile. Una è anticapitalista e l'altra è neoliberista e perfino apologetica del capitalismo. Quest'ultima, qualsiasi siano stati i suoi trascorsi, socialdemocratici o comunisti, è stata protagonista insieme e spesso più della destra delle decisioni "deregolatrici" in favore del capitale finanziario, delle banche, dell'estrema liberalizzazione dei mercati delle merci, delle privatizzazioni, della guerra come funzione permanente di governo del mondo e di una costruzione europea fondata sulla primazia del mercato e del bilancio. Se la politica (ufficiale, istituzionale) negli stati nazionali è recintata dalle compatibilità del sistema, è necessaria una potenza capace di rompere il recinto. Solo con l'autonomia culturale ed organizzativa dal sistema egemone è possibile qualificare e produrre una "rivolta" capace di rompere il "recinto". E non esiste altra sinistra unibile che non sia quella che ha scelto soggettivamente di essere fuori dal recinto. Ma esso non è presidiato solo da contenuti economico-sociali di stampo neoliberistico. Lo è anche da contenuti politici ben precisi. Se il fine della politica recintata è la "governabilità" del sistema e la sua forma è il bipartitismo o il bipolarismo (fa lo stesso), non può esistere nessuna sinistra unibile che non si proponga altri fini e altre forme per la politica. Perché è la crisi della democrazia e della stessa politica ad essere il secondo aspetto preminente della fase. Il movimento degli "indignados" in Spagna grida « No nos representan!» ma, al tempo stesso, pretende una legge elettorale proporzionale pura e la costruzione di nuove forme di democrazia diretta dal basso. Ha capito una cosa che in Italia, anche nel movimento, è totalmente sottovalutata. Le istanze sociali, e le stesse "domande" dei movimenti (di cui ha parlato Burgio) poste alle forze politiche, e capaci di intervenire nelle contraddizioni interne alle stesse e fra queste e la loro base elettorale, per quanto blandite prima delle elezioni sono destinate ad essere misurate secondo le compatibilità del sistema, e quindi derubricate, nel momento della verità. Quello del governo. È questa realtà a generare, nei movimenti sociali e perfino nelle singole persone, una tremenda estraneità nei confronti della politica ufficiale. Estraneità che si traduce in rifiuto, astensionismo o anche nell'accettazione, più o meno consapevole, della logica secondo la quale si vota il meno peggio o addirittura il leader salvifico (Obama per esempio). Così i contenuti diventano variabili dipendenti dai giochi e dagli equilibri del palazzo bipolare, la "cultura di governo" si trasforma in moderazione e pragmatismo fine a se stessi e i contenuti, alla fine, vengono bollati come utopie e/o estremismi. Come se abolire la legge trenta o ritirare le truppe dall'Afghanistan, per fare solo due esempi, non fossero possibili atti di governo, bensì proposte provocatorie destinate a destabilizzare il governo in carica. È un circolo vizioso ben congegnato che bisogna rompere. La scelta tattica di non autoisolarsi accettando di ridurre i contenuti a mere petizioni di principio testimoniali, e di partecipare ad uno schieramento contro la destra, senza entrare nel governo, mi convince pienamente. In altre parole, ritengo fondamentale giocare la partita su tutti i terreni possibili, adottando tutte le tattiche necessarie, senza paura di nulla, ma senza abbandonarsi a suggestioni e senza imboccare scorciatoie che portano in vicoli ciechi. Perciò considero la mitica "rivolta" e/o il big bang della sinistra di Bertinotti come pure e pericolose suggestioni. Perciò considero gravemente contraddittorio che Landini, mentre propone giustamente una dura battaglia sulla democrazia, dimentichi che è il bipolarismo ad espellere dalla politica istituzionale e dal governo gli interessi di classe dei lavoratori.

giovedì 20 ottobre 2011

Il caso IKEA: due indagati

Blitz della procura alle Opere pie.

Polizia e guardia di finanza prendono i fascicoli della permuta dei terreni e del bonus della Sea. Visita anche in Comune: sono stati acquisiti gli atti di Ikea.


Si sono fiondati in via Campo di Marte, sede delle Opere pie riunite, e hanno acquisito diversi fascicoli. Polizia giudiziaria e guardia di finanza insieme, inviate dalla procura - sotto il coordinamento del pubblico ministero Claudio Cicchella - riaccendono i riflettori sulla vicenda Ikea-Opere pie. Fari puntati sulla permuta del terreno dove sorgerà l'Ikea, a San Martino in Campo, con le vigne di Montefalco. E ancora: il bonus di 1,5 milioni che la Sea di Claudio Umbrico, la ditta di costruzioni marscianese che ha "sviluppato" il progetto insieme al colosso svedese, si era impegnata ad onorare alle Opere pie qualora la variante al piano regolatore fosse stata approvata a Palazzo dei Priori entro il 31 dicembre 2010. Non solo: nelle mani degli inquirenti anche la proroga, di qualche mese, relativa alla erogazione del "premio" sopra citato. Gli uomini in divisa avrebbero anche fatto visita nella sede del Comune, in piazza IV Novembre, per attingere agli atti consiliari della variante Ikea e a quelli dei contatti fra l'amministrazione e la multinazionale del mobile. L'inchiesta aperta dalla procura si inserisce su un filone avviato nel 2009 a seguito di un esposto di Italia Nostra sull'insediamento già ventilato in un terreno a destinazione d'uso agricolo. L'obiettivo dell'indagine in questione è vederci chiaro sui documenti che hanno visto erogare la somma di un milione e mezzo di euro anche se sul contratto di permuta c'era una data ben precisa. Nella clausola di vendita dei terreni da parte delle Opere pie al soggetto privato il termine ultimo per incassare il bonus (a favore dell'ex Ipab) era individuato nel 2010. Cioè: se entro in 31 dicembre di quell' anno il terreno fosse diventato edificabile - e a favore di una grande superficie commerciale - le Opere pie avrebbero incassato un milione e mezzo di euro. É tutto scritto nel contratto - pubblico - stipulato nel 2007 per la permuta del grande appezzamento di San Martino in Campo. Così non è stato. È spuntata, secondo poi, una proroga che ha permesso l'esborso della somma, con le Opere pie che hanno così evitato di chiudere i battenti visti i bilanci in rosso. C'è da valutare anche l'operazione della permuta, per capire se si è trattata di un'operazione di mercato o dietro si nascondono altre ombre. Trenta gli ettari di terreno in ballo, tutti "vitati" a sangiovese, sagrantino e merlot, anche se gli "impianti" delle vigne risalgono agli ultimi cinque anni. Secondo alcuni esperti cioè non sarebbero ancora pienamente produttivi. Poco appetibili: tanto che le aste per la vendita sono andate tutte deserte e si è dovuto suddividere in lotti l'appezzamento per piazzarlo sul mercato. Proprio di svendite "al ribasso" è l'accusa che viene paventata nel teorema accusatorio per questa e altre operazioni di alienazione di quello che in origine doveva essere un istituto di beneficenza. In tutto questo il Comune è parte attiva: il sindaco nomina presidente e consiglio delle Opere pie; molte delle alienazioni, negli anni, si sono incrociate con aziende e partecipate collegate all'amministrazione di Palazzo dei Priori. Non da ultimo con l'edificazione Ikea ultimata l'ente incasserebbe dai permessi a costruire e oneri di urbanizzazione circa 6 milioni di euro

Alessandro Antonin, Il Corriere dell'Umbria 

Due indagati per i terreni Ikea

Di Urbano Barelli, Presidente di Italia Nostra di Perugia

PERUGIA - Fin dall’inizio l’arrivo dell’Ikea in Umbria ha suscitato forti perplessità e contrarietà.
Non solo da parte delle associazioni ambientaliste Italia Nostra e Legambiente che hanno sottolineato in particolare come il piano regolatore di Perugia classifica i terreni di S.Martino in Campo come inedificabili in quanto terreni agricoli di pregio, ma anche da Sviluppumbria, Federmobili, Confcommercio, Confesercenti, Rifondazione comunista.
Il direttore di Sviluppumbria, Vinicio Bottacchiari, ha dichiarato che non c’è da gioire per l’arrivo in Umbria dell’Ikea perché quello del consumo standardizzato non è lo sviluppo adatto per la nostra regione e che la creazione di posti di lavoro è a somma 0, visto che accanto alla crescita di grandi superfici distributive si assiste all’essiccamento delle piccole realtà. Noi dobbiamo mirare ad altro – ha aggiunto Bottacchiari – alla filiera corta, alla realizzazione di sbocchi commerciali per i prodotti umbri.
La Federmobili di Perugia ha dichiarato che l’arrivo di Ikea potrebbe avere un effetto devastante per le strutture che già operano in Umbria, mentre la Confesercenti che ha dichiarato che “se qualcuno pensa di fare e disfare a proprio piacimento e sulle spalle delle piccole e medie imprese dell’Umbria, dovrà assumersene tutte le responsabilità sapendo sin d’ora che la Confesercenti non rimarrà a guardare”.
Sulla vicenda è intervenuto ripetutamente il segretario regionale di Rifondazione comunista, Stefano Vinti, dicendo che gli incassi della megastruttura non saranno reinvestiti in ambito locale, ma saranno trasferiti alla sede nazionale, con soldi che se ne vanno dall’Umbria in un periodo sicuramente non favorevole all’economia delle famiglie: “mentre la crisi attanaglia i piccoli commercianti che non riescono ad arrivare alla fine del mese – ha dichiarato Vinti - si sceglie un modello di sviluppo incomprensibile per le esigenze del territorio”. Inoltre, ha aggiunto Vinti, la legge sul commercio non consente l’insediamento Ikea e “se per ogni grande impianto commerciale che si presenti in Umbria dobbiamo cambiare le leggi, cosa le facciamo a fare queste leggi; dobbiamo pensare che la politica si possa asservire ai poteri economici?”
Il problema di fondo che Italia Nostra ha voluto sollevare è proprio questo: a cosa serve dichiarare che la programmazione è un principio fondamentale della regione e degli altri enti locali, a cosa servono i piani del commercio, i piani regolatori e gli altri piani se alla richiesta di un potente privato tutto si modifica e si piega alle sue esigenze? Dov’è il principio di legalità e di certezza del diritto? Che fine fa il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge se un privato potente ottiene tutto quello che chiede, mentre il semplice cittadino senza santi in paradiso si vede ripetere che quello che chiede non si può fare?
I due esposti presentati da Italia Nostra sulla vicenda Ikea mirano a ristabilire il principio di legalità sostanziale nella gestione della cosa pubblica e si confida nel lavoro dei magistrati per ridare il giusto valore sia ai principi di programmazione e pianificazione dell’uso del territorio sia ai principi di certezza del diritto e di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.