mercoledì 24 ottobre 2012

Chi paga la crisi italiana di Alberto Burgio, Il Manifesto

La spirale infernale è sempre più evidente, nonostante gli sforzi per nasconderla. Ora persino il Fmi ammette che le politiche di rigore impoveriscono le società e alimentano la crisi che dovrebbero risolvere. L'Italia è un paradigma di questo stato di cose. Negli ultimi due anni sono state varate manovre correttive (contenere la spesa e aumentare le entrate), pari a circa 130 miliardi. L'ultima di questi giorni, odiosa perché colpisce chi soffre (un altro miliardo e mezzo alla sanità, al netto della riduzione di oltre due dei trasferimenti agli enti locali), i giovani (un altro miliardo di tagli alla scuola pubblica) e, come sempre, il lavoro dipendente.

In particolare gli impiegati pubblici, che di qui al 2014 ci rimetteranno qualcosa come 7.000 euro a testa, senza considerare gli effetti dell'aumento dell'Iva. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, o quasi. Nell'ultimo anno il potere d'acquisto delle famiglie italiane si è ridotto di un altro 4,1% e i poveri sono aumentati del 15%. I consumi hanno registrato un calo del 4,5% e, mentre il 68% degli italiani dichiara di avere ridotto la spesa per l'alimentazione, il tasso di disoccupazione viaggia a gonfie vele verso l'11%. Se si dicesse la verità, si dovrebbe ammettere che i discorsi sull'imminente ripresa sono pure e semplici prese in giro, e ricordare che le previsioni per il 2013 oscillano tra -1% (Morgan Stanley) e -2,2% (Citigroup). Ma naturalmente di questo la propaganda di regime non parla, preferendo puntellare la periclitante immagine dell'ultimo (ad oggi) Uomo della Provvidenza.

Perché le cose procedano in questo modo non è un mistero. Questa crisi è un gigantesco affare per chi di affari nell'ultimo trentennio ne ha già fatti molti, lucrando sulla deregulation neoliberista e sulla privatizzazione post-democratica delle economie e delle istituzioni. Non è soltanto la fiera della speculazione finanziaria, è anche l'occasione per generalizzare il modello americano facendo piazza pulita degli ultimi diritti del lavoro, come insegnano la vicenda dell'art. 18 (e dell'art. 8), la vergogna degli «esodati» e l'ennesimo colpo inferto alle pensioni, con annesso piagnisteo della signora ministra. Siamo, insomma, a un passaggio-chiave della «grande trasformazione» post-bipolare che incardina la «fine della storia». Anche se non è chiaro dove si andrà a finire di questo passo, posto che siamo già al fondo del barile e che non è dato intravedere alcuna inversione di tendenza.

Ma se è abbastanza evidente chi ci guadagna e chi invece ci sta lasciando le penne, forse vale la pena di soffermarsi sugli argomenti con i quali la stampa di regime (la quasi totalità dei mezzi di informazione, a cominciare dal cosiddetto servizio pubblico radiotelevisivo) giustifica quest'andazzo, impedendo di fatto il formarsi di un'opinione pubblica consapevole di quanto accade e dei rischi che il paese corre. Gli argomenti, o piuttosto l'argomento. Perché, a ben vedere, si tratta, ancora una volta, della riedizione (l'ennesima) della tradizionale saga del privato contrapposto al pubblico. Dove, riformulando il celebre adagio mandevilliano, la scelta è tra i vizi pubblici e le private virtù.

La vergogna quotidiana degli scandali che coinvolgono parlamentari e consiglieri regionali corrotti o collusi sembra accreditare l'equazione tra politica e malaffare. Passare da qui alla grande narrazione sugli sprechi e le inefficienze delle pubbliche amministrazioni è un gioco da ragazzi. Così come accusare chi lavora nel pubblico di scarsa produttività, secondo la brillante teoria dell'ex-ministro per la Pubblica amministrazione fatta propria, in questi giorni, dal ministro dell'Istruzione e dell'Università. Corsi e ricorsi, vien fatto di dire. A vent'anni di distanza (questo è il paese dei ventenni e della memoria corta), ci ritroviamo alla casella di partenza, con una nuova orgia di corruttela e nuovi arringanti imprenditori dell'antipolitica. Come se Mani pulite non ci fosse mai stata, e politici e amministratori non venissero eletti dalla «società civile», che puntualmente si autoassolve in blocco.

Ma la madre di tutte le argomentazioni rigoriste è quella che, puntualmente, chiama in causa il debito pubblico, «colpa collettiva» che i pretoriani del risanamento rinfacciano a chiunque si permetta di fare osservare che la cura Monti (e Draghi) sta uccidendo il malato. Che cosa può pretendere un paese che «ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità»? Che diritto ha un popolo di cicale di lamentarsi, o anche solo di sorprendersi, se, come in tutti i buoni apologhi, i nodi sono finalmente venuti al pettine e chi ha goduto sconsideratamente è chiamato a rispondere della propria imprevidenza? Poco o nulla, naturalmente, rileva che, lungi dal contribuire a ridurre l'indebitamento, il «rigore» contribuisca ad accrescerlo, deprimendo l'economia reale e riducendo di conseguenza il gettito fiscale. L'importante è agitare un argomento moralistico in apparenza incontrovertibile. E dotato di una forte valenza ricattatoria.
Ciò che dovrebbe essere facile osservare, è che tutti questi argomenti sono in larga misura infondati e capziosi. La corruzione della politica è innegabile, ma su quei 60 miliardi che la corruzione sottrae ogni anno all'economia sana del paese le responsabilità del privato (imprese e professionisti) pesano almeno quanto quelle di politici e pubblici amministratori. Senza contare le mafie (fatturato annuo superiore ai 187 miliardi), articolazione anch'esse - piaccia o meno - dell'economia privata. Quanto all'inefficienza del pubblico, si omette sistematicamente di considerare l'inadeguatezza delle risorse disponibili, mentre l'elogio del privato rimuove lo scandalo dei giganteschi trasferimenti di denaro pubblico alle imprese (per fare solo un esempio, la Fiat deve allo Stato - cioè a noi tutti - oltre metà della propria capitalizzazione) e, soprattutto, il tema delle responsabilità delle banche e delle finanziarie private all'origine di questa crisi. A proposito delle quali si finge di ignorare i comportamenti criminali tenuti ancora oggi dai dirigenti di molte banche europee (soprattutto tedesche e francesi, come ha ricordato Vladimiro Giacché), le cui attività ammontano a circa 43mila miliardi di euro, pari a decine di volte il loro capitale (e nientemeno che al 350% del Pil della Ue).

C'è poi - ma rimane misteriosamente a latere - la grande questione dell'evasione e dell'elusione fiscale: qualcosa come 290 miliardi di euro (il 20% del Pil) che l'efficientissimo e onestissimo privato imbosca ogni anno, sottraendoli al circuito della riproduzione legale. Cifre da record (l'Ocse informa che "meglio" di noi fanno soltanto Turchia e Messico), di cui però ci si dimentica quando si discetta sulle cause del dissesto della finanza pubblica. Come se non lo riguardasse il fatto che, per esempio, il 37% delle società di capitali si dice in perdita, e che meno della metà di esse presenta una dichiarazione dei redditi da cui risulti dovuto il versamento dell'Ires.

E così torniamo al debito pubblico. Che duemila miliardi di euro siano una montagna che rischia di schiacciare l'economia italiana, non si discute. Ma questa montagna di che pietra è fatta? Come hanno osservato di recente su queste pagine Luigi Cavallaro e Francesco Gesualdi (ma si vedano anche gli interventi disponibili sul sito www.umanista.info), quella del debito pubblico italiano è una storia molto istruttiva. Il fatto che esso si sia decuplicato tra il 1981 e il '95 (passando dal 58 al 121% del Pil) non consegue a un eccesso di spesa pubblica, bensì alla decisione (di governi e Banca d'Italia) di non impiegare la leva fiscale per finanziare politiche espansive e redistributive, e di usare invece il meccanismo dell'indebitamento per remunerare il capitale privato. L'esplosione del debito pubblico si deve all'aumento esponenziale della spesa per interessi, che, crescendo su se stessa (il Tesoro calcola che tra il 2011 e il 2015 la spesa per interessi passivi aumenterà di 27,3 miliardi, superando abbondantemente la soglia psicologica dei 100 miliardi), ha comportato in questi trent'anni un esborso di 2141 miliardi di euro, di gran lunga superiore all'ammontare dell'intero debito. Il che spiega perché in Italia si registri, a fronte di uno Stato super indebitato, il più basso indebitamento privato (pari al 42% del Pil, contro il 51% della Francia, il 63% della Germania e il 103% del Regno Unito).

Quale morale trarre da queste considerazioni? Si potrebbe dire, con Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, che la razza padrona imperversa e incassa alti dividendi. Solo che non si tratta di quella «borghesia di Stato» che loro intesero smascherare, bensì proprio degli eroi del «libero mercato», che dovrebbero incarnare, stando alla morale corrente, le virtù del coraggio e della rettitudine. Detto questo, un dilemma resta. Come mai non c'è nessuno nel centrosinistra che denunci tale stato di cose nel tentativo di impedire il gioco al massacro che si sta consumando sulla pelle delle classi subalterne di questo paese? È un dilemma vero e proprio, per risolvere il quale tre ipotesi si contendono la scena. Il centrosinistra è talmente subalterno all'ideologia neoliberale da non vedere? O il ceto politico è mosso da interessi particolari di autotutela, per cui vede ma non reagisce? Oppure, infine, lascia correre affinché la situazione diventi grave al punto di favorire una rivolta popolare, capace di travolgere questo marcio sistema? Chi legge valuterà quale ipotesi sia la più plausibile. Di certo il dilemma è serio e si dovrebbe cercare di risolverlo al più presto.

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