venerdì 2 marzo 2012

La questione salariale umbra dentro quella italiana. Ne vogliamo parlare?

di Stefano Vinti, Segretario Regionale PRC

PERUGIA - Mentre il dibattito pubblico appare tutto concentrato sulla riduzione delle tutele del lavoro, le cui conseguenze più immediate sono il contenimento salariale e l’aumento delle ore di lavoro effettive, i dati mostrano invece che le politiche sinora adottate in questa stessa direzione hanno diminuito drasticamente i salari e non hanno avuto l’effetto di ridurre il gap di produttività rispetto alle potenze economiche europee. L’Italia è tra i paesi europei che pagano meno i lavoratori, a fronte di orari di lavoro più lunghi. Nonostante ciò la competitività delle nostre imprese è tra le più basse. Il quadro che emerge è quello di un paese che ha sbagliato obiettivi e che si appresta a commettere ulteriori errori.
I dati Eurostat sui salari medi lordi nei paesi dell’Unione e i rapporti dell’Ocse parlano chiaro.
Per ciò che attiene ai salari medi nell’anno 2010, a parità di potere d'acquisto, l’Italia viene scavalcata dalla Spagna e dalla Finlandia e viene avvicinata dalla Slovenia. In sostanza, l’Italia da ultimo paese dell’Europa “ricca” nel 2002 passa ad essere il secondo dell’Europa “povera.
E mentre i lavoratori italiani sono tra i peggio pagati d’Europa, il numero di ore di lavoro per anno per addetto risulta fra i più alti. Il nostro paese risulta vicino alle nazioni meno sviluppate d’Europa, piuttosto che alle maggiori economie. Si noti inoltre come la Grecia, spesso dipinta come paese di “fannulloni”, risulti invece in testa tra i paesi considerati.
Anche il costo del lavoro in Italia, inteso come retribuzione, oneri sociali e altre spese, risulta minore rispetto alle grandi economie europee. L’Italia si colloca al di sotto della media della zona Euro. E’ quindi privo di fondamento l’assunto che le imprese italiane paghino il lavoro più di quelle delle economie avanzate europee, ad eccezione della sola Gran Bretagna (dove è particolarmente bassa la componente degli oneri sociali).
La produttività italiana risulta bassa in valore assoluto e stagnante, quella Greca è addirittura calante, mentre tutte le altre sono crescenti, sia pure con inclinazioni differenti.
In altre parole, l’Italia è un paese fermo da molti anni. La sua produzione, intesa nel senso più generale, è rimasta poco remunerativa, mentre i partner europei hanno saputo migliorare la capacità di produrre reddito e questo nonostante l’introduzione di nuove forme di lavoro flessibile, ampiamente sfruttate dalle imprese, che però non ha avuto effetti significativi sulla produttività del lavoro.
Nella nostra regione le cose non vanno sicuramente meglio. È il Rapporto Economico e Sociale dell’AUR a porre la questione salariale, leggasi remunerazione del lavoro dipendente, come uno spaccato fondamentale della “questione sviluppo.
Nell’ultimo rapporto analitico disponibile, quello dell’Istat del 2010, nella tabella sulla retribuzione annua dei lavoratori dipendenti viene operata una divisione dei trattamenti salariali di tutte le regioni italiane in decili. Se prendiamo quello più basso il dato umbro (15.600 euro) non si discosta ne dalle altre realtà regionali ne dal dato del Paese (16.536 euro). Il rapporto cambia man mano che si prendono in considerazione i redditi più alti. Il coefficiente che misura la differenziazione salariale in Umbria, è più basso nel confronto con altre Regioni proprio per la debolezza verso l’alto della sua dinamica salariale. La retribuzione media annua dei lavoratori dipendenti diventa in Umbria nel 2009 di 22.180,03 euro a fronte dei 25.692,8 in Italia.
Superfluo sottolineare come anche in Umbria sulla situazione salariale pesino in maniera determinante sia l’aumento della precarietà, sia l’incidenza di forme contrattuali come l’apprendistato sia la fortissima operaizzazione del mercato umbro.
Il miglioramento anche minimo dei livelli salariali nella nostra regione, conferma l’Aur, avrebbe molti effetti sulle dinamiche familiari, rafforzando i consumi e la coesione sociale. Un rafforzamento che interesserebbe anche la cultura del lavoro, del lavoro industriale e dei servizi contribuendo a cambiare la cultura delle famiglie che ormai da troppo tempo tendono ad immaginare il lavoro per i propri figli in un terziario che non c’è o che non può espandersi.
La discussione pubblica si sta quindi svolgendo sul lato sbagliato dei fattori produttivi. Riforme che tendessero a precarizzare ulteriormente il lavoro e/o ridurre i salari effettivamente percepiti, non avrebbero probabilmente impatti positivi sulla produttività, come non li hanno avuti in passato, mentre risulterebbero nocive sul lato della domanda aggregata.
Le cause probabili delle scarse performance italiane andrebbero ricercate nella scarsa “produttività del capitale”, vale a dire dei mezzi di produzione, intesi nel senso più ampio, obsoleti o sottoutilizzati, così come nella frammentazione del capitale in moltissime microimprese che non riescono a realizzare quelle economie di scala e quell’innovazione di processo e di prodotto che permettono una maggiore competitività delle stesse e nella specializzazione produttiva. Non sorprende quindi la bassa qualificazione dei lavoratori richiesta nel nostro paese dal tessuto produttivo, che abbiamo già evidenziato in passato.
Si è costretti a prendere atto che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Eurostat “certifica” la miseria dei salari italiani. In Italia un lavoratore percepisce la metà dei suoi colleghi tedeschi , olandesi e lussemburghesi. Tutto ciò è scandaloso! Ma ancora più scandalose sono le politiche del governo Monti che attraverso la cosiddetta “modernizzazione” del mercato del lavoro e manomissione dell’articolo 18 vuole ridurre il potere contrattuale dei lavoratori ed il loro sfruttamento. In realtà si vuole scaricare su di essi i costi di una crisi che ha all’origine proprio l’impoverimento di massa e le enormi diseguaglianze sociali (per fare un solo esempio basti guardare tanto i redditi e i patrimoni dei nostri sobri governanti). La redistribuzione delle ricchezze e il riequilibrio dei redditi oltre ad essere obiettivi ineludibili di giustizia sociale, sono quindi presupposti indispensabili per uscire dalla crisi!
Tra le riforme necessarie all’Umbria, quello che sembra sfuggire totalmente al confronto politico ed istituzionale è la specifica “questione salariale” nella nostra regione, “questione salariale” che penalizza fortemente il lavoro dipendente, ed in particolare il lavoro operaio, tanto che i salari e gli stipendi umbri sono inferiori in termini assoluti a tutti quelli delle regioni del centro – nord.
Preso atto del fatto che le pensioni umbre sono anch’esse le più basse del centro – nord, appare evidente quanto siano penalizzati i lavoratori e i pensionati umbri.
Se esiste la questione della retribuzione del lavoro subordinato in Italia esiste ancor di più una “questione salariale umbra”.
Ne vogliamo parlare?

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