mercoledì 25 luglio 2012

Spread elettorale di romina Velchi

Sorge spontanea la domanda: Monti, ma che stai a dì (e soprattutto a fa')? Ieri, 24 luglio, quella cosa chiamata spread ha toccato la cifra record di 533 punti. Non proprio record, in realtà, perché si tratta del livello già raggiunto nel novembre 2011, per la precisione il 17, determinante per la spallata definitiva al governo Berlusconi e l'arrivo trionfale del professor Monti.
Ben poco è rimasto di quel trionfo "preventivo": non è servito il "Cresci Italia"; non la riforma lacrime e sangue delle pensioni; non la riforma del lavoro che fa a pezzi l'unica garanzia antidiscriminatoria dei lavoratori, l'articolo 18; non la spending review. E così, otto mesi dopo, ci ritroviamo esattamente al punto di partenza. Anzi, peggio di prima, perché nel frattempo la disoccupazione è aumentata, il rapporto debito/pil è balzato al 123% (secondo solo a quello della Grecia), l'economia è in caduta libera. E non si vede proprio come le cose potrebbero cominciare a girare in un modo diverso.
Ma per Monti, se lo spread continua inesorabilmente a salire, la colpa non è delle sue politiche recessive che, in tandem con quelle imposte alla Grecia e alla Spagna, stanno creando le condizioni per la fine dell'euro. La colpa è sempre di qualcun altro (chi vi ricorda?): una volta della "instabilità politica italiana" (leggi, i partiti della strana maggioranza troppo litigiosi); un'altra di Squinzi, il presidente di Confindustria che critica la politica del governo.
Questa volta, «la salita dello spread non dipende dall'Italia, ma dai dubbi sull'applicabilità dello scudo», sostiene il premier. Ma come? Non ci avevano detto a caratteri cubitali che al vertice europeo del 29 giugno la linea Monti era passata alla grande? Che Merkel era stata sconfitta? «La zona euro ne esce rafforzata»; «La soddisfazione per l'Italia è duplice» esultava il premier. Scherzava? Quasi un mese dopo, scopriamo che era tutta aria fritta e, a quanto pare, lo ha scoperto pure Monti.
Il quale, però, anziché ammettere che quella roba non è la terapia giusta, resta fermo sulla sua posizione chiedendo di varare subito lo scudo anti-spread. E non si capisce nemmeno bene con quale convinzione, visto il pasticcio di ieri: ad un certo punto del pomeriggio si era diffusa la notizia di un appello congiunto di Spagna, Francia e Italia affinché si desse subito attuazione alle decisioni prese nel vertice di fine giugno. Salvo poi scoprire che si era trattato di un'iniziativa autonoma di Madrid subito sconfessata da Roma e Parigi.
Da Monti, invece, silenzio sulle cose più ovvie da fare - e sulle quali il premier dovrebbe mettere tutte le proprie energie - cioè quella di permettere alla Banca centrale europea di stampare moneta e acquistare i titoli statali e quella di vietare l'acquisto di titoli allo scoperto da parte degli investitori privati: allora sì che la speculazione non troverebbe più pane per i suoi denti. Ma poi chi glielo dice ai signori (e cari amici) della finanza?
Ovviamente, sul banco degli imputati, nella visione di Monti (e del suo principale sponsor al Colle) ci sono sempre le «incertezze del quadro politico» italiano. Ed è per questo che con Napolitano il premier sta prendendo in seria considerazione l'ipotesi di elezioni anticipate (visto che in Europa non si muove paglia e Pd, Pdl e Udc hanno sempre più difficoltà ad appoggiare misure antipopolari che non sortiscono alcun effetto). Ma in un quadro ben preciso: e cioè quello di una crisi pilotata, il cui scopo dovrebbe essere quello, manco a dirlo, di dare in fretta ai mercati un "segnale di stabilità". Tradotto: l'ideale sarebbe un Monti bis, questa volta con un esecutivo tutto politico e investito di pieno mandato popolare.
Siccome però le crisi si sa come si aprono ma nessuno sa mai come si chiudono, da Napolitano arriva il pressing a cambiare prima la legge elettorale. Il presidente della Repubblica chiede una nuova legge non solo perché il Porcellum si è dimostrato un disastro, ma soprattutto perché occorre creare le condizioni per favorire un eventuale governo di grande coalizione. Non a caso, l'accordo tra A, B e C - al di là dei particolari ancora da definire e su cui la sintesi ancora non c'è - si orienta su un sistema di voto che salvi il bipolarismo, ma all'occorrenza non chiuda la porta ad un governo di larghe intese: sbarramento al 5 per cento, premio di maggioranza al 10/15 per cento. Perché, bellezza, i mercati chiedono stabilità e vogliono sapere in anticipo chi vincerà le elezioni. Poi lo spread continuerà a salire e l'economia ad andare a rotoli, ma avremo un governo molto stimato in Europa: vuoi mettere?

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