giovedì 14 giugno 2012

Forza «mite», ma forza di Alessandro Favilli, Il Manifesto

Il pensiero critico cessa di essere marginale solo nel momento in cui la sua forza comincia ad essere davvero consistente. Come non ripetere gli errori del 2008 e rischiare di rimanere fuori dal Parlamento

«Il tempo che abbiamo davanti è poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se possibile meglio di Hollande e Mélenchon» (Rossana Rossanda, il manifesto 11 maggio). Anche gli estensori del manifesto-identità del «soggetto politico nuovo» sono partiti dalla preoccupazione, forte e giustificata, di una urgenza dei tempi. Urgenza dettata dall’improvvisa accelerazione del processo di disgregazione di tutti i gangli vitali dell’esercizio democratico. Un processo di depauperamento della democrazia in atto ormai da tempo. La prospettiva politica che ne sta emergendo, tuttavia, non mi pare all’altezza delle necessità reali dell’urgenza.
La discussione scaturita dalla questione del «soggetto politico nuovo» ha avuto, certo, carattere positivo. Le riflessioni molteplici, l’iniziativa politica fiorentina, hanno permesso di cogliere meglio un «oggetto» di cui il manifesto iniziale aveva dato un’immagine piuttosto rigida. Quello che si muove, come spesso accade, è, fortunatamente, più ampio, complesso, variegato rispetto a un «manifesto» nei cui confronti molte critiche, anche di fondo, sono apparse tutt’altro che ingiustificate.
In particolare è venuta meglio chiarendosi la dimensione del conflitto. La centralità del conflitto e anche, di fatto, i mille fili che lo legano ad un «centro» economico-sociale. Una centralità che deriva non tanto dalle affermazioni di molti intervenuti firmatari del «manifesto», quanto dal terreno scelto per la determinazione dell’antitesi: la democrazia. La questione dell’antitesi oggi, infatti, non è altro che il modo di porsi più relistico della «questione democratica» nei nostri tempi di crisi della democrazia.
D’altra parte si tratta di un aspetto fondamentale ben presente nella storia del movimento operaio, un aspetto tra i più rilevanti dell’eredità di quella storia. Già nel Manifesto (quello di Marx ed Engels) è presente una costante insistenza su proposta ed iniziativa politica derivanti dall’interno dei movimenti sociali. Un’impostazione che comporta una concezione forte di democrazia partecipativa, fondata su profondi e complessi processi di autoemancipazione collettiva.
Così, dopo quella che siamo soliti chiamare «fine del comunismo», le forze che della declinazione nei nostri tempi dell’eredità della storia del movimento operaio hanno fatto il cardine della loro presenza politica, hanno ripreso il filone di quell’eredità che le vicende connesse allo svolgimento di una storia tragica avevano relegato nella marginalità.
Già il problema della democrazia aveva avuto particolare rilevanza nel complesso della riflessione berlingueriana tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta. Coloro che, anche organizzati in forma-partito, si sono riallacciati direttamente a quella riflessione, hanno provato a misurarsi con lo spessore della questione nella difficile condizione di forze minoritarie.
Per queste forze la democrazia è stata, ed è, cifra di riferimento continuo: nella gestione dell’organizzazione sotto forma di tensione permanente, in tutte le istituzioni dove l’organizzazione è presente, nel sindacato dove si sostiene sempre che la legittimità di ogni accordo è tale solo se confermata dai lavoratori stessi, ed inoltre nel rapporto con i cosiddetti «movimenti». Un rapporto, quello con i «movimenti», che finisce con l’influenzare proprio il dibattito sulla «forma partito» e quindi ancora sulla democrazia. Il fatto che tale tensione abbia avuto difficoltà ad attecchire in profondità ed a generalizzarsi non è dipesa solo da limiti dei gruppi dirigenti, che pure ci sono stati, ma alle condizioni difficili del minoritarismo che si coniugano meglio con antichi vizi che con nuove virtù.
In questo senso la riproposizione della «questione democratica» come centro della riflessione culturale e politica da parte del «soggetto politico nuovo», anche se non è questione del tutto «nuova», rappresenta comunque un ulteriore punto di forza della cultura politica necessaria nel lavoro di costruzione del «fronte» dell’antitesi.
Dice giustamente Rossana Rossanda: «C’è un fronte, anzi non è mai stato tanto esteso, così esteso che non riusciamo neanche bene a vedere dove comincia e dove finisce. Mai come adesso, solo che si nega che ci sia» (Alias, 3 settembre 2011). Le culture di riferimento di questo processo non sono di poco peso e di poca storia. Il problema è piuttosto quello della loro traducibilità in forme politiche in grado di attivare un circolo virtuoso tra le due sfere. Nella discussione sul «soggetto politico nuovo», e nei suoi primi passi, tali difficoltà si stanno mostrando in maniera assai chiara.
Professori universitari e politici colti sono stati i protagonisti tanto dell’iniziativa relativa al «soggetto politico nuovo» che della riflessione che ne è seguita e che ne segue. Per molte ragioni non lo ritengo certo un limite. Anzi, anche il rapporto stretto tra elaborazione culturale ed iniziativa politica è uno dei parametri distintivi del «fronte». Ha ragione Alberto Burgio quando indica il «pensiero critico» come retroterra essenziale di un soggetto politico unitario (il manifesto, 10/05). Un aspetto, tra l’altro, non «nuovo», ma ben radicato nell’«eredità» cui si è fatto più volte riferimento.
C’è un pericolo in questa impostazione, quello di considerare pressoché automatica la traducibilità della elaborazione intellettuale in «forza» politica. Nella dialettica politica, e quella che ci attende sarà molto dura, la «forza» è indispensabile, forza «mite» magari, ma forza. La permanenza nel tempo e non l’andamento carsico è carattere distintivo di una «forza» politica. Inoltre il rapporto tra la formazione e la crescita di una forza e l’elaborazione intellettuale non è unidimensionale. I professori universitari corrono il rischio di confondere un problema logico, (il pensiero come antecedente) con un problema di temporalità politica. Nei processi politici la sfera del pensiero e quella della costruzione della forza non si ordinano secondo la temporalità del prima e del poi. Assai spesso invece, è solo nel momento in cui la forza comincia ad essere davvero consistente che il pensiero entra in una fase espansiva, che il pensiero critico cessa di essere marginale.
Gli strumenti derivati dalla teoria critica hanno dato prova, sul piano scientifico, di una capacità di spiegazione della crisi sistemica in atto, ed anche, seppure in maniera più episodica, di proposte di politica economica, analiticamente incomparabili rispetto alla narrazione ideologica degli apologeti del mercato autoregolantesi, o anche dei teorici dei mercati imperfetti. Eppure sul piano politico sono rimaste pressoché ininfluenti.
Ecco dunque che, qui ed ora, il compito di tutti coloro che si ritrovano all’interno del panorama analitico proprio all’universo delle teorie critiche, naturalmente con tutte le aperture e le mediazioni compatibili, è quello di contribuire fattivamente, in coerenza con le logiche di quel pensiero, alla costruzione politica del fronte ampio dell’antitesi.
Costruzione di cui l’aspetto qualificante consiste proprio nella «questione democratica», cioè nella centralità da cui parte anche la riflessione intorno al «soggetto politico nuovo».
Rifiuto del modello Marchionne, rifiuto della costituzionalizzazione della teoria economica dominante in questa fase, ad esempio, cioè le discriminanti principali tramite le quali si definiscono meglio i pur mobili confini del fronte, sono nient’altro che la declinazione della «questione democratica» nella carne e nel sangue della lotta di classe tipica dell’odierno ciclo di accumulazione. Che tale declinazione, proprio a partire da quelle discriminanti, metta in discussione, alla radice, la questione del rapporto economia-società ne è conseguenza logica.
Una rappresentanza parlamentare, più numerosa possibile, di questo nucleo di pensiero e delle proposte politiche che ne derivano non coincide certamente con la costruzione del fronte, ma ne è un tassello imprescindibile. Penso che sia necessario riflettere sui meccanismi del fallimento di una importante iniziativa politica, un fallimento che si è ripercosso in maniera diretta sul disastro del 2008. Nel 2005 la «Camera di consultazione della sinistra» esplorò tutte le possibilità per arrivare alla formazione di una lista unitaria della sinistra non neoriformista accreditata del 15 per cento dei voti. «Il processo deve risalire il più possibile dal basso (rompendo risolutamente il diaframma che tuttora separa politica organizzata tradizionalmente dalle nuove espressioni della politica)», si diceva in una “Lettera aperta” di Alberto Asor Rosa della Camera di consultazione della sinistra, diffusa a fine luglio di quell’anno.
Come si vede il linguaggio usato delineava lo stesso insieme problematico «nuovo» che ci troviamo ad affrontare nel momento attuale. Il progetto della «Camera di consultazione» fallì perché allora il Prc ritenne di essere in grado di rappresentare, da solo, il punto di riferimento di tutto ciò che stava maturando «dal basso» e dalle aree contigue. Oggi altri pensano di poter rappresentare il «nuovo» sbarazzandosi di tutto quello che considerano, ripetendo una narrazione vecchia più di vent’anni, obsoleto e ideologico. Se sarà davvero così il 2013 ripeterà, con poche varianti, il 2008. Ho letto su il manifesto del 18 maggio questa ipotesi data per realistica: «Ieri Nichi Vendola già consigliava agli alleati Pd e Idv di mollare Udc e comunisti a vantaggio delle liste civiche nazionali. (…) la neonata ‘Alba’ di Lucarelli e Ginsborg (è) già posizionata ai blocchi di partenza». Mi rifiuto di credere che tutte le elaborazioni cresciute intorno al soggetto «nuovo» possano avere esiti politici così miserevoli.

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