domenica 4 dicembre 2011

La nostra giusta analisi- Alberto Burgio


Questo nostro VIII congresso si svolge in un momento molto difficile per il nostro partito e per il Paese. Usciamo da tre anni durissimi, segnati dal disastro del 2008 e dalla scissione seguita a Chianciano (la più grave tra tutte quelle subite da Rifondazione comunista). 
Il partito è stato sistematicamente oscurato dall’informazione e ha subito l’offensiva che i poteri dominanti hanno sferrato contro il movimento di classe. Considerata l’enormità della sfida, è di per sé motivo di soddisfazione il fatto di essere nonostante tutto qui. A chi in questi tre anni si è augurato che noi scomparissimo, la nostra risposta è questo congresso nazionale, che ha visto la partecipazione appassionata e generosa di decine di migliaia di compagne e di compagni.
Proprio questa passione è la ragione principale della nostra resistenza. Se siamo qui è anche perché non ci siamo sbagliati nell’analisi politica, anche perché abbiamo finalmente saputo imboccare la strada dell’unità del partito; ma è soprattutto perché in questo partito rimane viva la passione politica dei nostri militanti, che ogni giorno, nonostante enormi difficoltà anche materiali, nonostante incertezze e preoccupazioni, continuano la battaglia: stanno nelle lotte, fanno i banchetti, tengono aperte le sedi. Sono loro, in gran parte assenti da questa sala, i veri protagonisti del congresso, ai quali va il nostro saluto riconoscente.
A proposito dell’unità del partito, testimoniata dal vastissimo consenso riscosso dal primo documento, è importante intendersi. Unità non significa unanimità, ma coesione, fiducia reciproca, sentimento della comune appartenenza. Se la si prende sul serio, l’unità è una forma dell’esperienza: si consolida praticandola. Su questo terreno non servono proclami né regolamenti. Servono gesti concreti all’insegna della buona volontà, del rispetto e della fiducia reciproca. Mi pare che con questo congresso stiamo facendo un importante passo avanti, che ciascuno di noi ha il compito di consolidare, adottando nel concreto comportamenti conseguenti.
Ma se è vero che siamo riusciti a resistere ai tre anni più duri della storia di Rifondazione comunista, non per questo possiamo affermare che la sfida è vinta e che il pericolo è alle nostre spalle. La sfida è ancora aperta, i pericoli incombono sul partito e sul Paese, a cominciare dalla nostra gente: il mondo del lavoro dipendente (in particolare nel Mezzogiorno e nella sua componente femminile), i giovani, i migranti.
Sappiamo tutti qual è il cuore del problema. Sono più di trent’anni che in tutto l’Occidente (ma in Italia in particolare) il lavoro è sotto attacco, colpito nel reddito, nei diritti, nella stessa dignità. Di questo attacco (che ha comportato anche il riattivarsi della macchina bellica dell’imperialismo nelle aree geopolitiche cruciali per il controllo delle materie prime e delle risorse energetiche) – di questo attacco non si vede la fine.
In fondo la crisi che cos’è? È una condizione generale prodotta dal capitale, di cui il capitale si serve per continuare nell’attacco contro il lavoro. Pensateci: da una parte, per salvaguardare il profitto, il capitale nega reddito abbassando i salari e licenziando, costringe le persone a indebitarsi e specula sul loro debito gonfiando enormi bolle finanziarie che prima o poi scoppiano (com’è avvenuto tra il 2007 e il 2008); dall’altra parte, il capitale si serve degli Stati (dei soldi pubblici) per far quadrare i bilanci delle imprese private, per cui poi gli Stati tornano ad attaccare la massa delle famiglie (le classi lavoratrici) colpendole nel reddito e nei diritti, tagliando i servizi pubblici, riducendo gli organici nel pubblico impiego. Ormai si è perso il conto di quante centinaia di miliardi di euro questa politica di rapina è costata, negli ultimi tre anni, a chi cerca di mantenere la famiglia col salario, lo stipendio o la pensione.
Ma questa è solo una parte del problema. Se l’attacco capitalistico colpisce con tale violenza, è perché non incontra sufficiente resistenza. Il capitale non ha cambiato natura. Vive da sempre a spese del lavoro, da sempre cresce a misura di quanto sottrae alla controparte. Non dobbiamo pensare che oggi i capitalisti siano più cattivi di prima. Quel che è cambiato (a vantaggio del capitale) è il rapporto tra le forze, e in questo cambiamento la crisi storica della sinistra è l’aspetto cruciale.
Anche a questo riguardo sappiamo come stanno le cose. In Italia questa vicenda si chiama, nell’ordine: compromesso storico e logica delle compatibilità, Bolognina, concertazione e trattato di Maastricht, riforme maggioritarie e bipolarismo, neoliberismo temperato e Ulivo, e finalmente Partito democratico e governo Monti. 
Trent’anni di lenta eutanasia della sinistra hanno regalato al capitale una libertà di manovra che si è tradotta nel trasferimento annuo, dal lavoro al capitale, di oltre il dieci per cento del reddito nazionale, e nella sistematica distruzione delle tutele e dei diritti conquistati con le lotte operaie e sociali degli anni Sessanta e Settanta. E tutto questo a danno del Paese, perché l’assenza del conflitto ha permesso al capitale di valorizzarsi senza sviluppo. Se l’Italia è messa peggio di quasi tutti i Paesi in Europa lo si deve proprio al fatto che il capitale, potendo risolvere i suoi problemi a spese del lavoro, non ha dovuto investire nella ricerca tecnologica e ha lasciato invecchiare l’apparato produttivo.
Però non è che possiamo cavarcela solo deprecando le scelte altrui. La responsabilità di chi ha distrutto il Pci, di chi ha imbrigliato il sindacato nello schema concertativo e di chi ha praticato la politica dell’equivicinanza rispetto al lavoro e all’impresa sono enormi, ma molto pesanti sono anche le responsabilità nostre. Vent’anni fa Rifondazione aveva la concreta possibilità di contrastare questa deriva e, se non c’è riuscita, questo si deve anche a molte nostre scelte sbagliate. Non è possibile ripercorrere qui questa storia (che peraltro attende ancora di essere fatta collettivamente), ma sono convinto che un bilancio serio non possa prescindere da una serrata autocritica, che dovrebbe coinvolgerci tutti, a cominciare dai gruppi dirigenti (compresi, ovviamente, tante compagne e tanti compagni che hanno abbandonato il partito nelle varie scissioni che lo hanno dissanguato).
Qual è il punto – per indicare la questione principale, quello che a me sembra l’errore più grave in questa vicenda?
Molto semplicemente, non avere capito che non ci si poteva permettere il lusso di dividersi.
Dire questo non significa banalizzare le differenze né sottovalutarle. Significa dire che se le differenze prevalgono sulle ragioni dell’unità, si perde inevitabilmente tutti quanti, perché ci si riduce in piccoli frammenti irrilevanti e perché si imbocca una spirale in cui ogni difficoltà alimenta nuove divisioni e ogni nuova divisione accresce le difficoltà. Questa è la nostra colpa: parlo di tutta la sinistra di alternativa in Italia. E questa colpa oggi rischia di provocare una conseguenza gravissima.
Quello che il governo Monti progetta di fare non è solo iniquo e intollerabile. È anche pericolosissimo, poiché semina paura, disperazione e rabbia, una miscela esplosiva che, se capitalizzata dalla destra, può spingere un Paese già stremato verso avventure tragiche.
Il fascismo nel Novecento si affermò in condizioni non molto diverse dall’attuale. In questo scenario la frammentazione e la debolezza della sinistra e del movimento di classe pesano come macigni. Il fatto che essi non siano in grado di svolgere la funzione che competerebbe loro (quella di costituire riferimenti credibili per il mondo del lavoro, presidi forti ed efficaci per le classi subalterne) costituisce una responsabilità gravissima, che non dovremmo esitare a definire storica.
Certo, oggi, al punto in cui siamo, ciascuno può chiamarsi fuori, addossando agli altri la colpa della frammentazione e dell’impotenza complessiva. Ma responsabili siamo tutti, senza eccezione. Ognuno ha il dovere di fare la propria parte, cominciando con l’assumere comportamenti coerenti con la necessità di ricomporre il campo unitario della sinistra di alternativa, pena la sua irrilevanza e la sua incapacità di fare argine al pericolo di un rigurgito reazionario che è, oggi, la minaccia di gran lunga più grave.
D’altra parte – ed è l’ultima cosa che vorrei dire – l’attuale situazione politica presenta anche una grande opportunità per la sinistra, a cominciare dal nostro partito e dalla Federazione.
Noi siamo le uniche forze che non debbono cambiare nemmeno una virgola della propria analisi per essere contro il governo Monti e per indicare la via d’uscita dalla crisi nel segno della giustizia sociale e dell’autonomia delle classi subalterne. Siamo indipendenti dal centrosinistra, nemici del capitalismo, radicati nel movimento di classe. Dobbiamo solo sforzarci di spiegare bene le nostre convinzioni evitando scorciatoie estremistiche che comprometterebbero in radice la nostra credibilità. Tanto per fare un esempio, penso sia sbagliato dire che il debito non va pagato o che bisogna battere la strada della bancarotta (sia pure pilotata) e uscire dall’euro. Oltre ad essere tecnicamente insostenibili, queste parole d’ordine appaiono irrealistiche e catastrofiche, e inducono la nostra gente a ritenere che quella di Monti sia l’unica strada possibile. Noi dobbiamo puntare l’indice sui veri debitori: i detentori di grandi patrimoni, i fruitori delle grandi rendite, gli evasori fiscali (che sottraggono ogni anno alla collettività 200 miliardi di euro). Dobbiamo esigere che dalla crisi si esca con una grande operazione di redistribuzione della ricchezza, che sarebbe l’unico processo in grado di coniugare giustizia sociale e ripresa dell’economia nazionale.
Ma, al netto delle esasperazioni estremistiche, la nostra posizione è giusta e capace di risultare attrattiva ed egemonica.
I problemi più seri li hanno le altre componenti della sinistra, e lo stesso Pd, come dimostrano la sofferenza della Cgil e i furibondi attacchi mossi al responsabile economico del partito, diretti al bersaglio grosso del segretario nazionale.
I maggiori problemi li ha il gruppo dirigente di Sel, che deve scegliere se sostenere Monti, rischiando di perdere gran parte dei consensi che raccoglie tra i giovani e tra i lavoratori, o combatterlo, come chiede il popolo della sinistra, archiviando la strategia del Nuovo Ulivo e dell’internità al centrosinistra.
A noi, in questa fase, occorre soltanto tenere i nervi saldi, impegnarci per rafforzare il partito e la Federazione, e compiere ogni sforzo perché la sinistra di alternativa ritrovi unità e torni ad essere quella grande forza che era ancora nel 2003, quando si consumò lo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Se davvero metteremo tutte le nostre energie in questo lavoro, senza riserve mentali; se riusciremo a convincere la nostra gente (che è potenzialmente maggioranza nel Paese) che davvero Rifondazione comunista e la Federazione della sinistra sono in campo e lavorano per rifare grande la sinistra di alternativa e il movimento dei lavoratori, allora io credo che potremo farcela. Non solo a sopravvivere, come siamo riusciti a fare in questi tre anni, ma anche a tornare quello che siamo stati e, ancora di più, ad assolvere il compito per cui siamo nati vent’anni fa: restituire all’Italia una grande forza comunista, popolare e di classe, senza la quale non ci sarebbero state né la Repubblica democratica né la Costituzione antifascista.
Alberto Burgio - intervento all'VIII Congresso nazionale del PRC

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua