lunedì 24 settembre 2012

Cosa facciamo, con la Fiat che se ne va? di Claudio Conti, www.contropiano.org

Fiat se ne va dall'Italia, ma farà il favore  al governo e alle imprese di questo paese - di terremotare ancora un poco le relazioni industriali tramite il "tavolo sulla produttività".

E' quanto abbiamo scritto subito, a caldo, alla fine dell'incontro. E vediamo che anche i commentatori migliori - quelli che conoscono l'industria automobilistica e le regole del mercato, ma non obbediscono a Confindustria - hanno demolito l'incontro di sabato almeno quanto agli effetti produttivi. "Sotto le parole, niente", perché non solo Marchionne non ha neppure accennato a investimento, ma ha seminato fumo su tutti gli argomenti chiave. E il governo ha acconsentito, prendendo per buone le parole ("mi fido", avrebbe detto Mario Monti secondo i giornalisti-retroscenisti) e accordandosi per portare l'esempio Fiat al tavolo della produttività come minaccia per tutti: "se non ci dare l'aumento dell'orario e la cancellazione del contratto nazionale le imprese lasciano il paese".
Giunge ora a maturazione completa, in un paese ridicolo, una conseguenza della globalizzazione che altrove (Usa, Germania, Francia, Olanda, ecc) è stata tamponata decisamente meglio: la produzione può essere effettuata ovunque nel mondo, e la vendita altrettanto. I parametri di costo che diventano decisivi sono allora: gli incentivi statali (là dove sono ancora possibili) e la loro dimensione, il costo del lavoro, l'assenza di diritti sindacali, l'orario di lavoro. Tutto il resto (prezzo delle materie prime e dei semilavorati, costo di trasporto, energia, ecc) ha un prezzo internazionale uguale per tutti. Sulla stessa merce, dunque, gli elementi suscettibili di "concorrenza" sono soltanto i primi. Addirittura lapalissiano, quindi, che venga chiesto ovunque di "flessibilizzarli" verso il basso. L'Europa liberista ha proibito gli "aiuti di stato", cancellando quindi un elemento "politico" di sostegno alla produzione in una determinata area.
L'alternativa posta al lavoro dipendente è dunque secca: asservimento totale all'impresa o assenza di lavoro. Poiché lo Stato viene contemporaneamente ammanettato sul piano della politica industriale e del welfare, chi non trova un'occupazione a una qualsiasi livello di salario è automaticamente a rischio vita.
Il caso Fiat diventa così il paradigma di una condizione globale; e in tal senso "la crisi" aziendale viene usata come un'opportunità reazionaria. Contemporaneamente, tutta la vecchia impostazione sindacale - già ridotta sulla difensiva dalla lunga fase di stagnazione e recessione - diventa completamente obsoleta, fuori sincrono, ingestibile.
Sul piano strettamente industriale, infatti, quel che Marchionne dice non ha letteralmente senso. Se Fiat "credesse" nella rispresa del mercato da qui a due anni investirebbe ora per arrivare puntuale all'appuntamento. C'è un elemento di rischio? Beh, il capitale è per definizione "di rischio". A fare i capitalisti come la Fiat fa a Pernambuco, in Brasile - dove lo stato ha messo l'85% del capitale necessario ad aprire l'impianto, concedendo anche cinque anni di fisco zero; o come in Serbia, dove tutto (investimento, salari, ecc) è stato messo dal governo locale - siamo in effetti capaci tutti.
Quindi lo scambio tra Usa e Italia, al tempo dell'eccordo sponsorizzato da Obama, è stato relativamente semplice: tecnologie italiane (risparmio energetico) in cambio di soldi per gli azionisti; ovvero in primo luogo per la famelica famiglia Agnelli, desiderosa da tempo di liberarsi della fastidiosa incombenza della produzione reale. Specie in Europa, dove la concorrenza è diventata insostenibile soprattutto a causa dell'assenza di nuovi modelli Fiat (un'altra conseguenza della scelta sciagurata di "non investire in un mercato in crisi"), mentre tutti i grandi gruppi ne hanno sfornati a decine.
Ma c'è anche un altro elemento sistemico che va messo a tema. Il modello di sviluppo centrato sull'automobile (come per gli elettrodomestici) è arrivato al punto zero. tranne che in alcuni mercati emergenti, il mercato automobilistico è un mercato di sostituzione. Non è più pensabile di costruire quantità crescenti di veicoli, all'infinito. Ma, al contrario, lo sviluppo tecnologico consente di produrre molti più esemplari in una minore quantità di tempo (e di impiego di forza lavoro). In regime capitalistico si palesa così un limite insuperabile che si introverte in concorrenza spietata tra i produttori: o si rassegnano a produrre tutti di meno, o accelerano la concorrenza e se ne eliminano molti. La seconda strada è quella "naturale", per il capitale. QUindi la Fiat si avvia a chiudere, scomparendo dentro Chrysler e abbandonando il mercato europeo, dove - non sfornando nuovi modelli - non ha letteralmente più nulla da offrire.
L'impresa è dunque libera di volare via. Ma la gente, la popolazione, operaia e non, resta qui. E' accettabile restare passivi di frnte a questa fuga che si traduce in povertà crescente per tutti? E se, com'è ovvio, non è accettabile, cosa facciamo?
Uscendo dalla logica retrò della disperata "difesa" dello statu quo ante, bisogna ormai mettere in campo pratiche e proposte di "pubblicizzazione" degli impianti che vengono abbandonati dal capitale. E' possibile infatti che per alcuni stabilimenti e alcuni settori merceologici ci sia un "subentro" da parte di imprese straniere, ma questo riguarderà comunque una percentuale minima dei siti produttivi. Quindi è ora di passare - trovando le forme e "i bisogni" sociali da soddisfare - dall'occupazione degli impianti in via di chiusura alla loro riattivazione. Non è uno slogan, deve diventare un programma...

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