mercoledì 27 giugno 2012

Le forme della politica organizzata di Mario Tronti


Si era pensato all’inizio di dire: nuove forme della politica organizzata. Ma l’allergia provocata dall’aggettivo “nuovo” si è fatta immediatamente sentire e l’esclusione ne è conseguita. Non che non sia necessario pensare a forme altre rispetto al passato. Anzi, questo è l’obiettivo. Questo di oggi vuole essere, non l’approdo, piuttosto l’inizio di un percorso, di riflessione, di sperimentazione, di ricerca sul campo, comparativa e anche partecipativa, verso la delineazione di un modello di partito capace di mettere a frutto, positivo, il passaggio attuale di crisi storica del partito politico.

Le forme sono essenziali. In politica sono indispensabili. Forma di partito, forma di governo, forma di Stato. E’ il livello istituzione. Qui c’è stata una perdita, un esaurimento, uno svuotamento, un indebolimento, per cause precise, niente affatto oscure. E lasciamo stare, almeno in questa sede, la retorica consolatoria, e in questa fase assai ambiguamente interessata, circa il fatto che queste forme siano state sopravanzate dalla crescita di nuove domande, di nuovi bisogni, da parte di una società civile buona oppressa da una cattiva politica. Magari fosse così. E io penso che se fosse così, le forme “altre” si sarebbero già trovate. Quando c’è una spinta dal basso, reale, sociale, e quindi materiale, essa cerca, e trova, le forme di espressione adeguate. Non si è trovato niente, ormai da un quarto di secolo a questa parte. Proposte improbabili, sperimentazioni effimere, improvvisazioni leggere, liquide, come si dice, personaggi caricaturali, in una produzione allargata di questi fenomeni. Perché? E perché i tentativi seri di aggiornare l’offerta politica, penso al progetto Pd, sperimentano questa difficoltà a radicarsi, a consolidarsi, a identificarsi e a farsi identificare? Di questo, realisticamente, dovremmo discutere.

Prima cosa: deideologizzare la fase, che, a differenza di quanto si racconta, è molto ideologizzata, con l’egemonia, quasi per intero, nelle mani delle classi dominanti. Dicevo di cause niente affatto oscure. C’è stato uno smottamento nella qualità del consenso delle società democratiche. Le spinte sociali sono state sostituite dai flussi di opinione. Nelle attuali democrazie, puramente elettorali, questi flussi esercitano una funzione strutturale. Come l’andamento delle borse determina la decisione economica, così l’andamento dei sondaggi determina la decisione politica. Un altro modo di esercizio del primato da parte dell’economico sul politico. Che è primato del quantitativo sul qualitativo, dei numeri sulle idee. Non è un caso, che sia il populismo a presentarsi oggi come la nuova forma dell’obbligazione politica. E il primato della comunicazione salga al ruolo di vero potere sovrano E allora, ecco, è rappresentazione ideologica, l’autonomia dell’opinione pubblica. Di fatto, essa è guidata, orientata, manovrata, come mai accaduto nel passato.

Gli interessi chiedevano rappresentanza politica, e alla fine sottostavano alla mediazione. L’opinione per prima cosa pretende di autorappresentarsi. E’ qui l’alternativa vera tra due sistemi istituzionali. Tra parlamentarismo e presidenzialismo, non c’è una scelta di tecnica elettorale, c’è la sostanza di una decisione politica. Attraverso la manipolazione dell’opinione, si afferma il potere incontrastato degli interessi più forti. Non l’interesse generale. Al contrario: il rapporto di forza alla stato puro, senza più i famosi lacci e lacciuoli. E accade questa cosa niente affatto strana. La parte acculturata della società, per il fatto che detiene il monopolio della parola, comanda sul resto, maggioritario, del sociale. Il popolo, con dentro, al centro, la persona che lavora, è ridotto all’intendenza che seguirà. La “Repubblica delle idee” detta i compiti a casa alle forze politiche.

Primo compito di un partito del rifare Italia, e del fare Europa: dare voce ai senza parola. Perché se non gliela dà il partito questa voce, non gliela dà nessuno. E dunque rimangono muti, invisibili nella società dell’apparire, viventi inesistenti. Guardate, gli esodati raccontano una metafora addirittura letteraria, non so se ci vorrebbe Cechov o Beckett per descriverla. Un passaggio, prima di passare ai lavori, che consegue a quanto detto fin qui. La destrutturazione delle forme, ripeto, di partito, di governo, di Stato,è venuto avanti come l’obiettivo, riuscito, di un’operazione dall’alto. Ne aveva bisogno il capitalismo liberale, globalizzato, che negli ultimi trent’anni ha imposto il suo potere assoluto. Non una innovazione, una restaurazione. Nella sostanza del rapporto sociale reale, armato di rivoluzioni tecnologiche. Non un salto postnovecentesco, ma un eterno ritorno di Ottocento. Il capitalismo liberale ha rovesciato il capitalismo democratico del trentennio precedente, gestito o condizionato dai grandi partiti di massa, a componenti popolari. Questi erano gli ostacoli alla globalizzazione liberista e questi sono stati tolti di mezzo, con applausi dalla platea degli innovatori.

La deriva di ceto politico, il discredito dei partiti, l’insignificanza dei governi, la debolezza al posto della forza degli Stati, non sono state cause ma conseguenze. Così, irriconoscibilità, autorefernzialità, corruzione della politica. Quando si destrutturato le forme, deperiscono le soggettività. Tutte: a livello collettivo, come a quello individuale. Quando la politica viene disorganizzata, entra in crisi. La crisi della politica è la crisi delle sue forme organizzate. Ecco perché diciamo “politica organizzata”. In senso ampio, nel senso che tiene in sé la forma del partito, ma non si esaurisce in esso. Contempla forme di autorganizzazione, su problemi parziali, dentro un contesto programmatico e progettuale generale. Cominciare a pensare esperienze di movimento, alcune, mirate, dentro, non accanto, alla forma del partito. Caratteristiche indispensabili: le regole, la durata, specialismo + politica, formazione e selezione dei gruppi dirigenti, controllo di moralità, niente leaderismo, niente personalizzazione, collegialità della decisione.

Sento dire, da varie parti: dobbiamo capire le ragioni dell’antipolitica. Oppure: non chiamiamo antipolitica tutto quello che non ci piace. Due osservazioni di buon senso. Ma il buon senso va sempre letto con un buon intelletto. Su questo problema la situazione è molto preoccupante e in preda a una confusione di massa. Il riflesso antipolitico dei cittadini rispecchia, senza saperlo, l’antipolitica dei mercati, che invece la sanno lunga. La ricerca di un’altra politica, senza i partiti, oltre i partiti, delle associazioni, del volontariato, del civismo, si trova accanto, suo malgrado, la setta di quei professionisti dell’anticasta, che dalle pagine dei grandi giornali d’informazione fanno da megafono ai peggiori interessi di classe. Vedi il tema, cruciale, del finanziamento pubblico dei partiti. Qui bisogna chiarire, spiegare, distinguere, non difendersi, attaccare. Va messa in campo una campagna di forte contro-orientamento. La via maestra è una sola. Non parlare a nome del sistema dei partiti, ma a nome di un modello di partito che, per autorevolezza, forza, intelligenza, correttezza, in quanto difensore dei poteri deboli, fa appunto la differenza.

Alfredo Reichlin disse tempo fa una cosa molto bella. “Io non mi sono iscritto ai partiti, mi sono iscritto al partito comunista”. Credo che una cosa simile, per la sua parte, potrebbe dirla Franco Marini. Due personaggi storici qui presenti, che, mi ci metto anch’io, attraverso il senso di questo incontro, stabiliscono uno scambio virtuoso, di esperienze, con una nuova generazione di dirigenti politici. Insieme, si può puntare a quell’obiettivo, che è un’altra delle cose semplici difficili da fare. La direi così: se un solo grande partito, decisivo per le sorti del paese, risultasse inattaccabile dall’antipolitica, la politica risorgerebbe dalle ceneri, come la mitica Fenice.

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua