mercoledì 19 ottobre 2011

15 ottobre: QUANDO IL DISASTRO E’ A VALLE LE CAUSE VANNO RICERCATE A MONTE

La giornata del 15 ottobre avrebbe dovuto essere l’inizio di un percorso collettivo di mobilitazione sociale contro la crisi e la macelleria sociale imposta dai diversi Governi e dalla Bce, dai grandi capitali finanziari e dalle multinazionali.
Avrebbe dovuto essere un primo momento di accumulazione di energie prodotte dalla conflittualità sociale messa in campo in questi anni, capace di erodere profondamente il consenso al pensiero unico del mercato e alle politiche liberiste degli ultimi decenni, come la straordinaria vittoria referendaria dello scorso giugno ha dimostrato.
Così non è stato : centinaia di migliaia di persone non hanno potuto concludere la manifestazione nazionale in piazza S. Giovanni e hanno dovuto subire una giornata di scontri che non avevano scelto.
Quello che è successo il 15 ottobre a Roma necessita di una ampia, diffusa e profonda riflessione con tutte le donne e gli uomini che a Roma erano presenti, con la propria indignazione per l’insopportabilità del presente, con il proprio impegno per la trasformazione sociale.
Per questo trovo irritanti le corse a presenziare nelle televisioni e sui giornali, partecipando, fra l’altro, ad una partita mediatica decisa da altri con l’unico scopo di affossare i movimenti e la mobilitazione sociale.
Per questo trovo fuorvianti le urgenze di comunicati stampa che, nel migliore dei casi, comunicano, ancora una volta, la propria autoreferenzialità individuale o di gruppo.
Bisogna fermarsi e capire, stare in silenzio e sedimentare, discutere ed accapigliarsi, se si vuole riprendere collettivamente una parola che sia dotata di senso.
Quello che è successo sabato ha una genesi nel percorso che lo ha preparato e comporta responsabilità collettive, cui ciascuna rete e organizzazione non può sottrarsi : il Coordinamento 15 ottobre tra sassi, idranti e lacrimogeni, si è rivelato un vero e proprio ossimoro.
Provo a proporre alcuni perché, frutto di riflessioni assolutamente personali e, come tali, frutto del mio sguardo parziale.
1. Perché abbiamo costruito la giornata del 15 ottobre non come un luogo comune di un percorso con una piattaforma politica, bensì come un luogo indistinto e, come tale, aperto alla competizione tra aree sull’impronta da dare alla giornata. Si sono passati i mesi estivi a tentare di mettere il cappello (proprio) a una giornata (di tutti) per poi costruire un luogo di coordinamento tra reti, gruppi e organizzazioni che, non avendo messo a tema il perché, ha trascorso sette riunioni (sette!) illudendosi che bastassero alcune mediazioni tra due blocchi (quello delle organizzazioni e reti “tradizionali” da una parte e quello delle reti della precarietà dall’altro) sul come per gestire una giornata che, nel frattempo diveniva sempre più “sovraccarica” di simboli e sempre meno intessuta di significati politici.
2. Perché nessuna rete ed organizzazione si è assunta fino in fondo un ruolo di gestione complessiva,ripiegando di fatto nella gestione del proprio pezzo e con le proprie forme. Una vera gestione dell’intera manifestazione non c’è mai stata : di fatto, come se ciascuna rete percepisse la difficoltà della giornata, ma non volesse tematizzarla fino in fondo, ci si è alla fine limitati all’ottenimento del posto adeguato per il proprio spezzone e all’espressione adeguata delle proprie rivendicazioni, illudendosi che la somma delle gestioni delle parti comportasse l’automatica gestione del tutto. L’evaporazione del “gruppo di contatto” durante il corteo ne è stata la più fedele dimostrazione.
3. Perché si sono fatti i conti senza l’oste. La discussione e le relative mediazioni sono state fatte tra aree politiche che,in forme diverse, hanno pesantemente sottovalutato la presenza del terzo incomodo, ovvero l’area –rivelatasi più consistente del previsto- che, in una giornata consegnata solo ai simboli e alle impronte, ha avuto buon gioco ad imprimere la propria, determinando gli scontri come unica espressione cui costringere tutti, volenti o nolenti. In merito a questo, le aree del blocco “tradizionale” hanno sostanzialmente adottato un atteggiamento di rimozione, illudendosi che bastasse la rimessa in campo di un corteo partecipato per confinare in un angolo chi avesse voluto far saltare il banco; il blocco delle reti della precarietà, pur segnalandone il sentore, hanno sostanzialmente immaginato che l’attuazione di “azioni comunicative” durante il percorso potesse funzionare, oltre che come espressione della propria conflittualità sociale, come sorta di contenimento per pezzi di corteo che cercavano lo scontro. L’arrivo del corteo in piazza S. Giovanni senza un palco allestito, né un camion che facesse da punto di riferimento (mentre i sei camion che avrebbero dovuto costituire gli speech corners tematici erano bloccati a chilometri di distanza nel corteo ormai frammentato) segnala la collettiva astrattezza con cui si era immaginata la giornata, mentre la concretezza degli incendi, dei lacrimogeni e degli idranti consegnava la giornata a chi, più che la Bce, le banche e i simboli del potere, si era preso il meschino compito di far fallire la manifestazione.
Il risultato finale è stato che, nonostante a Roma sia scesa in piazza la più grande manifestazione del mondo nella giornata del 15 ottobre, oggi ci troviamo tutte e tutti non a discutere di come mettere in campo una mobilitazione sociale permanente contro i mercati finanziari, le politiche monetariste dell’Ue, la macelleria sociale dei Governi, bensì su come affrontare le nuove misure liberticide e antidemocratiche che il Governo sta preparando e che nei prossimi giorni ricadranno su tutti i movimenti sociali.
Non dobbiamo cascarci. Non dobbiamo accettare di far arretrare di dieci anni la discussione, né di riproporla con schemi ritriti e desueti, spesso funzionali ai poteri forti. Per questo ogni nuovo tentativo liberticida di Governo e poteri forti va respinto con la stessa determinazione con la quale ci opponiamo alla consegna dei beni comuni e dei diritti sociali nelle mani dei grandi capitali finanziari.
Ma proprio per ridare forza e senso alla parola collettiva, occorre essere altrettanto chiari dentro tutti i luoghi di movimento e della conflittualità sociale : la costruzione di una mobilitazione sociale popolare, ampia e partecipativa comporta il diritto di ogni donna e di ogni uomo a potervi contribuire secondo la sua storia, esperienza, consapevolezza e sensibilità.
La rabbia che suscita un sistema che mette il 99% con le spalle al muro per permettere all’1% di continuare a fare profitti è sacrosanta, la necessità di una radicale trasformazione sociale lo è altrettanto; ma nessuna donna e nessun uomo dev’essere mai più costretto a trovarsi, nell’espressione dei propri percorsi di mobilitazione sociale, in situazioni e dentro pratiche che non ha liberamente scelto o che addirittura considera contrarie al proprio insieme di valori.
Per quel che mi riguarda non è la ripetizione dell’ennesima discussione su violenza e non violenza (che io considero astratta), è la ben più profonda riflessione sul rispetto della dignità delle persone.
Marco Bersani

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