lunedì 27 febbraio 2012

Indagine Spi-Cgil: meno welfare, più tasse

I fondi nazionali per gli interventi sociali più che dimezzati, le tasse su redditi e servizi locali aumentate fino a punte del 100%, gli investimenti e la spesa crollati dal Nord al Sud: è amaro, soprattutto per i cittadini, il bilancio del 2011 per gli enti locali, alla voce welfare. Lo Spi-Cgil (il sindacato dei pensionati) ha effettuato un’analisi dettagliata dei bilanci di previsione dei Comuni italiani. Il campione analizzato è significativo e riguarda 7.537 Comuni distribuiti su tutto il territorio nazionale. E dall’analisi emerge un quadro molto preoccupante sull’esercizio da parte delle amministrazioni locali delle proprie funzioni, in particolare di quelle relative alle politiche di sviluppo, agli investimenti e all’erogazione di servizi alla persona e collettivi. La preoccupazione aumenta, rileva l’analisi dello Spi, se si tiene conto che è aumentata la pressione fiscale, senza però portare a un adeguamento della spesa corrente e all’innalzamento del livello di copertura dei servizi.

2011 l’annus horribilis della politica sociale

Il 2011 può essere definito a tutti gli effetti l’annus horribilis della politica sociale nel nostro paese. I Fondi nazionali per gli interventi sociali – ricorda l’analisi - hanno perso il 63% delle risorse stanziate dallo Stato rispetto all’anno precedente. In particolare il Fondo per le politiche sociali – che serve a finanziare interventi di assistenza alle persone e alle famiglie – dal 2010 al 2011 è passato da 929,3 milioni di euro ad appena 273,9 milioni.

E’ stato invece cancellato del tutto quello per la non autosufficienza, per il quale era previsto uno stanziamento di 400 milioni di euro. Drastiche riduzioni sono state operate, inoltre, al Fondo per le politiche per la famiglia (da 185,3 mln a 51,5 mln), a quello per le politiche giovanili (da 94 mln a 12,8 mln), a quello per l’infanzia e l’adolescenza (da 30 mln a 3 mln) e a quello per il servizio civile (da 299,6 mln a 110,9 mln). Una fortissima riduzione ha riguardato, infine, il Fondo per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, che porta benefici soprattutto alle persone anziane alle prese con il caro-affitti e che è passato da 143,8 mln a 32,9 mln.


Le tasse sono aumentate

Come se non bastasse, nel 2011 si è registrato un aumento dei tributi rispetto al 2010: sono passati da 355,5 euro a 418 euro pro-capite. Tale aumento è determinato da un maggior gettito derivante da tributi federalisti, da quello relativo all’addizionale Irpef e da quello riferito alla tassa sui rifiuti solidi urbani (Tarsu). A livello nazionale l’imposta sui redditi ha subito un aumento dell’11% mentre la Tarsu del 12%. L’Irpef ha subito aumenti maggiori a Roma (+82,5%), a Brindisi (+36,4%), a Bari (32%), a Napoli (15,6%) e a Firenze (15,2%). Casi limite quelli di Marsala, Carrara, Cremona, Lamezia Terme e Imola dove gli aumenti hanno superato il 100%. Per quanto riguarda la Tarsu, gli aumenti più sensibili si sono registrati nei Comuni capoluogo di provincia come Reggio Calabria (+64%), L’Aquila (+53%), Catania (35,4%), Lecce (+34%), Palermo (6%), Torino e Napoli (3%). Solo a Milano si è registrata una diminuzione pari al 4,3%.

In aumento le entrate extratributarie

In aumento del 7,2% anche le entrate extratributarie, con una spesa pro-capite di 14 euro in più. Tale aumento si è registrato in particolare nei Comuni del nord-ovest (+9,4%), del sud (+8%) e in quelli che superano i 50.000 abitanti (+11,3%). I proventi di servizi pubblici (tariffe e compartecipazioni ai costi dei cittadini, multe) sono aumentati, invece, del 6%.

60% alla burocrazia, 30% al welfare

Il 60% delle risorse delle amministrazioni comunali – rileva ancora la ricerca dello Spi - vengono destinate alle funzioni generali di amministrazione, alla spesa per il personale e, più in generale, al mantenimento dei costi della politica. La spesa per il welfare si attesta, invece, al 30% del totale e riguarda servizi sociali, politiche culturali, istruzione, sport e tempo libero. Questa voce ha subito una flessione rispetto al 2010 dell’1% e una contrazione delle risorse pari a 252 milioni di euro. Nei Comuni del Centro Italia la spesa per il welfare è diminuita del -2,3% rappresentando il 30,6% della spesa totale. In quelli del sud, invece, la diminuzione è stata dallo 0,9% ma in questo caso rappresenta solo il 22,5%. Riduzioni meno sensibili si sono registrate al nord ovest (-0,6%) e al nord est (-0,2%).

Spesa sociale -1,8%

La spesa sociale dei Comuni – che comprende servizi a favore degli anziani, dei minori, dei diversamente abili e rivolti verso il disagio – è diminuita nel 2011 dell’1,8% con una riduzione di 166,5 milioni di euro e una minore incidenza sulla spesa corrente dello 0,6%. La diminuzione è stata più forte nei Comuni del centro (-4,4%), in quelli del sud (-2,8%), in quelli che hanno tra i 20.000 e i 50.000 abitanti (-2,9%) e in quelli che superano i 50.000 abitanti (-3%).

Investimenti in caduta verticale

La voce di spesa dei Comuni - riservata agli investimenti finalizzati alla realizzazione e alla manutenzione straordinaria di infrastrutture - è in caduta libera e ha perso l’8,8% rispetto al 2010 con un taglio di quasi 4miliardi e mezzo di euro. Tale riduzione ha riguardato soprattutto Comuni del nord ovest (-14,9%) e del nord est (-16,5%). Non hanno risparmiato, però, anche il centro (-8%) e il sud (-5%). Tra le grandi città spicca Palermo (-61,5%), seguita da Milano (-15,3%).

Equilibrio di bilancio: precario

Molti Comuni vivono la difficoltà a raggiungere l’equilibrio di bilancio della spesa corrente, che su scala nazionale è al 97,8%. Tale percentuale è inferiore nei Comuni del nord ovest (96,9%), in quelli del sud (97,7%) e in quelli con più di 50.000 abitanti (96,7%). In questi ultimi due casi la percentuale è addirittura in flessione rispetto all’anno precedente (-0,1%, -0,2%). Un saldo economico inferiore al pareggio di bilancio porta i Comuni ad avere problemi sulla spesa corrente, che rischia così di non trovare le coperture finanziarie se non verranno attivate altre entrate tributarie o “azioni straordinarie”.

domenica 26 febbraio 2012

Caso Aldrovandi. Uccidono il figlio, processano la madre di Checchino Antonini, Globalist

La mamma di Federico Aldrovandi alla sbarra per diffamazione: aveva criticato il pm delle prime indagini andate a vuoto. Rinviata la prima udienza.
Doveva iniziare il primo marzo a Mantova ma subirà un rinvio, per l'impedimento di un tecnico di parte civile, il processo a Patrizia Moretti e ad alcuni cronisti ferraresi denunciati per diffamazione dalla pm Mariangela Guerra, quella di turno all'alba del 25 settembre 2005 quando il figlio di Patrizia, Federico Aldrovandi, incappò nel misterioso e violentissimo "controllo" di polizia nel quale fu ucciso. Aveva 19 anni e stava solo tornando a casa a piedi dopo una notte in discoteca. Ci sarebbe voluta una faticosissima indagine difensiva - una sorta di controinchiesta da parte dei familiari del ragazzo e dei loro legali - perché i quattro agenti fossero condannati in primo e secondo grado per eccesso colposo nell'omicidio colposo. Per il 21 giugno è prevista la sentenza di Cassazione a mettere la parola fine al filone principale del clamoroso caso di "malapolizia" che, tra i vari strascichi, ha visto altri quattro tra colleghi e superiori dei quattro agenti finire alla sbarra per aver contribuito a depistare le indagini di quella domenica mattina.
Intanto, però, c'è quest'altro processo che ribalta le posizioni e prova a inchiodare la madre coraggio grazie alla quale si riaprì un caso dopo cento giorni di silenzio assordante e il tentativo di processare lo stile di vita della vittima anziché gli abusi della polizia. La querela della pm arriva nel 2010 dopo le sentenze sui depistaggi che, probabilmente, le impedirono di impostare correttamente le indagini.
Però, tra gli articoli "alla sbarra" ci sono anche quelli sul caso Bad Boys, rampolli della Ferrara-bene, tra cui il figlio della pm, accusati di spaccio. All'epoca ci fu chi tentò un collegamento tra quell'inchiesta e la lentezza del caso Aldrovandi fino alla rinuncia della pm nel febbraio 2006. E forse la pm vuole sciogliere proprio quel nodo. Ma proprio quei tre mesi opachi potrebbero essere illuminati dal nuovo procedimento all'apparenza paradossale. In aula con Patrizia ci saranno anche giornalisti della Nuova Ferrara: il direttore Paolo Boldrini, il giudiziarista Daniele Predieri e Marco Zavagli, collaboratore esterno, direttore del quotidiano on-line Estense.com. Quest'ultimo non è l'autore di uno degli articoli contestati, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura ma la procura di Mantova e la gup che ha deciso il processo sostengono che sarebbe lo pseudonimo usato da Zavagli.
La pm Guerra si costituirà parte civile ma solo nei confronti del quotidiano La Nuova Ferrara e non di Patrizia Moretti, chiedendo ai giornalisti un risarcimento almeno di 300mila euro più 1 milione e mezzo di danni nel processo civile in corso ad Ancona. Guerra, che quella mattina - forse depistata dagli agenti accorsi - non si presentò sul luogo del delitto, è convinta di essere stata oggetto di una «campagna denigratoria e diffamatoria».
Tra i testimoni a Mantova, le difese hanno messo in lista i giudici Francesco Caruso, Monica Bighetti, il pm Nicola Proto, gli ex procuratori capo Severino Messina e Rosario Minna, il giudice d'appello Luca Ghedini. Anche il sindaco estense Tiziano Tagliani, nella veste di avvocato, così come don Domenico Bedin e Anne Marie Tseguaeu, testimone della colluttazione tra Federico e gli che proprio Tagliani assisterà nella delicatissima fase della sua presa di parola, unica testimone - terrorizzata per eventuali ritorsioni - nella "zona del silenzio" ferrarese.
Per Articolo 21 e per il sindacato dei giornalisti il processo altro non sarebbe che un attacco alla libertà di stampa. «Amaramente penso che chi querela le vittime non cerchi giustizia, ma affermazione di potere», scrive Patrizia nel suo blog, quello da cui scaturì la campagna di controinformazione decisiva per l'impulso alle nuove indagini. La donna ha avuto già diverse querele anche da parte dei responsabili della morte di Federico. Tutte archiviate. Fino al processo di Mantova deciso con una rapidità irrituale. Anche il questore dell'epoca altri pezzi della polizia si sono dedicati negli anni a inseguire, denunciare, intimorire i frequentatori del blog con un'energia che avrebbe meritato altri obiettivi.Doveva iniziare il primo marzo a Mantova ma subirà un rinvio, per l'impedimento di un tecnico di parte civile, il processo a Patrizia Moretti e ad alcuni cronisti ferraresi denunciati per diffamazione dalla pm Mariangela Guerra, quella di turno all'alba del 25 settembre 2005 quando il figlio di Patrizia, Federico Aldrovandi, incappò nel misterioso e violentissimo "controllo" di polizia nel quale fu ucciso. Aveva 19 anni e stava solo tornando a casa a piedi dopo una notte in discoteca. Ci sarebbe voluta una faticosissima indagine difensiva - una sorta di controinchiesta da parte dei familiari del ragazzo e dei loro legali - perché i quattro agenti fossero condannati in primo e secondo grado per eccesso colposo nell'omicidio colposo. Per il 21 giugno è prevista la sentenza di Cassazione a mettere la parola fine al filone principale del clamoroso caso di "malapolizia" che, tra i vari strascichi, ha visto altri quattro tra colleghi e superiori dei quattro agenti finire alla sbarra per aver contribuito a depistare le indagini di quella domenica mattina. Intanto, però, c'è quest'altro processo che ribalta le posizioni e prova a inchiodare la madre coraggio grazie alla quale si riaprì un caso dopo cento giorni di silenzio assordante e il tentativo di processare lo stile di vita della vittima anziché gli abusi della polizia. La querela della pm arriva nel 2010 dopo le sentenze sui depistaggi che, probabilmente, le impedirono di impostare correttamente le indagini. Però, tra gli articoli "alla sbarra" ci sono anche quelli sul caso Bad Boys, rampolli della Ferrara-bene, tra cui il figlio della pm, accusati di spaccio. All'epoca ci fu chi tentò un collegamento tra quell'inchiesta e la lentezza del caso Aldrovandi fino alla rinuncia della pm nel febbraio 2006. E forse la pm vuole sciogliere proprio quel nodo. Ma proprio quei tre mesi opachi potrebbero essere illuminati dal nuovo procedimento all'apparenza paradossale. In aula con Patrizia ci saranno anche giornalisti della Nuova Ferrara: il direttore Paolo Boldrini, il giudiziarista Daniele Predieri e Marco Zavagli, collaboratore esterno, direttore del quotidiano on-line Estense.com. Quest'ultimo non è l'autore di uno degli articoli contestati, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura ma la procura di Mantova e la gup che ha deciso il processo sostengono che sarebbe lo pseudonimo usato da Zavagli. La pm Guerra si costituirà parte civile ma solo nei confronti del quotidiano La Nuova Ferrara e non di Patrizia Moretti, chiedendo ai giornalisti un risarcimento almeno di 300mila euro più 1 milione e mezzo di danni nel processo civile in corso ad Ancona. Guerra, che quella mattina - forse depistata dagli agenti accorsi - non si presentò sul luogo del delitto, è convinta di essere stata oggetto di una «campagna denigratoria e diffamatoria». Tra i testimoni a Mantova, le difese hanno messo in lista i giudici Francesco Caruso, Monica Bighetti, il pm Nicola Proto, gli ex procuratori capo Severino Messina e Rosario Minna, il giudice d'appello Luca Ghedini. Anche il sindaco estense Tiziano Tagliani, nella veste di avvocato, così come don Domenico Bedin e Anne Marie Tseguaeu, testimone della colluttazione tra Federico e gli che proprio Tagliani assisterà nella delicatissima fase della sua presa di parola, unica testimone - terrorizzata per eventuali ritorsioni - nella "zona del silenzio" ferrarese. Per Articolo 21 e per il sindacato dei giornalisti il processo altro non sarebbe che un attacco alla libertà di stampa. «Amaramente penso che chi querela le vittime non cerchi giustizia, ma affermazione di potere», scrive Patrizia nel suo blog, quello da cui scaturì la campagna di controinformazione decisiva per l'impulso alle nuove indagini. La donna ha avuto già diverse querele anche da parte dei responsabili della morte di Federico. Tutte archiviate. Fino al processo di Mantova deciso con una rapidità irrituale. Anche il questore dell'epoca altri pezzi della polizia si sono dedicati negli anni a inseguire, denunciare, intimorire i frequentatori del blog con un'energia che avrebbe meritato altri obiettivi. «In molti - dice ancora Patrizia - per la paura di un processo hanno patteggiato e pagato loro dei soldi. La gente normalmente teme i Tribunali, si sa. I miei avvocati hanno dovuto rispondere al loro Ordine per richiami partiti dal vertice della Procura ferrarese. La stessa procura che chiese l'identificazione dei giornalisti (tra cui questo cronista, ndr) e dei direttori di quelle testate che parlavano del caso Aldrovandi». «Quasi non riesco neanche più ad essere arrabbiata, sono soprattutto triste, delusa, affranta da tutto questo. Ma questo è niente rispetto all'assenza di Federico - si legge ancora nel post - ma che cosa si vuole dimostrare con questa querela? Ormai tutti sanno come sono andate le cose. E' scritto su almeno 3 sentenze e in 6 anni di cronaca». «In molti - dice ancora Patrizia - per la paura di un processo hanno patteggiato e pagato loro dei soldi. La gente normalmente teme i Tribunali, si sa. I miei avvocati hanno dovuto rispondere al loro Ordine per richiami partiti dal vertice della Procura ferrarese. La stessa procura che chiese l'identificazione dei giornalisti (tra cui questo cronista, ndr) e dei direttori di quelle testate che parlavano del caso Aldrovandi». «Quasi non riesco neanche più ad essere arrabbiata, sono soprattutto triste, delusa, affranta da tutto questo. Ma questo è niente rispetto all'assenza di Federico - si legge ancora nel post - ma che cosa si vuole dimostrare con questa querela? Ormai tutti sanno come sono andate le cose. E' scritto su almeno 3 sentenze e in 6 anni di cronaca».

Torino: caricati i No Tav di ritorno dalla Valsusa

Odiosa provocazione della Polizia contro i No Tav nella Stazione di Torino. In Valsusa decine di migliaia di persone hanno sfilato con contenuti netti e inequivocabili, ma senza problemi. Siccome quotidiani e tg titolavano "manifestazione pacifica" qualcuno ha pensato bene di provare a mutare il senso della giornata...
Una giornata di protesta dai risultati oltre le aspettative in termini di partecipazione sta terminando all'insegna di una provocazione da parte degli apparati di Polizia. La stazione di Porta Nuova, nel centro di Torino, è stata infatti teatro dalle 20 alle 21.30 di scontri tra centinaia di manifestanti di ritorno dalla Valsusa e la polizia. La tensione è aumentata nella fase di cambio dei treni, quando centinaia di manifestanti di ritorno dalla valle si sono spostate sulla banchina del treno in partenza per Milano. Qui i poliziotti schierati davanti alle porte del treno hanno preteso di controllare i biglietti dei manifestanti, e la tensione è subito andata alle stelle dato l'atteggiamento provocatorio e ingiustificato delle forze dell'ordine alla fine di una manifestazione che si era svolta in maniera tranquilla e senza scontri. Dopo una prima fase di fronteggiamento e di alterchi è scattata una carica molto violenta da parte degli agenti in tenuta antisommossa. Alcuni agenti sarebbero addirittura saliti sul treno manganellando e strattonando alcuni passeggeri. Molti i manifestanti che sono rimasti feriti dalle manganellate, alcuni sono stati portati all'ospedale. Dopo le prime cariche, tafferugli e una specie di caccia all'uomo è continuata per parecchio tempo tra i binari e nei vari locali di Porta Nuova. Secondo alcuni testimoni alcuni manifestanti sarebbero stati fermati e identificati, alcuni trattenuti e altri rilasciati.
Secondo la versione della Questura di Torino - naturalmente ripresa acriticamente da Repubblica, dal Corriere e dalle agenzie di stampa - "i dimostranti - circa 300 - hanno lanciato pietre e petardi contro le forze dell'ordine. Un agente di polizia è rimasto ferito ad un occhio e l'ambulanza del servizio 118 che e giunta sul posto è stata costretta ad allontanarsi perchè bersagliata da una sassaiola. L'agente ferito è stato poi portato via da un mezzo della polizia".
Poco prima delle 21 un gruppo di manifestanti è riuscito a prendere un treno e a partire per Milano mentre gli altri sono rimasti ancora a lungo all'interno della stazione Porta Nuova di Torino bloccando i binari dall'11 al 21 per sfuggire alle cariche. Intanto nello scalo ferroviario aumentava di minuto in minuto il numero di poliziotti e carabinieri. Tra i manifestanti intrappolati all'interno della stazione non solo attivisti milanesi arrivati in Valsusa per partecipare al corteo di oggi pomeriggio, ma anche manifestanti di altre città che attendevano convogli per tornare verso sud. Tra questi anche dei manifestanti romani e genovesi che tentavano di tornare alle loro città di provenienza.
"Si è formato un grande gruppo al binario 20 della stazione - ha raccontato a Paese Sera Stefania, una manifestante di 46 anni - dove le persone che dovevano salire sul treno per Milano si sono trovate davanti una barriera di celerini in tenuta antisommossa. Non facevano passare nessuno, dicendo che non poteva salire chi non aveva il biglietto, ma molti lo avevano e non potevano passare comunque. I manifestanti si sono messi a cantare qualche slogan, tipo ' Liberi tutti', senza insulti né provocazioni, qualcuno si è avvicinato ai poliziotti per chiedere spiegazioni, ma questi hanno iniziato a caricare all'improvviso e manganellare. Abbiamo visto un ragazzo per terra con la testa spaccata". Stefania racconta che la stessa barriera di poliziotti in tenuta antisommossa si era formata anche sul binario 10, dove c'era il treno in partenza per Genova, ma molte meno persone. "Ho fatto tante manifestazioni, sono stata anche a Genova, ma ho visto una cosa allucinante stasera, perché c'erano solo persone che volevano prendere il treno, tranquille. Gente di tutte le età con il biglietto del treno in mano".
Alla stazione di Torino al momento delle cariche c'era anche Giorgio Cremaschi, portavoce nazionale del Comitato No Debito: «Ero sul treno delle 19,50 per Milano e ho assistito a delle azioni assolutamente ingiustificate e ingiustificabili delle forze dell'ordine che, a un certo punto, parevano avere perso completamente la testa arrivando a prendere manganellate, oltre che le persone, i finestrini del treno». Aggiunge il Presidente del Comitato Centrale della Fiom: «credo che ci dovrebbe essere un'inchiesta su quanto è accaduto anche perchè dopo un'eccezionale manifestazione pacifica e non violenta, questo episodio pare messo lì apposta, e non certo dai manifestanti, per macchiare una giornata splendida».

venerdì 24 febbraio 2012

Uno, nessuno, centomila Pd - di Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

Il cronista del giornale Il Tempo domanda cautamente al responsabile Lavoro del Pd Fassina: “Si può dire che la sua linea sia la linea del Pd?”. Risponde con orgoglio Fassina: “Le posizioni sul lavoro sono larghissimamente, anche se non unanimemente condivise all’interno del partito. L’autorevolezza di personalità che la pensano diversamente (nel Pd, ndr) non deve dare l’idea di un Pd lacerato”. (23 febbraio).
Fassina lavora da solo alla compattezza del partito, mentre intorno a lui, esplodono, come bombe a grappolo, dissonanze fragorose. Sentite Giovanna Melandri (stesso giorno, La Stampa): “Non andrò alla manifestazione Fiom del 9 marzo, perché il sindacato deve fare il sindacato e le forze politiche devono fare le forze politiche”. È talmente vero che i candidati del Partito repubblicano americano stanno impegnando somme immense per screditare i sindacati e spingere il lavoro fuori dal dibattito politico. E Obama viene insultato con la parola “socialista” perché ha osato inserire l’aumento dei salari e la garanzia delle cure mediche gratuite nel programma elettorale della sua rielezione.

Naturalmente Melandri non è la sola voce “diversa” del partito. Orfini, per esempio, sta da un’altra parte e dice: “Penso che sia giusto portare solidarietà a un sindacato che considera vergognoso Marchionne. Dovrebbero andarci tutti”. Se considerate l’importanza della questione, vi rendete conto che avete ascoltato la voce di due partiti. Anzi tre. Infatti, lo stesso Orfini, nella dichiarazione citata, si ferma e si corregge: “Tutti no, Bersani no. Sarebbe eccessivo”. Non contando il segretario Pd di Imola che non vuole comizi assieme a Fassina, perché Fassina va con gli intoccabili della Fiom. Ma se ascoltate Angeletti (Uil), che si sta certamente domandando dove portare il suo sindacato in tempo di elezioni, vi accorgete che è contro il governo (e dunque il ministro Fornero e la deputata Melandri) nella difesa del lavoro, a favore di Marchionne, sulla questione “democrazia in fabbrica” e, assieme agli altri due sindacati, isolato dalla politica che non vuole mischiarsi con gli operai.
Ma nei canyon del Pd volano bassi i pipistrelli detti “tabù”. Volano in un senso (non è tabù abolire l’articolo 18) e nell’altro (non è un tabù tenere testa al governo se il governo va con pacata eleganza verso destra). Ma ecco come risponde alla situazione paradossale l’ex ministro Gentiloni, leader fisso in un piccolo gruppo di leader fissi in viaggio dal passato al futuro senza soste riflessive sul complicato presente: “La decisione del ministro Fornero di andare avanti anche senza il consenso dei partiti sulla riforma del mercato del lavoro sarà un banco di prova della tenuta del Pd”. Come dire: il banco di prova di un vero partito orgoglioso di sé è accettare di non esistere. Però Gentiloni nutre una grande speranza: “Le scelte parlamentari del Pd saranno il vero congresso del partito. Io non ho dubbi. Io voterò sì”. Sì al partito che non conta? Il fenomeno è nuovo. Nessuno se ne va. Dove? Le “intenzioni di voto” continuano a scendere. Manca qualcuno che sappia dire: ecco, questo è il Pd. E vi diciamo chi siamo, che cosa vogliamo e dove cerchiamo di andare.

I signori ministri chiedono benevolenza: siate ‘buonisti’ verso i ricchi!- di Annamaria Rivera,


Si deve dire che chi guadagna e paga le tasse non è un peccatore, e va guardato con benevolenza, non con invidia”. Ce lo chiede la ministra Severino, che col suo reddito da sette milioni di euro l’anno è la più ricca fra i ministri ‘tecnici’ ricchi come cresi, con poche eccezioni. La coda di paglia (rivelata dal lapsus “peccatore”) le ispira l’ennesima gaffe governativa. Ci chiede di guardare con benevolenza alle sue entrate scandalose, dopo che i rappresentanti del governo ci avevano ammoniti ripetutamente per il nostro stile di vita non abbastanza francescano e, in sostanza, per il nostro parassitismo sociale: noi pigramente “fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà” (Cancellieri); noi che finora abbiamo vivacchiato grazie a una società “troppo generosa, troppo buona verso i deboli” (Monti); noi che siamo stati beneficiati da governi che hanno “profuso troppo buonismo sociale” (ancora Monti).
Ora, la ministra della Giustizia ci chiede, pensate un po’, un atto di ‘buonismo’: siate indulgenti, ci esorta, guardate con benevolenza alla nostra agiatezza un tantino eccessiva, mentre noi vi svuotiamo le tasche, vi confischiamo diritti e garanzie sociali, vi consegniamo, nudi, alla giungla del mercato e alla lotta per la sopravvivenza.
C’è chi eccepisce: ma il loro benessere è normalmente conforme al loro ruolo di tecnici di ‘alto rango’! L’obiezione sarebbe ragionevole se in Italia non vi fosse una schiera di tecnici, studiosi, ricercatori, intellettuali, in alcuni casi ben più colti ed esperti dei ‘professori’ di governo. Ebbene molti di loro, dipendenti da amministrazioni pubbliche (l’università, per esempio), non solo pagano le tasse al pari dei ministri, ma, per rispetto della regola dell’incompatibilità con altri incarichi, vivono del solo stipendio. Quindi hanno redditi lordi pari a meno dell’uno per cento (avete capito bene) di quello della ministra Severino. Che vorremmo implorare d’essere, lei, benevolente: si soffermi a meditare, qualche volta, sul fatto che tanti geniali lavoratori della conoscenza – quelli ‘strutturati’, come si dice, per non parlare dei precari! – percepiscono stipendi mensili corrispondenti alla somma che lei, probabilmente, spende per acquistare un abito degno della ‘sobrietà’ governativa.
Non è, la nostra, un’ennesima, ambigua invettiva contro ‘la casta’; neppure è ciò che si stigmatizza con la formula superficiale di ‘antipolitica’: i nostri cresi, del resto, non rappresentano la Politica, bensì un comitato d’affari della borghesia insediato a Palazzo Chigi. E’, invece, una ‘sobria’ considerazione dello stato attuale delle relazioni di classe. Certo, da lungo tempo non è una novità che a ‘rappresentarci’ siano governi che riflettono gli interessi delle classi dominanti. Ma quel che risulta intollerabile è che i membri del governo Monti coniughino la spietatezza liberista con una pretesa pedagogica: “Spero di cambiare il modo di vivere degli italiani”, ha candidamente dichiarato Monti nella recente intervista al Time, poiché “la vita politica quotidiana li ha diseducati”, privandoli del senso della “meritocrazia e concorrenza”. Insomma, il comitato d’affari della borghesia non si accontenta di svolgere il ruolo di portavoce della Bce e di ben più elevati vertici economico-finanziari. Pretende di svolgere una missione educativa, di plasmare la società e i cittadini secondo i precetti morali della bibbia neoliberista.
Siamo tentati di assumere anche noi una missione educativa, invitando i signori ministri ad adeguarsi a precetti di austerità e altruismo, consoni alla grave crisi economico-finanziaria del Paese. Che elargiscano una piccola parte delle loro copiose sostanze per sovvenzionare i tanti gruppi di lavoratori licenziati che stanno lottando per il diritto al lavoro e quelli che sempre più spesso, per disperata protesta, saliranno su torri e impalcature. Che ne offrano qualche esigua frazione alle Ong che difendono i diritti dei migranti, così che queste, a loro volta, li aiutino a pagare l’odioso balzello aggiuntivo, di duecento euro, necessario per ottenere e rinnovare i permessi di soggiorno. Che riservino qualche spicciolo per allestire alloggi dignitosi per la moltitudine di homeless che la loro gestione della crisi va producendo.
Oppure, più modestamente, che destinino una piccola percentuale del loro reddito mostruoso per sottoscrivere in favore della sopravvivenza di giornali moribondi – anche per colpa del governo ‘tecnico’ – quali il manifesto e Liberazione. Almeno si laverebbero la coscienza per un po’ e così forse il loro subconscio non si ribellerebbe tanto spesso con lapsus e gaffe madornali. Sarebbe anche una bella opportunità per mostrarsi fedeli al loro credo liberal-liberista: il pluralismo dell’informazione non è forse uno dei valori-cardine del pensiero liberale, oltre che della Costituzione?

http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it

giovedì 23 febbraio 2012

LA FIOM C'È GIÀ, E ORA SI MUOVA ANCHE LA SINISTRA, di Roberta Fantozzi


120223fdsAl di là delle esternazioni offensive di Marcegaglia e delle repliche giustamente indignate, pare avere un punto fermo il cosiddetto «confronto» sul mercato del lavoro. È la volontà, ribadita in ogni sede da Monti, di procedere comunque, con o senza l'accordo dei sindacati. Intenzione evidente anche nei comportamenti di Fornero che da un lato continua a riproporre il drastico ridimensionamento degli ammortizzatori sociali, dall'altro ha esplicitato che «il tema dei contratti e della flessibilità in entrata è subordinato al tema della flessibilità in uscita». Il governo reitera dunque in termini inequivoci sia la sua concezione del ruolo delle organizzazioni sindacali, sia il punto di merito che considera centrale.
Diversamente da quanto avvenuto per la più grave controriforma previdenziale della nostra storia, varata in assenza di qualsiasi confronto, questa volta gli incontri sono in corso, ma la decisione avverrà «a prescindere». Mentre dal punto di vista di merito è altrettanto esplicita la volontà di manomettere l'art. 18. Più chiari di così si muore.
È anche chiaro che a quella manomissione si rischia di arrivare, se continua l'attuale posizionamento dei diversi soggetti a livello sindacale e politico. Cisl e Uil hanno esplicitato in più occasioni la disponibilità a una qualche modifica. La Cgil tiene il punto, continuando a dichiarare che l'art. 18 è una norma di civiltà e che i soli interventi possibili riguardano la velocizzazione dei tempi della giustizia, ma non mette in campo un percorso di mobilitazione e accetta che se ne discuta «alla fine». Il Pd è paralizzato dalle contraddizioni interne che riflettono le divisioni profonde sul dopo-Monti. In questo quadro non è sufficiente la risposta da parte di chi, tra le forze politiche, pure manifesta netta contrarietà. Riguarda noi della Federazione della sinistra, riguarda Sel e l'Idv. Eppure, dovrebbe essere chiara a tutti la gravità di quel che sta accadendo. Per il valore in sé, perché sarebbe un ulteriore tassello della gravissima destrutturazione dei diritti del lavoro, per il senso comune che contribuirebbe a sedimentare. Tutte le ipotesi in campo hanno l'obiettivo di modificare ulteriormente i poteri nel rapporto di lavoro, di minare il valore di deterrenza dell'art. 18 su cui si fonda la possibilità di esercitare tutti gli altri diritti. Dalle molte varianti di contratto di ingresso, alla volontà di eliminare il controllo del giudice sulla verità dei motivi addotti per i licenziamenti individuali per motivo economico e sul rispetto delle procedure per i licenziamenti collettivi, non ritenendo evidentemente sufficienti le gravi norme introdotte dal collegato lavoro sul ruolo dei giudici. Le ipotesi in campo hanno l'obiettivo di consentire l'arbitrio delle imprese e un salto di qualità nella ricattabilità delle lavoratrici e dei lavoratori e nella precarizzazione del mondo del lavoro.
Il segno regressivo sarebbe pesantissimo, tanto più se si pensa che l'intervento sull'art. 18 si aggiungerebbe a quanto il governo Berlusconi ha già fatto. Alla mostruosità giuridica, sociale e civile dell'articolo 8 della manovra d'agosto, scomparso dal dibattito pubblico, che l'art. 18 lo attacca già, rendendolo derogabile dalla contrattazione aziendale, insieme al contratto nazionale e al complesso delle leggi a tutela del lavoro. Alla volontà di cancellare dai luoghi di lavoro la Fiom e i sindacati che non firmano, esito sia del modello Marchionne che nuovamente dell'art. 8. E che dire dell'effetto che avrebbe un intervento di manomissione dell'art. 18? Dopo la controriforma della previdenza sarebbe il segno che è caduto ogni argine e non c'è alternativa all'impasto di rabbia e rassegnazione che segna parte rilevante della società.
È evidente la centralità dello sciopero della Fiom del 9 marzo su tutti questi terreni. Ma è urgente anche un segnale a livello politico, un'assunzione di responsabilità da parte delle forze di sinistra. Per questo reiteriamo in primis a Sel e Idv l'appello a costruire rapidamente percorsi unitari efficaci. La volontà di manomettere l'art. 18 ci pare il segno chiaro che questo governo non è una parentesi. È all'opposto un governo costituente perché il vero mandato che ha - dalla Bce, dall' Europa a dominanza tedesca - è il compimento di un disegno organico. È una cesura compiuta con quel che resta del modello sociale europeo: diritti del lavoro, welfare, democrazia. Non c'è più molto tempo, se non ci vogliamo rassegnare.

L’insana passione del PD per il ‘Papa straniero’ - Fabrizio d'Esposito, Il Fatto Quotidiano


Da Montezemolo a Passera, ora l'ultimo è Monti. Il più grande inventore di queste figurine è stato Veltroni. Al primo posto della classifica: i banchieri. Ma venne anche il turno di Roberto Saviano
In meno di due anni, Mario Monti è il terzo “papa straniero” che Walter Veltroni propone per la leadership del centrosinistra. Tutto ruota attorno all’aggettivo “riformista”, ancora una volta. “Monti è un riformista, non lasciamolo alla destra”, così domenica scorsa a Repubblica l’ex quarantenne kennediano che a metà dei Novanta non voleva regalare alla destra neanche Lamberto Dini, altro ex premier tecnico oggi nel recinto dei satelliti del Pdl, con queste parole profetiche: “Ha vissuto da ministro l’esperienza Berlusconi, poi quella del suo governo appoggiato dal centrosinistra. Beh, quando gli hanno chiesto se avrebbe accettato un ruolo nel prossimo schieramento di destra, ha semplicemente risposto: ‘No, non mi ci vedo’. A buon intenditor…”. Difatti.
Andando a ritroso, dopo l’esternazione che sancisce la nascita del “partito di Monti” nel Pd, la passione di Veltroni per il leader che viene “dall’esterno” si colloca nel settembre del 2010. L’ex sindaco di Roma nonché ex candidato-premier (perdente) nel 2008 si fa vivo dopo mesi di pensoso silenzio e lancia il documento dei 75 per il “papa straniero” a capo dell’ex Ulivo ed ex Unione. Il nome del momento è quello di Alessandro Profumo, cacciato da Unicredit. Parafrasando il Fassino dell’estate dei furbetti del quartierino: “Abbiamo un banchiere”. L’ipotesi Profumo mette a soqquadro il Pd e irrita persino un moderato come Beppe Fioroni, democristiano doc: “Prendere come leader uno che è appena stato cacciato mi pare un’idea singolare della politica”. Ma i veltroniani non si rassegnano e un mese dopo ci riprovano con un altro nome. Stavolta a farlo è Goffredo Bettini, cervello politico del buonismo trasversale. Per lui, l’impegno in politica di Luca Cordero di Montezemolo “potrebbe avere un grande significato e una grande presa”. Il presidente della Ferrari (e di tante altre cose), secondo Bettini, dovrebbe “compiere un atto di servizio, unilaterale, disinteressato e a termine, mettendo la sua popolarità ed esperienza a disposizione di una battaglia civile e democratica”.
In questa fase il tema del “papa straniero” esplode (altro grande alfiere che difende il solco tracciato da Veltroni è il direttore di Repubblica Ezio Mauro) ed emergono anche le suggestioni dello scrittore anti-camorra Roberto Saviano e dell’ad di Fiat Sergio Marchionne. Ovviamente, sulla sponda opposta a quella presidiata da Veltroni, si mette seduto Massimo D’Alema, teorico del primato della politica e dei partiti e notoriamente allergico alla società civile, secondo una sua antica e feroce battuta copiata dalla propaganda nazista: “Quando sento parlare di società civile metto mano alla pistola”. Certo, Profumo, Montezemolo e Marchionne più che nella categoria “società civile” vanno inseriti sotto la voce “poteri forti” ma per D’Alema è lo stesso e fa sapere che quella del “papa straniero” è una “falsa strada”.
Rispetto a oggi, la discussione di due anni fa sembra preistoria. Soprattutto perché non c’è più Berlusconi a Palazzo Chigi. Dal novembre scorso, da quando cioè è nato il governo sobrio dei tecnici, la convinzione comune è che dopo Monti (e Passera) nulla sarà come prima. Non senza paradossi e contraddizioni. All’inizio i ruoli erano rovesciati. Nel senso che il superministro Corrado Passera, ex Intesa, era il candidato più gettonato del centrosinistra (sempre per la serie “abbiamo un banchiere”) e Monti per il centrodestra. Oggi è il contrario. Roberto Formigoni, governatore della Lombardia, ha proposto Passera al posto di Alfano per la successione a Berlusconi, Veltroni ma anche Enrico Letta si sono buttati su Monti.
Nel centrosinistra, la questione del leader esterno, da non regalare agli altri, è affiorata all’alba della Seconda Repubblica, all’indomani della sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Non a caso, il partito montiano del Pd ripete che la foto di Vasto (Bersani, Di Pietro, Vendo-la) sarebbe il bis di quell’esperienza. Prima della candidatura di Romano Prodi nel 1996, fu proprio Veltroni a lanciare il nome di Carlo Azeglio Ciampi, ma questi ringraziò e rifiutò. Il Pds inseguì anche Mariotto Segni, sempre per sottrarlo alla destra.
In quella zona grigia e bipartisan tra i due poli sono stati vari i nomi dei leader intercambiabili prima di Monti, Passera e Montezemolo. Sergio D’Antoni, quando lasciò la Cisl, fu corteggiato da destra e sinistra (oggi è nel Pd). Ma la vera passione tra i postcomunisti sono i banchieri, causato forse dal complesso della “sinistra stracciona”. Nel duemila spuntò l’ipotesi di Antonio Fazio, governatore di Bankitalia. Disse Massimo Cacciari: “Ci vorrebbe un cattolico democratico di alto profilo disposto a farsi carico del problema di arginare questa destra che con le destre europee non ha niente da spartire. Io vedo solo Antonio Fa-zio”. Oggi l’argine al “papa straniero” è soprattutto Bersani, che vede tramontare la sua candidatura a premier ma più di tanto, in pubblico, non ha osato. Questa la sua risposta a Veltroni su Monti: “Il mio partito ha una proposta alternativa, non a Monti, ma alla destra. Poi Monti e i suoi ministri potranno decidere con quale polmone respirare”. Appena tre giorni prima aveva detto che Monti “non fa cose di sinistra”.

"A salario di merda,, lavoro di merda!"- Bruno Ugolini, L'Unità

“Io song n’omme ‘e mmerda”. Non sono i versi di una canzone scurrile. Sono le incredibili parole, un autocondanna, un’autocritica alla Pol Pot, che gli operai ddella Fiat di Pomigliano sono costretti a pronunciare davanti a un microfono e davanti a compagni e capi in una specie di assemblea detta modernamente “acquario”. Un’umiliante penitenza richiesta quando quell’operaio “non regge le cadenze o sbaglia a montare un pezzo”. Forse questi sono i “fannulloni” a cui allude la Marcegaglia. Insomma l’operaio cede alla fatica e così “viene convocato a fine turno: capi e sottocapi lo circondano e gli fanno recitare al microfono” tali tremendi versetti. L’episodio è riportato non in un foglietto estremista diffuso dai duri della Fiom bensì dal “Foglio” di Giuliano Ferrara. E l’autore dell’articolo è un Gianfranco Pace che forse soffre le reminiscenze di un suo lontano passato. E il fatto era già stato raccontato da Loris Campetti sul “Manifesto”.
“Io sono un uomo di merda” è costretto a dire quell’operaio che come un novello Charlot non ce la fa a inseguire i ritmi di Marchionne. In una fabbrica dove se hai la tessera Fiom non entri. Come quando non si poteva avere l’Unità in tasca. E poi c’è chi osa tacciare di nostalgici del primo Novecento perfino coloro che nel Pd osano non osannare la politica Fiat. Ma chi sta facendo salti enormi all’indetro, in nome dei “tempi moderni” (titolo, appunto, del film di Chaplin)?
Un episodio che incita alla rivolta. Che prima o poi arriverà . E così i moderni proletari, per rimanere in tema, saranno costretti a riscoprire un antico sorpassato slogan soreliano: “A salario di merda lavoro di merda”. Così – magari anche quando si sostiene che la riforma del lavoro la fanno solo esperti ministri senza il conforto eperto dei sindacati – si buttano a mare anni di faticose conquiste e vere modernizzazioni.Quelle che avrebbero dovuto portare “da sfruttati a produttori”, come diceva un volume di Bruno Trentin. Tanto per citare uno che se fosse ancora vivo non crederebbe ai propri occhi.

Farfallino Veltroni, sei la nostra Belen, http://www.globalist.it

Ormai è una litania: l'articolo 18 non è un tabù. Lo dicono e lo ripetono Monti, la Fornero, la Marcegaglia. Finalmente anche Walter si è unito al coro

Tabù è la parola del nostro tempo in genere accompagnata ad un'altra parola e ad un numero. L'altra parola è "articolo" il numero "18". "L'articolo 18 non è un tabù". Lo dicono e lo ripetono: Monti, la Fornero, la Marcegaglia. Bonanni ed Angeletti che lo hanno sentito dalla Marcegaglia. Lo dice il mio barbiere e il figlio di undici mesi della mia vicina ha imparato a dirlo prima di "mamma". "L'articolo 18 non è un tabù ragioniere! L'articolo 18 non è un tabù a lei dottore!". Insomma la frase ha ormai sostituito gli obsoleti "buongiorno" e "buonasera".
Tutti noi ci chiedevamo preoccupati se e quando l'avrebbe detto anche Veltroni. Mesi di angosciosa attesa spuntando sui giornali l'elenco dei dichiaratori dell'articolo 18 non è un tabù, nella speranza di trovarvi il suo nome e cognome. A volte cadevamo in preda allo sconforto più cupo e una domanda ci assillava come una minaccia,"è mai possibile che Walter sempre così pronto a sparar cazzate se ne faccia scappare una così appetitosa senza farla propria?"
Eppure in fondo al cuore eravamo certi che il nostro beniamino non ci avrebbe deluso ed infatti. "L'articolo 18 non è un tabù" ha finalmente dichiarato Veltroni. Grazie Walter temevamo che dopo il tabù infranto a Sanremo di mostrare in prima serata televisiva una farfalla tatuata vicino alla patata quello sull'articolo 18 avrebbe invece retto.
Non è così ed anche per merito tuo potremo presto esibire maliziosamente la pedata del padrone tatuata sulle nostre chiappe. Veltroni sei la nostra Belen!

L'autoritarismo e il sindacato di Claudio Conti, www.contropiano.org

Difficile fare il normale sindacato. La Fiom di Landini registra l'autoritarismo crescente nel governo e nelle relazioni industriali.
Questa intervista è importante per molti motivi. In primo luogo perché, partendo dalla "normalità" del conflitto sociale - tra impresa e lavoro - si scopre che dall'altra parte (nel governo e tra le imprese) sta cescendo la tentazione di annullare la "mediazione sociale". Che in regime liberale e democratico si chiama "contratto", quell'istituto in cui due interessi diversi convergono temporaneamente per definire a quali condizioni e con quali oneri e per chi si manterranno determinati rapporti. Se si salta la mediazione contrattuale si arriva immediatamente all'imposizione autoritaria della forza, all'esercizio sfrenato di uno strapotere che oggi sembra incontenibile. Ma che contiene, come ogni rottura, anche gli elementi che ne preparano il superamento (sul lungo periodo, sia chiaro), generando una diversa dinamica conflittuale.
In secondo luogo, la Fiom si accorge - o decide ora di evidenziare - che andamento delle relazioni industriali e politica marciano allo stesso ritmo e sulla stessa strada. Il che segnala anche una separazione forse irrecuperabile con la "politica" della fase precedente, con il chiacchiericcio tatticista dei Bersani e o dei Vendola. Non si tratta ovviamente di una rottura "soggettiva" (nemmeno la si vuole, da parte Fiom, con ogni evidenza), ma della constatazione che l'azione dei partiti classici non serve più a modificare nemmeno marginalmente le scelte di governance decise a Bruxelles o Francoforte, non più a palazzo Chigi. Ne deriva la constatazione, che facciamo noi, che la politica intesa come attività finalizzata alla competizione elettorale per "andare al governo" o per "battere Berlusconi" è arrivata a un capolinea da cui non partono più autobus.
In terzo luogo, ed è importante, viene sottolineata la "natura di classe" particolare di questo governo presuntamente tecnico: rendita immobiliare e speculazione finanziaria sono le matrici di tutti i ministri.  nemmeno uno che abbia a che fare con la "produzione". E anche questo ha un senso, se non si vuool fare solo un'analisi ideologica.
Un dettaglio che ovviamente nell'intervista non ci poteva essere: tutto il governo e tutti i partiti che lo votano sono pronti a "spezzare le reni" al movimento operaio. E poi si squagliano davanti all'"insurrezione" dei tassisti... C'è qualcosa di malato, non vi sembra?

«Questi sono toni autoritari»
«I redditi dei ministri? Puntano su immobili e finanza, non l'economia reale»
Francesco Piccioni, Il Manifesto
La sensazione - tra le sortite dei ministri e l'irruzione di Marchionne su Confindustria - è che si stia stringendo un cappio intorno alla condizione del lavoro e anche alla democrazia. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, sta preparando uno sciopero generale dei metalmeccanici che ha in piattaforma anche le scelte del governo, a partire dall'art. 18.
Hai sentito le parole di Fornero?
Penso che queste affermazioni del ministro del lavoro e di Monti, che indicano la volontà di fare una riforma del mercato del lavoro anche senza il consenso delle parti sociali, o addirittura dei partiti che sostengono il governo, assumono preoccupanti toni autoritari. Riforme che vogliono durare nel tempo debbono essere costruite con il consenso dei soggetti che sono coinvolti. Non c'è coesione sociale senza un vero processo democratico. Nel merito: in questa fase, il problema è creare nuovi posti di lavoro. Trovo non accettabile e sbagliata l'idea di cancellare la cassa integrazione straordinaria (cigs) che è, e rimane, l'istituto utile per favorire processi di riorganizzione industriale senza aprire ai licenziamenti collettivi.
Chi finanzia la cig?
In generale è pagata con i contributi di lavoratori e imprese, non dallo stato. La possibilità di estendere gli ammortizzatori sociali - una nostra richiesta importante - si realizza se tutte le imprese e i loro dipendenti, di qualsiasi dimensione e settore, pagano un contributo per averla. Questa ossessione di considerare come problema ineludibile la modifica del diritto a essere reintegrati nel lavoro quando si è ingiustamente licenziati, è un altro tema che non c'entra nulla con la riduzione della precarietà e il creare nuovi posti di lavoro.
L'art. 18 divide anche Confindustria: Bombassei con Marchionne contro Squinzi.
Penso di non sbagliarmi se dico che la maggioranza degli imprenditori ritiene che il problema non sia l'art. 18. È una bugia pura dire che in Italia non c'è la possibilità di riorganizzare le imprese perché non si può ridurre in modo concordato il personale. La imprese non assumono perché non hanno da lavorare. Come si superano i ritardi del paese? C'è un problema di infrastrutture, un livello di corruzione altissimo, di illegalità e di evasione fiscale senza paragoni, un atteggiamento delle banche che non aiuta chi vuol fare impresa. È questo che sconsiglia gli investitori dal venire in Italia, non l'art. 18. Chi vuole abolirlo, non solo punta a licenziamenti individuali facili, ma soprattutto vuole modificare il sistema di relazioni sindacale. L'idea è cancellare la contrattazione collettiva come mediazione sociale tra impresa e lavoro.
Perché un Presidente di Confindustria dovrebbe dire «vogliamo licenziare solo ladri e fannulloni»?
Le trovo sinceramente affermazioni inaccettabili e irrispettose per la persone al lavoro. Descrivono un'idea piuttosto sballata delle relazioni sindacali e del lavoro.
Com'è il clima in cui state preparando lo sciopero del 9 marzo?
Tra i metalmeccanici stiamo riscontrando un consenso diffuso. Contro le scelte della Fiat, certo.Ma c'è anche un crescente dissenso sulle scelte di politica economica del governo. A partire dalla riforma delle pensioni, che viene percepita come una cosa contro l'occupazione giovanile, e che non tiene conto della diversità tra i vari lavori. E si pone un problema di democrazia. Chiediamo che il governo cancelli l'art. 8 della «manovra Sacconi» (che permette accordi ind eroga a contratti e leggi, ndr) e faccia una riforma che riduca davvero la precarietà, estendendo tutele e regole a tutti. C'è bisogno di un piano straordinario di investimenti, pubblici e privati, per cambiare il modello di svluppo. Non solo Fiat non sta più investendo in Italia. Grandi gruppi, persino pubblici come Finmeccanica, dicono di voler dismettere produzioni nell'energia civile o nei trasporti. Su questo c'è un vuoto preoccupante di iniziativa da parte del governo.
C'è una relazione col tipo di ricchezze denunciate da tutti i ministri attuali?
Da una lettura dei loro redditi mi colpisce il fatto che ci siano investimenti solo in operazioni immobiliari o finanziarie. Dà l'idea che in questi anni si è imposta una scarsa attenzione a investire su attività «reali». Dimostrano la necessità di un cambiamento culturale: svalorizzazione del lavoro e forza della finanza hanno portato molte persone a svalorizzare il ruolo dell'attività manifatturiera. Questo influisce sul tipo di logica con cui si guarda al «bene comune» del paese.
C'è consenso anche fuori dalle tute blu?
La difesa di un lavoro con diritti, la democrazia sui posti di lavoro, il superamento della precarietà, parlano a tutti, non solo a noi, Ci sono riscontri molto positivi con studenti, precari e movimenti costruiti in questi anni su una diversa idea di uscita dalla crisi. Da quello per l'acqua a molti altri soggett. Prevedo una grande manifestazione, il 9. Trovo invece preoccupante che un governo - eletto in Parlamento, ma non con un voto popolare - possa avere un atteggiamento vero il Parlamento o i partiti tipo «o fate come dico io, o ve ne assumete la responsabilità». C'è un problema anche per il governo, di rispetto delle regole della democrazia nel nostro paese.