lunedì 24 ottobre 2011

IKEA, CHE IDEA 2 di Renzo Massarelli

E' un terreno accidentato quello di San Martino in Campo, pur così lineare e tranquillamente disteso oltre il lembo del Tevere, tra Deruta e Torgiano e davanti alle magnifiche colline del contado perugino, ma non per colpa del disinteresse generale che ha sciupato  - con la presenza di piccole discariche abusive, capannoni dismessi, costruzioni artigianali aborrite, - quelli che il piano regolatore definiva, pur con qualche compiacente eccesso, terreni agricoli di pregio.
 
Quello di San Martino in Campo non pare così naturalmente pianeggiante da quando non è più destinato alle coltivazioni di qualità ma alle magnifiche e progressive idee del futuro, quelle del commercio e della grande distribuzione. E da quando, soprattutto, l’affare IKEA, che non è ancora affaire, ma ci manca poco, è entrato nella sfera di competenza non solo dei progettisti e di tutti gli altri addetti ai lavori, ma della magistratura. Per carità siamo solo agli inizi di un’inchiesta e per ora la sola notizia certa è che delle persone in divisa sono entrate nelle stanze del comune di Perugia e in quelle delle Opere Pie, proprietarie del pacchetto di San Martino in Campo e protagoniste di uno scambio complicato di proprietà con un imprenditore di Marsciano, per capire se dietro questa specie di baratto si possa nascondere un reato, quello di corruzione e se in questa storia abbia una qualche responsabilità anche il Comune.
 
Dunque, i terreni, è il caso di dire, sonno due, quello del giudizio nel merito del progetto e sul quale il dibattito è aperto da tempo, e l’altro, quello giudiziario, ed è un peccato perché la cancellazione freddamente pianificata di una delle zone più meritevoli di tutela e di una diversa valorizzazione, avrebbe avuto bisogno di una discussione libera da condizionamenti di questo tipo. C’è chi guarda al valore del paesaggio, all’equilibrio del territorio, alla necessita di coniugare le ragioni dello sviluppo con quelle dalla tutela e chi, al contrario, costringe la stessa idea di progresso dentro un orizzonte più limitato ed immediatamente esigibile.  Sarebbe stato un bel dibattito, ma a Palazzo dei Priori hanno corso come un treno per arrivare, senza tanti complimenti, all’obiettivo che si voleva raggiungere. Del resto si poteva dire di no ad Ikea?
 
Succede sempre così a Perugia e non è certo cosa nuova. Si poteva dire di non al multiplex di Centova? E si poteva dire di no al progetto di una nuova Monteluce concepita come una specie di Perugia 2 e, negli anni più lontani, si poteva dire di no alla Perugina e alla costruzione del centro direzionale di Fontivegge? Sulla giustezza di queste scelte, tra l’altro ognuna con una propria e diversa connotazione, non è più neanche il caso di discutere. Sono state fatte e sono lì, così che ognuno può misurare nel tempo la loro utilità sociale. In fondo questa città non è il risultato di ciò che i piani regolatori avevano previsto, ma delle varianti che sono arrivate, immancabili, quando c’è stata la necessità di soddisfare esigenze fortemente sostenute.
 
C’è però una riflessione da non tralasciare. Tutti questi progetti, figli di altrettante varianti, destinati a cambiare il volto della città e, in alcuni casi, il nostro stesso modo di viverla, sono nati non per rispondere ad un bisogno collettivo, ad una necessità di carattere generale. Di tutte queste cose si poteva tranquillamente fare a meno o scegliere altre strade. Perché allora è andata così? È andata così perché la ragione fondamentale di questi progetti è sempre stata la ricerca di una rendita fondiaria, necessaria in quel momento per ragioni ogni volta diverse. Così, in fondo, un po’ a caso è cresciuta nel corso della nostra vita questa città. A Monteluce servivano fondi per completare l’ospedale Silvestrini, a Fontivegge per rinfrescare le finanze di un’azienda che assicurava occupazione. A Centova le cose erano assolutamente diverse perché si trattava , chissà se proprio a ragione, di soddisfare aspettative private. A San Martino in Campo l’intreccio è più complesso ancora e i cosiddetti diritti acquisiti di chi possiede un terreno, molto meno chiari e dimostrabili.
 
Siamo solo al principio di un’indagine che deve completare la magistratura, ma l’affare Ikea è piuttosto semplice da capire. È una delle tante storie italiane dove, ad un certo punto, compare un personaggio che è svelto e molto furbo. Non è questo il paese dei furbi? Solo che perché ci siano i furbi è necessario che ci siano quelli che non sanno riconoscere i furbi se no, il furbo, è nudo come il re. Certo con gli svedesi non faremo una gran bella figura. Troviamo, noi italiani, sempre il modo di farci riconoscere.

Fonte: Il Corriere dell’Umbria del 22.10.2011

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