lunedì 27 agosto 2012

Ci vorrebbe una nuova Internazionale di Alberto Burgio, Il Manifesto

Per affrontare la guerra scatenata dal capitale per affermare il suo dominio sul lavoro è necessaria una forza che agisca su un piano globale, come fu la prima Internazionale. Concentriamoci su questo
Proviamo a guardare la crisi da lontano, come facciamo con i quadri di grandi dimensioni. Se ci sottraiamo per un momento all’incessante bombardamento di cifre (spread e indici di borsa, rendimento dei titoli pubblici e tassi d’interesse, debiti, deficit e percentuali di caduta del pil) che cosa vediamo?
Questi, dopo cinque anni di crisi, sembrano i principali effetti macroeconomici e sociali. 
In primo luogo, la caduta dei redditi da lavoro (salari, stipendi, pensioni) anche in conseguenza dei tagli del welfare e dell’aumento dei prezzi e della pressione fiscale. In Italia il fenomeno è esasperato dal record di evasione ed elusione fiscale (una scelta politica, non un accidente). In maggio l’Istat ha calcolato che dal 2007 i redditi delle famiglie sono diminuiti del 7%. 
In secondo luogo, l’esplosione dei debiti pubblici (detti «sovrani» con velenosa ironia, visto che la sovranità è volata altrove), provocata dalla socializzazione delle perdite private (il salvataggio di banche d’affari e imprese decotte). Dal 2008 a oggi, tra i 15 mila e i 20 mila miliardi di dollari (garanzie pubbliche comprese) sono stati mobilitati per far fronte ai disastri causati dalle banche. Seguono a cascata (per effetto della recessione, dei tagli alla spesa e delle cosiddette politiche anti-crisi) la moria delle imprese, la caduta dell’occupazione nel settore privato e nel pubblico impiego, l’adozione di misure che rendono ancora più facili i licenziamenti.
Tutto qui? Certo che no. Dall’altra parte della medaglia, la crisi determina la continua crescita della bolla speculativa. Oggi molte banche europee contraggono debiti per oltre il 4000% del proprio patrimonio, come se nel 2007-8 non fosse successo niente a causa della crisi dei mutui e dei derivati. Determina un’inedita concentrazione della ricchezza nelle mani dei grandi detentori di capitale (banche e fondi), proprietari del debito e beneficiari delle decisioni dei governi. Come ricordava qualche giorno fa Sarah Jaffe sul manifesto, l’ultimo rapporto del Tax justice network stima in oltre un terzo della ricchezza finanziaria privata il patrimonio posseduto dallo 0,01% della popolazione mondiale. La crisi determina quindi un aumento esponenziale delle disuguaglianze all’interno dei Paesi e tra loro. Anche nell’ambito dell’Unione europea si accresce la distanza tra i Paesi forti e «virtuosi» e i reprobi della periferia mediterranea. Una distanza che si traduce in potere decisionale, come mostra nel modo più limpido il rapporto di forze tra Germania e Grecia.
La crisi, insomma, è cattiva con alcuni e molto generosa con altri. Che cosa emerge, infatti, da questo quadro sommario, che omette qualsiasi accenno alle responsabilità pregresse di governi e imprenditori che nei decenni scorsi hanno posto le premesse per l’attuale disastro? Emerge che a causa della crisi moltissimi perdono molto: le classi lavoratrici (con un vistoso processo di proletarizzazione del ceto medio). Mentre pochi guadagnano moltissimo. Quello che chiamiamo «crisi» è in realtà un gigantesco processo di redistribuzione (verso l’alto) della ricchezza (e del potere politico). In linea col trentennio neoliberista, ma con un salto di quantità e di qualità. Le politiche deflazionistiche che stanno precipitando il mondo nella depressione non sono frutto di abbagli o di stupidità (benché siano indubbiamente distruttive). Sono pratiche di recupero-crediti a beneficio dell’oligarchia finanziaria. Non deve stupire che in cinque anni il volume di denaro amministrato dalle prime cinquanta banche private sia più che raddoppiato.
Ma tutto questo, «naturalmente», viene nascosto all’opinione pubblica. Passa rigorosamente sotto silenzio. Il discorso sul debito pubblico è paradigmatico. Televisioni e giornali non si stancano di diffondere un’immagine se vogliamo edificante, derivando l’entità dell’indebitamento pro capite dal rapporto tra debito e popolazione. Come se il debito fosse posseduto da qualche marziano o da dio in persona, e non da una pur piccola parte della popolazione stessa. Circa il 70% del debito del nostro paese è di proprietà di fondi, banche e imprese italiani, oltre che di privati possidenti. I «sacrifici» li fanno gli altri e sono costretti a farli a loro vantaggio.
Che cosa dovrebbe dire una stampa indipendente in un paese democratico? Dovrebbe spiegare che i paesi si sono indebitati perché hanno usato il denaro pubblico per salvare i privati, perché favoriscono l’evasione fiscale e l’esportazione di capitali nei paradisi fiscali, perché i governi si rifiutano – coerentemente – di socializzare profitti e rendite nazionalizzando le banche e imponendo imposte sui patrimoni e tetti ai redditi alti. Dovrebbe spiegare, innanzi tutto, che cosa significa «debito pubblico». Che non è un concetto economico, ma politico, poiché il debito nasce quando un governo decide di finanziare la spesa chiedendo soldi in prestito ai privati. Non ci sarebbe debito se un governo decidesse di finanziarsi prelevando la ricchezza privata per mezzo del fisco.
Ma «naturalmente» su tutto questo si tace (e per stare sicuri si piazza una banchiera alla presidenza della Rai). Del resto è noto che la verità è la prima vittima di una guerra, e questa è una guerra. L’attuale presidente del Consiglio ama rivolgere al popolo messaggi churchilliani e ciclicamente parla di guerra. La crisi è una guerra. L’Italia ha intrapreso «un durissimo percorso di guerra». E il governo, bontà sua, avrebbe in animo di combattere una guerra spietata contro gli evasori. Peccato che la guerra vera la stiano conducendo lui e il suo governo contro chi in questo paese non è in condizione di difendersi e perde reddito e lavoro. Come ha detto qualche mese fa Paul Krugman, quella in atto è una «guerra sociale scatenata dai super-ricchi che pretendono di essere esentati dal contratto sociale».
Qualunque cosa sia questo presunto contratto, l’idea è fondata. La guerra sociale si traduce in milioni di disoccupati e di nuovi poveri, un esercito che si moltiplica per garantire benefici all’oligarchia autoctona e globale. E non varrà liberarsi di Monti (ammesso che ci si riesca), data la natura strutturale degli interventi, a cominciare dal fiscal compact. La responsabilità di chi lo ha imposto (Napolitano) e lo sostiene (il Pd) è enorme, anche perché scientemente assunta. In un’interessante intervista rilasciata da Massimo D’Alema al Corriere della sera il I luglio scorso Monti è definito «una personalità liberale capace di mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti». È per questa sua virtù che il Pd lo sostiene? Lo Stato è buono se paga i soliti noti, e cattivo se tenta di imporre un minimo di giustizia sociale?
«Guerra», si badi, non è una metafora. In passato si combatteva a suon di bombe per colonizzare altri paesi. Oggi per commissariarli bastano troike e agenzie di rating. E governi zelanti. Solo che si tratta di una guerra di nuovo tipo, senza visibile spargimento di sangue. Si tratta della prima guerra capitalista in senso proprio, se è vero che il capitale aspira a comandare ricorrendo alla pura coazione economica. Il suo sogno è governare per mezzo del solo mercato. Il resto è arcaico. Buono per le «razze inferiori». Che infatti continuano a crepare sotto le bombe, come in Africa, in Medio oriente o in Asia centrale. O sotto le raffiche della polizia, come è capitato agli schiavi della miniera inglese di Marikana.
Ma perché è finalmente possibile questa nuova guerra, veramente fredda? Perché esistono finalmente le condizioni sistemiche per combatterla: la possibilità di delocalizzare ovunque le produzioni alla ricerca di condizioni più favorevoli per il capitale industriale; e la possibilità di spostare in tempo reale masse gigantesche di capitale finanziario, decidendo dei tassi d’interesse e di rendimento su tutti i mercati. Oggi il pianeta è unificato sotto il dominio del capitale. Questo non significa che non sussistano, al tempo stesso, fattori di crisi strutturale. La guerra contro i corpi sociali consegue alla caduta del saggio di profitto e a sua volta la riproduce, radicalizzandola. Ma finché la sovranità sarà esercitata dal capitale, ci troveremo a vivere in quest’incubo.
Qui viene fuori, per noi, la morale di tutta questa storia. La crisi è una guerra che il capitale scatena per consolidare il proprio dominio sui popoli e in particolare sul lavoro vivo. C’è una sola strada per combatterla sulla trincea contrapposta, una strada non nuova poiché, a ben guardare, non vi è nulla di inedito in questa vicenda, esito del processo di modernizzazione in corso dalla metà dell’Ottocento: creare un contropotere altrettanto globale, seguendo l’intuizione che il movimento operaio ebbe allora, quando diede vita alla prima Internazionale. Non è facile, e non soltanto per deficit soggettivi. Mentre la concorrenza tra i capitali ne favorisce la centralizzazione, quella, eteronoma, tra i diversi segmenti della classe operaia ostacola l’unità del lavoro. Resta la necessità. La sinistra anticapitalista dovrebbe quindi investire ogni sforzo per costruire la propria unità politica sul piano transnazionale, a cominciare dal livello europeo e, qui, dai paesi più esposti agli attacchi del potere finanziario. Il fatto che, purtroppo, i suoi gruppi dirigenti siano in tutt’altre faccende affaccendati è anch’esso un effetto della crisi. E una sua concausa.

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