lunedì 24 settembre 2012

Il timbro «liberal» non assolve la politica di guido Rossi, Il Sole 24 Ore

La confusione della politica e il conseguente smarrimento dei cittadini, che sovente provoca attrazioni verso il populismo o verso derive sociali, sono in questo periodo al centro della crisi e della inefficienza dei governi incapaci di risolverla. La prossimità di competizioni elettorali riempie i media di dichiarazioni scomposte e spesso contraddittorie, mentre rimangono sullo sfondo i maggiori mali delle democrazie, che non paiono trovare se non rimedi sempre più lontani nel tempo.

Due fenomeni sembrano sovrastanti. Il primo è la corruzione dilagante della classe politica, invero in Italia più tragicamente esplosiva che altrove, anche se neppure gli Stati Uniti d’America ne paiono immuni, al punto da far intitolare a Lawrence Lessig il suo ultimo libro sul tema «Republic Lost», la Repubblica perduta. Il secondo è la mancanza totale di veri programmi da parte di tutte le élite politiche, appiattite nell’attesa dei diktat dei veri detentori del potere della finanza globalizzata ai quali riconoscono l’unica esistente sovranità.
Le scelte elettorali a cui saranno chiamati i cittadini se non si provvede velocemente, per quanto riguarda il nostro Paese, a un cambiamento della legge elettorale svolgeranno solo in parte la loro funzione di selezione di una élite. Alle attuali condizioni la politica conta sempre meno per l’amministrazione del lo Stato e per il benessere del la popolazione, sia perché eterodiretta dai poteri globali della finanza, sia perché profondamente corrotta e ben lungi dal voler attuare le speranze che si pensava essere proprie della democrazia, cioè il conseguimento di una maggiore uguaglianza di condizioni dei cittadini, che rimane solo all’orizzonte, in prospettive escatologiche di nessuna attualità.
Sopraffatte da un’ideologia contabile, le leggi del mercato rimangono ovunque decisamente sovraordinate alle regole dello Stato di diritto e della democrazia costituzionale. Serpeggiano tuttavia, fra maldestre ricette e ripetitivi discorsi mistificatori, autocelebrazioni da parte delle élite politiche.
Elite politiche che, per ripulirsi moralmente e ottenere consensi, dichiarano tutte di ritenersi a pieno titolo “liberali”, anche quando invocano come sola libertà quella dei mercati senza regole. Il denaro come sinonimo unico di libertà elegge a sua regola l’ordine dell’egoismo, ma provoca il fallimento del capitalismo e l’esplodere ormai quasi incontenibile delle disuguaglianze.
Ed è così che in tutto questo sfarfallamento di opinioni, per ignoranza o interesse, si dimenticano volutamente gli insegnamenti della storia.
Si propongono allora insensate ricette economiche, considerate liberali, come quella appena recentemente sbandierata della privatizzazione delle imprese pubbliche come soluzione a tutti i nostri problemi. I riferimenti a privatizzazioni già avvenute in Italia da parte di governi di ogni colore sono inutili; come è ben noto gli effetti sono stati disastrosi, sia perché hanno distrutto conoscenze e capacità industriali esistenti, sia perché sono servite esclusivamente ad arricchire improvvisati capitani coraggiosi in mancanza di un mercato finanziario efficiente.
Ma il problema non è solo nostrano. Basterebbe, infatti, leggere l’impegnativo articolo sull’ultimo numero della London Review of Books dal titolo “Come accadde che abbiamo venduto la nostra elettricità” di James Meek, il quale sottolinea che, sulla base di principi fintamente liberali dettati nel programma nazionalista di Margaret Thatcher, tutta la produzione di elettricità in Gran Bretagna è oggi nelle mani di società pubbliche francesi come l’EDF, piuttosto che le tedesche E.ON e RWE, le spagnole Iberdrola, o le americane, controllate da Warren Buffet o JPMorgan. E anche allora il credo governativo fu dettato da dichiarazioni che si basavano sul principio che milioni di inglesi avrebbero comprato le azioni delle industrie pubbliche salvando il bilancio dello Stato; le privatizzazioni avrebbero “ridato il potere al popolo” e liberato le imprese inglesi nella libera concorrenza sui mercati aperti in Europa.
Si possono poi aggiungere i risultati economico politici delle privatizzazioni nel Cile di Pinochet, incoraggiato dal noto teorico liberista Milton Friedman. Ricorda ancora l’articolo che nel programma politico di Hitler le privatizzazioni facilitarono l’accumulazione di fortune private e imperi industriali dei suoi più fedeli adepti e collaboratori, innescando quelle tragiche e sinistre forme di corruzione tra politica ed economia del regime nazista. Ma queste sono solo le spregiudicate ricadute liberiste di sistemi che nulla hanno a che fare con il liberalismo. Altrettanto nulla hanno a che fare le libertà delle imprese di dislocarsi, secondo sconcertanti dichiarazioni, in Paesi come il Brasile, dove le loro capacità concorrenziali globali sono alimentate dagli aiuti di Stato, cioè da stimoli anticoncorrenziali.
A questo punto varrebbe anche la pena di rileggere il famoso saggio di John Maynard Keynes “Am I a liberal?” del 1925 […], [nel quale precisava] con tuttora amara attualità, che: “la transizione dall’anarchia economica a un regime che mira deliberatamente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale presenterà difficoltà enormi, sia tecniche sia politiche. Ritengo tuttavia che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel tentare di risolverle”.
È un dovere delle attuali élite politiche italiane, se non vogliono che il populismo o il disprezzo della politica diventino l’unico stato d’animo popolare, preparare urgentemente programmi che finalmente abbiano al centro la giustizia sociale, che significa poi anche la vera lotta alla corruzione, e la difesa dei diritti umani, storicamente maturati e ben individuati dalla nostra Costituzione. Diritti storici delle libertà civili, delle libertà politiche, e il diritto alla salute; i diritti sociali, che Norberto Bobbio chiamò di seconda generazione, il diritto al lavoro, all’istruzione, all’assistenza e poi ancora quelli di terza generazione, cioè i diritti alla solidarietà, allo sviluppo, all’ambiente protetto, alla qualità della vita, alla libertà dell’informazione.
Un programma che incentivi e garantisca la difesa di questi diritti, con la vigilanza dei cittadini – finora estromessi dalla partecipazione alla vita politica, affidata a capi più o meno carismatici – riuscirebbe finalmente a ridare alle scelte elettorali il ruolo centrale nella democrazia che loro compete.

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua