lunedì 22 ottobre 2012

LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA, ORA TOCCA ALL’ITALIA da http://tempesta-perfetta.blogspot.it



Che cosa è un’opera buffa? L’opera buffa è un genere teatrale che si diffuse prima in Italia e poi nel resto d’Europa a partire dal XVIII secolo, avendo come scopo principale quello di presentare storie semplici, commedie, personaggi di estrazione popolare, problemi più quotidiani e comuni in cui si poteva riconoscere la maggioranza del pubblico pagante e non solo i nobili e i monarchi. Come ho già detto altre volte l’Unione Europea, e l’eurozona in particolare, è diventata da tempo, da quando tutti i nodi sono venuti al pettine, un grande immenso palcoscenico a cielo aperto in cui a cadenza pressoché giornaliera si recita a soggetto. Un circo itinerante che da Bruxelles, Berlino, Francoforte, Parigi, Madrid, Roma, arriva fino ad Atene per poi ricominciare il giro, con gli attori più esilaranti e comici che impresario poteva mai sperare di ingaggiare: abbiamo Merkel la cattivona, Hollande l’ipocrita, Monti il viscido, Rajoy il furbo, Samaras il codardo, Draghi il subdolo. Se non fosse per i risvolti drammatici di tutta la faccenda, che coinvolge direttamente noi spettatori paganti sia in termini economici che umani, ci sarebbe di che sbellicarsi dalle risate ad ogni ora, ad ogni dichiarazione dei buffoni all’opera. Anche la morte di un uomo greco di 66 anni, deceduto durante le sommosse ad Atene e gli scontri con la polizia dei giorni scorsi, diventa subito un fatto grottesco ed inverosimile: le persone muoiono quasi sempre di infarto, perché essendo anziane e cagionevoli vengono travolte e spaventate da una folla di giovani inferociti e incappucciati. Mentre la circostanza che queste persone possano essere state spintonate, percosse, manganellate dalla polizia prima di cadere esanimi sul campo, non viene mai presa in considerazione. No, questo non è previsto dal copione.

Nel primo atto dell’interminabile commedia europea avevamo descritto lo scricchiolio del ramo sul quale è seduta la Germania, che i suoi governanti si stanno impegnando a segare con una solerzia che ha dell’incredibile e del paradossale: ogni imposizione di austerità e rigore fiscale in più nei paesi della periferia, significa una proporzionale quantità di merci che la Germania non esporta più in quei paesi, affossando di fatto la sua stessa economia. Tuttavia siccome i tedeschi non capiscono questa semplice relazione contabile e nella prossima primavera ci saranno le elezioni, la cancelliera Merkel per tenersi buono l’elettorato deve mostrare buon viso a cattivo gioco, facendo la voce grossa al Bundestag contro i paesi spendaccioni e poi cercando accordi sottobanco con gli altri buffoni suoi pari per limitare i danni e tenere in piedi baracca e burattini. Nel secondo atto invece avevamo assistito alla miserevole disfatta della Spagna, che dopo Irlanda, Portogallo, Grecia era puntualmente caduta come un birillo, mostrando al mondo intero in tutta la sua grandezza il fallimento del suo sistema bancario e l’insostenibile leggerezza dei conti pubblici, che un tempo erano tra i più virtuosi della terra e oggi sono stati sventrati appunto per fornire salvataggi di emergenza alle banche. Nel terzo atto che raccontiamo oggi la trama è molto più semplice e dozzinale, perché si articola tutta intorno ad un motto di spirito abbastanza noto ai mercanti: “Prima vedere cammello, poi pagare moneta!”. Con un colpo di scena finale ad effetto, in cui si scoprirà chi e cosa è esattamente il “cammello” in questione.  

Come tutte le commedie dell’arte che si rispettano, anche il terzo atto della nostra opera buffa si apre con un antefatto a sorpresa. Mercoledì scorso, il giorno prima del vertice di Bruxelles, il presidente francese Hollande, l’ultimo buffone sceso nell’arena, colui che doveva portare la crescita in Europa (dei capelli forse, non certo dell’economia) e combattere aspramente contro il Fiscal Compact (stiamo ancora aspettando), rilascia un’intervista a giornali unificati a sei delle maggiori testate europee, tra cui l’italiana La Stampa, in cui dichiara senza troppe reticenze ciò che vuole ottenere l’indomani: l’unione bancaria deve venire prima dell’unione fiscale. Ben detto, così si fa, ma cosa significa esattamente? Per capirlo dobbiamo chiarirci subito sui termini: quando i buffoni parlano di “unione” non si riferiscono mai al concetto di unità, solidarietà, sussidiarietà, assistenza reciproca che potremmo intendere noi, qualcosa del tipo “l’unione fa la forza” o “tutti per uno, uno per tutti” dei Tre Moschettieri di Dumas. Per i buffoni la parola unione è sinonimo di “accentramento unificato del sistema di vigilanza, controllo e repressione”, e nello specifico l’unione bancaria auspicata da Hollande doveva essere propedeutica ad un ben determinato scopo: attivare il Meccanismo Europeo di Stabilità MES per ricapitalizzare direttamente le banche più disastrate (spagnole in particolare), senza passare per i bilanci dei vari stati, che già sono belli che cotti. In pratica, l’accordo di massima del MES prevede che prima di ricorrere al fondo e per garantire una maggiore uniformità e regolarità dei salvataggi bancari, la BCE diventi l’ente unico di vigilanza, spodestando da questo ruolo le banche centrali nazionali (per l’Italia, Banca d’Italia). In effetti le norme di vigilanza bancaria sono già uniche a livello mondiale (Accordi di Basilea) e in Europa riadattate principalmente dall’EBA (European Banking Authority), ma è altrettanto vero che poi ogni banca centrale nazionale adotta metodi più o meno stringenti di controllo secondo propri criteri di affiliazione e contiguità con le maggiori banche private locali.

Ma perché Hollande ha tutta questa fretta di attivare il MES per il salvataggio diretto delle banche? Cosa c’entra questo con la ripresa economica in Europa? Niente. Assolutamente niente. Essendo un semplice menestrello di corte, portato di peso all’Eliseo per difendere interessi distanti anni luce da quelli dei cittadini, Hollande sta solamente suonando il suo mandolino: le banche francesi sono impazienti di riscuotere i crediti sospesi concessi a suo tempo alle banche spagnole, chiudendo le posizioni ancora aperte con i soldi del MES e rientrando dall’esposizione prima che sia troppo tardi. Non è una novità insomma, perché fin dall’inizio della crisi finanziaria dell’eurozona, l’unico vero obiettivo dei politicanti e dei tecnocrati di turno è stato sempre e solo quello di assicurare un celere e puntuale rimborso dei crediti pubblici o privati erogati dai grandi gruppi bancari coinvolti, di qualunque nazionalità o provenienza essi fossero. E Hollande, così come gli altri buffoni di corte, non fa certo eccezione a questa trama generale, che con diversi gradi di sfacciataggine e platealità si ripete ormai ininterrottamente da quattro anni. Ma da dove vengono i soldi del MES? Non certo dal cielo, ma dalle tasche dei cittadini europei, e la quota parte a carico dei cittadini francesi ammonta a ben €142 miliardi complessivi. Tenete bene a mente questa cifra, che ci servirà per fare un confronto con la ridicola proposta per la crescita economica fatta dall’ipocrita Hollande. Ricapitolando: l’intenzione di Hollande è quella di utilizzare i soldi dei cittadini francesi ed europei per salvare le banche spagnole, in modo che queste ultime possano rimborsare le banche francesi, che sono gli unici veri referenti a cui deve dar conto e ragione il buffone dell’Eliseo. Indirettamente si tratta quindi di un salvataggio pubblico delle banche francesi, che passa attraverso le banche spagnole.

Per dirla in altre parole, la parte interpretata da Hollande nella scenetta dei mercanti, perché sempre di questo stiamo parlando, è quella di colui che chiede di “pagare moneta”, subito, ora, cash, mentre dall’altra parte, la sua presunta rivale, la cattiva Merkel, si ostina a ripetere che prima di pagare moneta, attraverso il MES, bisogna “vedere cammello”. A quale “cammello” si riferisce la cancelliera? All’unione fiscale, che ripetiamo nel linguaggio degli eurocrati non significa un governo federale di trasferimento democraticamente eletto dai cittadini, che si occupi di stabilire a livello centrale le singole quote di spesa e tassazione per riallineare eventuali squilibri fra i paesi della stessa unione, ma la possibilità di nominare un super-commissario europeo che abbia il compito di verificare, validare, modificare i bilanci pubblici dei vari stati. Un’idea ovviamente in linea con la visione rigorista e austera di repressione della Germania, che priverebbe i governi della periferia delle residue sovranità politiche ed economiche rimaste: in pratica, nessuna istituzione in Spagna o in Italia, né il governo né il parlamento, potrebbe più decidere quante tasse fare pagare ai cittadini e quanta spesa pubblica utilizzare per fini sociali e assistenziali, senza l’approvazione del super-commissario, che lavorerebbe a stretto contatto con i funzionari della trojka UE, BCE, FMI. Una proposta bislacca, fin troppo bislacca per non essere in realtà una semplice provocazione, che serve evidentemente ad alzare la posta per riuscire ad ottenere altro. Ma cosa vuole in realtà la Merkel? Allungare i tempi di introduzione dell’unione bancaria di sorveglianza, per salvaguardare i soliti interessi delle banche tedesche, perché la Merkel non è meno mercatista e manovrata del collega Hollande, anzi. Semplicemente la cancelliera ha altri interessi nazionali da difendere e tutelare, prima delle prossime elezioni politiche di primavera, in cui sa di rischiare molto perché incalzata dai socialdemocratici.

Le banche tedesche sistemiche di grandi dimensioni, per intenderci Deutsche Bank, Commezbank, Allianz, hanno già ridotto la loro esposizione con le banche spagnole e il credito nei confronti della Spagna è confinato più che altro ai €177 miliardi di titoli di stato ancora in portafoglio. Quindi più che l’attivazione del MES per la ricapitalizzazione delle banche spagnole, per loro sarebbe interessante rendere operativa l’altra arma del MES, che è l’acquisto dei titoli di stato sul mercato secondario con il supporto tecnico della BCE e del suo programma OMT (Outright Monetary Transactions). La sorveglianza diretta e unificata della BCE è inoltre malvista da un’altra categoria molto potente in Germania che è quella delle banche regionali (Landesbanken) e delle casse di risparmio (Sparkasse), che intrattengono relazioni molto strette e opache con i politici locali e nazionali riguardo soprattutto i progetti di finanziamento delle opere pubbliche (e non solo visto che in Germania gestiscono il 40% dei finanziamenti alle imprese e il 50% dei crediti privati), sotto il complice e tacito assenso della banca centrale tedesca Bundesbank. Insomma i politici e i piccoli banchieri tedeschi se ne fregano altamente delle norme di vigilanza europee e fanno quello che vogliono con i loro istituti di credito, quindi non gradirebbero affatto l’intromissione della BCE, che anche solo di facciata e per evitare le accuse di disparità di trattamento dovrebbe essere più severa e imparziale nei loro confronti.

Quale compromesso è stato trovato fra i due contendenti Merkel e Hollande? Va bene l’unione bancaria o sarebbe meglio chiamarla la vigilanza centralizzata della BCE, ma con un programma di inclusione graduale e progressivo: a partire dal gennaio 2013 si partirà con il raggruppamento delle banche sistemiche più importanti, mentre da gennaio 2014 inizierà il lento adeguamento di tutte le rimanenti 6000 banche europee coinvolte, tra cui le stesse piccole e medie banche tedesche. Dopo questa finta schermaglia fra Hollande e Merkel, che piace tanto al pubblico pagante, il quale ha bisogno della sua buona dose di pathos e adrenalina giornaliera per essere anestetizzato a dovere e deve mantenere sempre l’impressione che in Europa ci sia effettivamente un accesso dibattito democratico in realtà inesistente, entrambi hanno ottenuto senza troppi sforzi i loro obiettivi iniziali: l’ipocrita francese salverà le sue grandi sistemiche (Credit Agricole, BNP Paribas, Société Générale), mentre la cattiva tedesca è riuscita a tenere buoni i politici e i banchieri locali in vista delle prossime elezioni. E fin qui abbiamo visto il grosso della riunione di Bruxelles, il vero motivo per cui è stato indetto il vertice ovvero gli interessi della grande finanza tedesca e francese, ma andiamo adesso alle trovate propagandistiche che secondo le intenzioni di questi pseudo-politicanti da quattro soldi dovrebbero servire a ridare slancio a tutta l’economia depressa dell’eurozona.

Partiamo dalla leggendaria Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie, che dovrebbe essere introdotta a partire da gennaio prossimo (il condizionale è d’obbligo visto che si parla invano di Tobin Tax dal 1972) e a cui hanno già aderito in prima battuta 11 paesi europei, tra cui la stessa Italia. A seconda della tipologia di strumento finanziario più o meno speculativo a cui sarà applicata, l’imposta di bollo potrà variare fra lo 0,05% e lo 0,1% del valore della transazione e i proventi saranno destinati ai progetti di sviluppo delle aree più disagiate dell’eurozona. Per carità si tratta di un primo passo ammirevole per mettere un freno alle compravendite speculative, ma pensare di regolamentare la finanza mettendo la Tobin Tax è come credere di combattere la mafia obbligando i clan a versare un obolo al giorno presso l’offertorio di una chiesa: soprattutto per le grandi società finanziarie che movimentano ingenti capitali l’effetto di deterrenza complessivo sarà irrilevante e non si esclude che gli intermediari mobiliari e i gestori di fondi possano poi recuperare gli esborsi pagati ai governi rivalendosi sui clienti e aumentando il costo dei servizi. Particolare poi la circostanza che la tassa non si applica sulle negoziazioni in titoli di stato e in strumenti derivati associati (vedi le obbligazioni strutturate o indicizzate o i CDS, Credit Default Swap), su cui si concentrano oggi i volumi maggiori e le conseguenze socialmente più dannose dell’attività speculativa degli operatori finanziari. “Stranamente”, anche quando indovinano uno degli strumenti giusti da utilizzare, i tecnocrati europei finiscono poi quasi sempre per sbagliare il bersaglio.

Fra l’altro, se esaminiamo il disegno di Legge di Stabilità presentato dal governo Monti (articolo 12, “Disposizioni in materia di entrate”, comma 20), ritroviamo quanto segue: “Sono esentate dall’imposta le operazioni che hanno come controparte l’Unione Europea, la Banca centrale europea, le banche centrali degli Stati membri della Unione Europea e le banche centrali e organismi che gestiscono anche le riserve ufficiali di altri Stati, nonché gli enti od organismi internazionali costituiti in base ad accordi internazionali (per esempio il MES) resi esecutivi in Italia”. Considerando che a causa dell’attuale congelamento degli scambi interbancari, il flusso più cospicuo di transazioni finanziarie a titolo definitivo o parziale avviene fra le banche centrali e le banche private, questa esenzione limita i possibili benefici dell’imposta, sempre nell’ottica di sfavorire i piccoli investitori e i traders indipendenti a vantaggio dei grandi gruppi che hanno accesso ai canali di rifinanziamento istituzionali. Dalle stime calcolate dai funzionari del governo Monti, la Tobin Tax dovrebbe portare alle casse dello stato un gettito annuale di €1 miliardo circa, provocando l’abbattimento in volume del 30% degli scambi nel mercato azionario e addirittura dell’80% nel comparto degli strumenti derivati. Ora, se con buona approssimazione per eccesso, immaginiamo di ricavare €1 miliardo di euro per ognuno degli 11 paesi membri firmatari dell’iniziativa, l’importo complessivo da destinare al rilancio dell’economia sarebbe di €11 miliardi: uno stimolo fiscale da 0,8% del PIL europeo, praticamente nulla, una goccia in un oceano.   

Sarà per questo che, prevedendo già il buco nell’acqua provocato dalla Tobin Tax, l’ipocrita Hollande insiste tanto sul Patto per la Crescita, che dovrebbe mobilitare €120 miliardi (10% del PIL europeo), ma evitando bene di spiegare il meccanismo per mezzo del quale la BEI (Banca Europea per gli Investimenti) erogherà questi finanziamenti: ci sono sul piatto solo €10 miliardi di capitale iniziale, mentre tutto il resto sarà raccolto a leva sul mercato finanziario emettendo dei project bonds, obbligazioni finalizzate allo scopo, che alla fine non sono nient’altro che prestiti agevolati alle imprese. In buona sostanza la proposta geniale di Hollande si riduce alla creazione di altri debiti, ovvero tutto ciò che le aziende non vogliono più contrarre in questo periodo di incertezza e di recessione. Molto più incisivo sarebbe stato invece un piano strutturale di detassazione straordinario per le aziende produttive operanti in territorio europeo, ma sappiamo bene che di questo i buffoni non parleranno mai, dato che le tasse servono a rimborsare i crediti dei loro committenti e mecenati della finanzaSe ricordiamo che solo con il MES verranno sottratti complessivamente a famiglie e aziende europee ben €700 miliardi, di cui appunto €142 miliardi solo in Francia, possiamo capire bene per quale motivo questi €120 miliardi di prestiti agevolati sono un contentino per le disperate pecore da tosare: uno schiaffo in faccia all’intelligenza di chi ancora pensava che l’arrivo di Hollande avrebbe smosso qualcosa in Europa, in termini di una stretta della linea del rigore e di un cambio di strategia in senso espansivo. Niente di tutto questo: il buffone francese di “sinistra” (viene da ridere solo a pensare che costui abbia una vaga vicinanza con la tradizionale idea storica di “sinistra”) è perfettamente allineato con i colleghi. Banche, finanza, grandi interessi, protezione dei privilegi delle oligarchie, massacro sociale del popolo, dei lavoratori, delle piccole e medie aziende, dei diritti democratici.

E arriviamo adesso alla Spagna, la malata terminale sotto osservazione. Il furbo Rajoy è stato piuttosto in disparte durante il vertice di Bruxelles, perché ormai ciò che doveva essere fatto per il suo paese è stato già deciso e decretato da un pezzo. La Spagna chiederà nelle prossime settimane un pacchetto di aiuti al MES per ricapitalizzare le banche fallite, per una somma complessiva che andrà dai €40 miliardi ai €100 miliardi e graverà tutta sui bilanci pubblici dello stato. Il tentativo di aggirare l’ostacolo per attivare direttamente il MES con l’introduzione anticipata dell’unione bancaria è andato a vuoto, ma a differenza degli altri salvataggi effettuati in Irlanda, Portogallo, Grecia, la Spagna ha goduto di un trattamento speciale e ha strappato la concessione di non dovere inasprire ulteriormente la pressione fiscale e i tagli alla spesa pubblica, mantenendo un vincolo molto alto di deficit di bilancio, intorno al 6%-7%, ben lontano dal pareggio di bilancio a cui si sono legati mani e piedi altri paesi, Italia in testa. I tassi di interesse sui titoli di stato si sono molto abbassati rispetto alle punte del 7% della scorsa estate, con uno spread di 377 punti base e un rendimento del 5,37%, ma l’effetto è solo momentaneo e l’agenzia di rating Moody’s ha tenuto a precisare nel suo ultimo comunicato che la decisione di non declassare ulteriormente il debito pubblico spagnolo è subordinata alla prossima richiesta di aiuti. Qualora la Spagna dovesse ritardare ancora la firma del memorandum d’intesa per accedere al programma di salvataggio, il nervosismo sui mercati finanziari potrebbe riprendere a crescere con una violenta accelerazione dello spread, perché è chiaro che se da un lato gli speculatori sono in attesa di potere vendere in massa i titoli artificialmente apprezzati alla BCE, sul versante strutturale, economico e sociale la situazione della Spagna non solo non migliora ma precipita a vista d’occhio.

Madrid è sotto assedio permanente, le proteste dilagano in tutte le regioni, la gente è esasperata, la disoccupazione aumenta in modo galoppante con punte ormai di ben oltre il 50% di giovani disoccupati, i soldi nelle casse degli enti locali sono praticamente finiti. Ieri, domenica 21 ottobre, si sono tenute le elezioni regionali in Galizia e nei Paesi Baschi, territori poveri e a rischio fallimento che sono già in rivolta da tempo, ma il test più importante la Spagna lo dovrà affrontare il prossimo 25 novembre con le votazioni regionali in Catalogna, dove già infervorano le mai sopite spinte indipendentiste. Un’eventuale vittoria dei partiti di opposizione che soffiano sul fuoco della protesta antieuropeista o peggio ancora dei movimenti locali per l’autonomia, potrebbe mutare non poco gli equilibri di forze e lo scenario politico spagnolo, con effetti dirompenti e imprevedibili per il futuro. Questo è il classico intoppo che potrebbe scompaginare di colpo i piani dei tecnocrati e dei banchieri europei, che malgrado i loro continui tentativi di indirizzare e imbavagliare la protesta verso l’astensionismo, dovranno prima o dopo fare i conti con il voto popolare: “Questa è la democrazia, bellezza!”. La finanza potrà pure manipolare le menti e gli organi di informazione, grazie al lavoro incessante e pervicace dei suoi menestrelli, ma fino a quando non sarà in grado di eliminare il diritto al suffragio universale, facendolo passare magari per pratica inutile, anacronistica, controproducente e dispendiosa, non potrà ancora entrare all’interno delle cabine elettorali e dovrà accettare suo malgrado il responso dei votanti. A poche ore dalla chiusura dei seggi i menestrelli e i buffoni ricominceranno a tessere le loro trame di palazzo, ma il giorno delle elezioni i tecnocrati europeisti potranno solo incrociare le dita e attendere in religioso silenzio.

Sulle condizioni pessime in cui è stata ridotta la Spagna, dopo anni di investimenti selvaggi e indiscriminati nel settore immobiliare e accumulo di debito estero, abbiamo già detto ampiamente in altri articoli, ma qui mi preme invece sottolineare solo alcuni dati. Innanzitutto non è vero che le banche europee, incluse quelle spagnole, hanno iniziato un virtuoso cammino di abbattimento delle attività (assets) e del debito necessario a finanziarle (deleveraging), come suggerito insistentemente dallo stesso Fondo Monetario Internazionale che ha stimato per il 2013 una massiccia vendita di assets per 58 importanti gruppi bancari europei da €3,5 trilioni. Come si può vedere bene dal grafico riportato sotto, a parte la momentanea flessione nel 2011, le banche hanno approfittato dei vantaggiosi rifinanziamenti della BCE (SMP, LTRO) per riprendere la loro marcia trionfale di investimenti finanziari fuori controllo, che ormai superano abbondantemente di 3 volte l’intero PIL europeo. Se ai cittadini è richiesto di stringere la cinghia, per motivi che sicuramente non dipendono da loro e dal loro presunto stile di vita insostenibile (i salari reali sono fermi o decrescenti in Europa da almeno 30 anni), i managers delle banche continuano invece ad inseguire i loro ambitissimi bonus milionari e ad utilizzare i fiumi di liquidità a buon mercato concessi dalla BCE non per chiudere le precedenti posizioni debitorie e consolidare i bilanci, ma per aprirne di nuove e sempre più rischiose (moral hazard).





L’unica evidente differenza con il passato è che le banche hanno stretto il rubinetto dei finanziamenti alle famiglie e alle imprese, dedicandosi con maggiore profitto alla solite attività finanziarie speculative o ancora meglio al carry trade sui titoli di stato, che essendo molto volatili e parzialmente sicuri assicurano elevati rendimenti certi in breve tempo. Unendo a questa insopprimibile tentazione di scommettere al casinò della finanza, la scarsa capacità di valutazione del rischio degli investimenti arriviamo alla condizione disastrosa in cui ci troviamo oggi, con l’economia reale sempre più a corto di liquidità e lo stato a mettere continuamente toppe ai fallimenti a catena delle banche, a danno dei contribuenti. Proprio in Spagna il valore dei bad loan (prestiti sorvegliati, incagliati, in sofferenza, ai limiti dell’insolvenza) rappresentano ormai il 10,5% del totale e hanno raggiunto la clamorosa cifra di €178,6 miliardi: ecco per quale motivo possiamo dire con assoluta certezza che il primo salvataggio richiesto dalle banche spagnole non sarà di certo sufficiente e ne serviranno altri nel giro di qualche mese.

L’ultimo stress test condotto sulle banche spagnole risale ad agosto scorso e aveva stabilito un fabbisogno finanziario per il triennio 2012-2014 pari a €59,3 miliardi, tuttavia dettaglio non trascurabile il calcolo è stato fatto sottostimando le prospettive di recessione per il periodo, con una caduta complessiva del PIL di solo -1%. In uno scenario più realistico, la previsione più attendibile di flessione cumulata del PIL ci fornisce una cifra pari al -6,5%, e considerando (vedi grafico sotto) che esiste una forte correlazione fra riduzione del PIL, aumento della disoccupazione e incremento delle sofferenze bancarie, ecco che la necessità di copertura finanziaria per gli istituti creditizi potrebbe lievitare più del doppio rispetto alla cifra precedentemente calcolata. Il discorso è abbastanza semplice da capire, perché il minore reddito nazionale e il numero crescente di persone che non hanno più un reddito (a parte i sussidi minimi di disoccupazione) produce per le stesse persone una maggiore difficoltà a rimborsare regolarmente i debiti contratti in passato. Senza contare poi il fenomeno inarrestabile di riduzione dei depositi presso le banche spagnole e fuga dei capitali all’estero, che in un contesto già così drammatico e turbolento potrebbe rappresentare l’ultima goccia capace di far traboccare il vaso del fragile sistema bancario spagnolo.



Questo discorso ci porta dritti in Italia, uno dei luoghi centrali e cruciali dove è ambientata l’opera buffa. Malgrado si continui a ripetere da ogni parte che il sistema bancario italiano è più solido di quello spagnolo, le condizioni al contorno non sono molto differenti: fuga dei capitali, riduzione dei depositi, aumento dei bad loan che hanno raggiunto a settembre la quota di €116 miliardi, il 15,6% in più rispetto allo scorso anno. Dato che tutti gli indici economici in Italia continuano a peggiorare, grazie anche alle manovre recessive del governo Monti che hanno amplificato gli effetti del ciclo economico in corso, esistono alte probabilità che buona parte di questi bad loan si trasformino presto in crediti inesigibili, con relativa necessità di ricapitalizzare le banche della stessa cifra. Fra l’altro, gli istituti più in difficoltà non sono soltanto quelli a carattere locale, regionale o nazionale, ma c’è addirittura una grande banca sistemica, d’importanza strategica internazionale, come Monte Paschi di Siena che ormai barcolla vistosamente verso la bancarotta. Abbiamo già detto più volte dello scellerato programma di salvataggio pubblico da €3,9 miliardi, ma adesso quello che più preoccupa gli addetti ai lavori sono le conseguenze dell’ultimo declassamento di Moody,s, che ha degradato i titoli di debito dell’istituto senese a livello spazzatura (junk bonds), portandolo a livello Ba2, sotto la soglia del grado di investimento: ciò significa che i grandi operatori internazionali, fondi pensione, fondi comuni, fondi sovrani, per tutelare i loro clienti dovranno disfarsi automaticamente dei titoli di MPS, facendo crollare ulteriormente il loro valore.

Dopo il comunicato di Moody’s, il crollo di giovedì scorso in borsa delle azioni MPS è stato preoccupante (-6,36% e 0,23 euro per azione), riducendo il valore patrimoniale di mercato del gruppo a meno di €2,6 miliardi. Già oggi il 17% dei crediti della banca sono problematici e dato che l’emersione di nuovi incagli e sofferenze segue l’andamento delle crisi economiche con un ritardo di 12-18 mesi, secondo Moody’s la qualità del credito di MPS "è probabile che continui a deteriorarsi nel 2013 e nel 2014". Ma se i nuovi depositi scarseggiano e la fragilità creditizia renderà sempre più difficile l’accesso al mercato, l’unica fonte di sostegno per MPS rimane ad oggi la liquidità fornita dalla BCE, che già a fine giugno ammontava a ben €31,5 miliardi. Oltre ovviamente ai salvataggi pubblici di emergenza garantiti senza limiti di quantità e di tempo dallo stato italiano. E tuttavia l’ingarbugliata faccenda MPS deve farci sorgere subito un sospetto: forse l’unico vero “cammello” che è stato trattato al vertice di Bruxelles come bene pregiato di scambio dai mercanti europei, tedeschi e francesi soprattutto, non è stata l'unione bancaria o fiscale, ma proprio noi. l’Italia.

Archiviato il caso Spagna, ormai tutti i faccendieri, i banchieri, i tecnocrati che ruotano intorno ai tavoli delle trattative europee hanno decisamente cambiato bersaglio, con la compiacenza e il supporto tecnico dei maggiori organismi internazionali pubblici e privati della finanza. Il tempismo con cui Moody’s ha sferrato l’attacco a MPS è sintomo inequivocabile di questo cambio di obiettivo: bisogna mettere il governo italiano spalle al muro, in modo che come la Spagna chieda un piano di aiuti e firmi l’accordo capestro d’intesa con la trojka UE, BCE, FMI prima delle prossime elezioni di aprile. In questo modo, qualunque nuovo governo verrà eletto dal popolo avrà già le mani legate ancora prima di cominciare e sarà obbligato a rispettare le condizionalità repressive di cessione di sovranità politica, economica, fiscale, previste dal memorandum. Bisogna tosare le grasse pecore italiane prima che queste possano uscire dall’ovile e il governo Monti è l’unico pastore affidabile e credibile dai “mercati” che possa svolgere diligentemente l’ingrato e indigesto compito (ingrato e indigesto per noi, non certo per Monti e la sua cricca, che più di una volta hanno mostrato parecchia soddisfazione e godimento a sforbiciare i risparmi e i patrimoni del popolo italiano).

La quiete apparente che regna sui “mercati” nei confronti dell’Italia, con la spread che è sceso fino a sfiorare addirittura quota 300, dimostra che alcuni operatori finanziari, il cosiddetto “parco di buoi”, si sono piazzati in massa sui nostri titoli e danno già per certo un prossimo intervento della BCE. Altri invece, coloro che le mandrie riescono ad indirizzarle con brevi comunicati e dispacci ad orologeria, stanno soltanto caricando il fucile per iniziare a sparare nel momento opportuno, quando si dovrà scatenare la Tempesta Perfetta sull’Italia. Le condizioni strutturali dell’economia italiana non sembrano infatti giustificare tutto questo ottimismo dei “mercati” e l’opera del governo di Mario Monti, che nel giro di poco meno di un anno è riuscito nella memorabile impresa di peggiorare tutti i principali indicatori economici del paese (PIL, inflazione, disoccupazione, consumi, produzione industriale, pressione fiscale, debito pubblico) è evidentemente funzionale al raggiungimento di questo momento della resa italiana. Una disfatta che con ogni probabilità avverrà quando saremo prossimi alle elezioni (gennaio, febbraio), in modo di consentire ai tecnici di defilarsi nell’ombra e di lasciare la patata bollente ai nuovi arrivati. Si tratta ovviamente di opinioni e valutazioni personali, ma dopo avere intuito bene o male cosa accade dietro le quinte dell’opera buffa, capire quale sarà lo svolgimento del canovaccio già scritto da tempo è diventato un gioco da ragazzi. Un passatempo, purtroppo o per fortuna, accessibile a tutti.

Alcune strane e curiose operazioni, come il passaggio per €10 miliardi dal Ministero dell’Economia alla Cassa Depositi e Prestiti (CdP), che già controlla quote di Eni, Terna e Snam Rete gas, delle partecipazioni in Fintecna (che a sua volta controlla Fincantieri), Sace e Simest, confermano che il governo Monti ha già iniziato in sordina il piano di smantellamento e svendita dello stato italiano. La CdP, banca per il 30% privata che gestisce i risparmi dei correntisti postali e si occupa principalmente di finanziamenti agli enti locali e alla pubblica amministrazione, non avrà difficoltà a rivendere agli investitori stranieri le sue partecipazioni quando i tempi saranno e l’emergenza causata dal deprezzamento dei titoli di stato (uno dei maggiori investimenti della CdP, con i suoi €11 miliardi di titoli in portafoglio) renderà indispensabile questa rinuncia. Ricordiamo che ci sono grandi gruppi stranieri, come il colosso francese dell’energia EDF, che a causa del referendum di giugno 2011, sono rimasti a bocca asciutta sia per quanto riguarda la costruzione delle 7 nuove centrali nucleari che per l’eventuale partecipazione nell’affare della privatizzazione dell’acqua pubblica, e adesso esigono che vengano pagato il conto. In un altro articolo avevamo già rimarcato che una delle maggiori cause degli attacchi speculativi ai titoli di stato italiani, iniziati guarda caso a giugno 2011, e indirettamente della caduta del governo Berlusconi, era stata l’incapacità del cavaliere di Arcore di manipolare e distrarre  l’opinione pubblica, come accadeva ai bei tempi andati del bunga bunga, e di fare passare sotto traccia queste indegne operazioni di colonizzazione straniera, evitando l’intoppo del referendum. Mario Monti invece, grazie ai suoi legami con gli ambienti che contano della finanza e degli affari, era l’uomo giusto per ridare credibilità all’Italia agli occhi dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale e per condurre in porto quelle stesse manovre, sulla spinta del panico da spread che il professore ha abilmente contribuito ad ingenerare nelle masse.

Un’altra manovra a dir poco sciagurata e infame è quella delle dismissioni forzate di immobili del patrimonio pubblico, partecipazioni statali in società strategiche di interesse nazionale (Eni, Enel, Finmeccanica, Anas), municipalizzate, concessioni, soprattutto in un periodo come questo in cui il valore di mercato è ampiamente sottostimato. Una svendita che secondo le previsioni del ministro Grilli dovrebbe fruttare alle casse dello stato solo nel 2013 €50 miliardi (mentre a regime le entrate stimate sono nell’ordine dei €15-20 miliardi all’anno), da destinare unicamente all’acquisto e al rimborso dei titoli di stato, dando ovviamente priorità ai creditori stranieri, francesi e tedeschi in particolare. Considerando che l’intero patrimonio pubblico da piazzare è di circa €571 miliardi, le intenzioni del ministro Grilli, in chiaro accordo con i suoi mandanti e manovratori esteri, è quello di garantire ai tecnocrati dell’Unione Europea il pagamento delle prime 12 rate annuali da €45 miliardi ciascuna, previsto dal piano ventennale di rientro entro la soglia del 60% del rapporto debito pubblico/PIL sottoscritto e controfirmato nel Fiscal Compact. Le modalità con cui si vuole procedere a questa ennesima spoliazione criminale e occulta del patrimonio pubblico dei cittadini italiani è abbastanza singolare: una Società privata di Gestione del Risparmio (SGR) si occuperà di acquistare questi beni direttamente dallo stato, grazie al collocamento di titoli presso i privati, assicurando il pagamento del flusso di cassa degli interessi tramite principalmente gli affitti che riceverà dallo stato per utilizzare quei palazzi e quegli edifici che un tempo erano suoi. Praticamente lo stato si priverà di un asset, di un’attività, che se sfruttata bene può generare profitti, per avere poi certamente delle uscite, dei costi ripetuti che prima non aveva. Ovviamente di questa truffa non beneficeranno solo gli investitori della SGR, ma gli stessi acquirenti privati (soprattutto stranieri, data la carenza di capitali interni) a cui il fondo venderà progressivamente i beni strappati allo stato per rimborsare i titoli in scadenza.

Questi contorti meccanismi finanziari servono solamente a mascherare l'inganno e ad indorare la pillola, ma alla fine si tratta di un furto bello e buono compiuto ai danni dei cittadini che sono i legittimi proprietari di quei beni. Un crimine che si può commettere impunemente davanti agli occhi di tutti grazie all’opera martellante della stampa e della propaganda di regime, la quale ripete fino allo sfinimento che la vendita del patrimonio pubblico consentirà di abbattere il debito pubblico e di liberarci da quest’incubo. Ne siamo veramente sicuri? E’ davvero il debito pubblico il nostro problema? E’ stato l’acquisto di quei beni a causare l’aumento del debito pubblico? No, assolutamente no. Quei palazzi e quegli edifici storici appartengono allo stato italiano nella maggior parte dei casi fin dai tempi dell’Unità dell’Italia, quindi i cittadini non hanno mai speso una lira (o un euro) per comprarli, ma ne sono per costituzione i proprietari di diritto. La panzana del debito pubblico è solo un vile pretesto per frodarli, perché ormai anche i muri sanno che il debito pubblico italiano è cresciuto a partire dal 1981 (quando era solamente al 55% del PIL) a causa del divorzio fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, che impedendo alla banca centrale di intervenire nelle aste di collocamento dei titoli pubblici per calmierare i rendimenti, ha favorito un’inarrestabile crescita degli interessi da corrispondere ai titolari. Una maggiore spesa per lo stato, che gravava anno dopo anno sui bilanci pubblici, di cui inizialmente hanno beneficiato soprattutto privati cittadini, aziende e banche italiane, ma poi con la disinvolta apertura ai capitali internazionali avvenuta con l’adesione all’euro, la deregolamentazione, la globalizzazione, ha avvantaggiato principalmente gli investitori stranieri
                
Se osserviamo l’andamento degli avanzi primari al netto degli interessi cumulati dallo stato italiano dal 1992 ad oggi (vedi grafico sotto), ci accorgiamo che i nostri governi applicano il rigore e l’austerità da almeno vent’anni, senza che questo abbia apportato mai un reale beneficio all’economia nazionale o alla solidità del nostro paese. Il continuo drenaggio di liquidità dal basso verso l’alto, ha prodotto soltanto l’impoverimento generale della maggioranza dei cittadini e l’arricchimento di coloro che vivono di rendita speculando sull’acquisto dei nostri titoli di stato. I €600 miliardi complessivi di maggiori entrate rispetto alle uscite che lo stato ha raccolto in questi ultimi venti anni, prosciugando i risparmi dei cittadini e inaridendo il tessuto produttivo, sono serviti esclusivamente a pagare gli interessi sul debito pubblico alle banche italiane e straniere, ai grandi investitori, ai singoli operatori finanziari. Non un centesimo in più di ciò che pagavamo con le tasse è stato speso nel miglioramento dei servizi pubblici, nel rafforzamento dello stato sociale, nei programmi di assistenza e sussidi all’economia, per farci vivere, come dicono molti menestrelli della propaganda, “al di sopra delle nostre possibilità”.


A parte la leggera flessione del montante complessivo del debito pubblico avvenuta poco prima della crisi del 2007, grazie alla favorevole congiuntura dei bassi tassi di interesse creata dall’illusoria ed effimera introduzione dell’euro, i governi che via via si sono succeduti negli ultimi trenta anni sono stati quasi sempre costretti ad emettere nuovi titoli per riuscire ad andare dietro al meccanismo fuori controllo di incremento degli interessi (Schema Ponzi). Alcuni recenti studi rivelano che la quantità totale di interessi pagati dal 1981 ad oggi ammonta alla stratosferica cifra di €2.141 miliardi, a fronte di una maggiore spesa pubblica rispetto alle entrate di soli €140 miliardi nell’arco dello stesso trentennio. Quindi in verità il nostro debito pubblico da €2000 miliardi noi italiani ce lo saremmo già belli che ripagati, se non fosse stato appunto per la truffaldina e famelica amputazione della nostra sovranità monetaria, avvenuta nel 1981 ed effettuata ad hoc per fregare i cittadini a favore dei soliti noti. Lo scandalo ormai è sotto gli occhi di tutti, anche se molti, soprattutto quelli che si sono arricchiti con il bottino del furto, cercano di deviare maldestramente l’attenzione verso altri argomenti, come gli sprechi, la corruzione, i privilegi della casta (che per carità vanno eliminati, ma non sono affatto la causa dei nostri problemi).

Fra l’altro, questo continuo spostamento di soldi dall’economia reale della produzione al mercato finanziario della rendita, con conseguente necessità di applicare poi politiche economiche recessive per risanare i bilanci, ha provocato ovviamente una caduta libera del reddito lordo nazionale lungo il trentennio (vedi grafico sotto), passando dalle incoraggianti medie di crescita del primo decennio degli anni ottanta (+3,8%) fino alla stagnazione completa o recessione degli ultimi anni (0,3%). Con le cupe previsioni di riduzione del PIL per i prossimi anni, sarà sempre più difficile il raggiungimento dell’ecumenico quanto mai inutile obiettivo del 60% del rapporto debito pubblico/PIL, perché ogni anno che passa dovremo abbattere il debito di una quota sempre superiore rispetto all’anno precedente solamente per recuperare i punti di PIL persi per strada. Cosa ben diversa accadrebbe invece se riuscissimo a far crescere il PIL con una politica economica espansiva di aumento della spesa pubblica, dei consumi e degli investimenti, perché in quel caso il debito non solo si ripagherebbe più agevolmente con le maggiori entrate fiscali calcolate su un reddito più elevato, ma avrebbe un peso specifico marginale sempre minore rispetto al PIL. La politica restrittiva serve soltanto ad esaltare il peso del debito pubblico, a renderlo ingombrante e dannoso, quando invece per un "paese democratico normale", non ingabbiato in vincoli esterni come la moneta unica, il debito dello stato rappresenta un semplice strumento di politica economica e fiscale, che ha davvero poche controindicazioni. E l’ultima disgraziata protagonista dell’opera buffa, la Grecia, è indubbiamente l’esempio più concreto e lampante dell’errore che si commette quando si cerca di costringere un paese debitore a risarcire un debito togliendogli non solo la propria moneta di stato ma anche tutte le fonti esterne di reddito.


Dopo la loro ultima ricognizione in suolo greco, i funzionari della trojka hanno confermato quello che sapevamo già: il disavanzo primario di bilancio è stato quasi azzerato, le uscite superano le entrate di soli €1,4 miliardi, ma i €12,5 miliardi di interessi sul debito che paga la Grecia ogni anno costringono il paese a dipendere dagli aiuti dei fondi di salvataggio europei, del FMI e della BCE. Siccome i creditori privati sono praticamente usciti dall’affare greco con i primi pacchetti di aiuti, questi nuovi finanziamenti dei creditori istituzionali della trojka servono solamente a ripagare gli interessi alla stessa trojka, ma neppure un centesimo va ad abbattere il debito pregresso o viene utilizzato per far ripartire l’economia, i consumi, gli investimenti, la fiducia. La Grecia è già spacciata, il suo PIL è in picchiata, il debito pubblico per quanto quasi costante in valore assoluto continua ad aumentare in relazione al PIL, dal 130% del 2010 al 167% attuale. Le domande quindi da porsi sono: possibile che sia proprio questo lo scopo della trojka? Sapendo già che la Grecia in queste condizioni non potrà mai consolidare i conti pubblici, possibile che la presenza di questo debito sia solo un pretesto per ottenere altro? Possibile che il debito serve solo a tenere in tensione l’intero paese e mettere pressione alla gente, mentre i funzionari studiano i piani più convenienti per frodare e depredare lo stato greco? Che senso ha e quanto potrà durare ancora la truffa della trojka?

Con questi ultimi inquietanti interrogativi si cala il sipario sul lungo terzo atto dell’opera buffa dell'eurozona. Certo si potrebbe parlare ancora delle comparse Portogallo e Irlanda, paesi già distrutti e annientati, che continuano mestamente il loro lento calvario verso il nulla, con i governanti servili che seguono pedissequamente gli ordini e le ricette amare della trojka e il popolo già rassegnato a soffrire ingiuste pene. Ma con tutto il rispetto, se portoghesi e irlandesi non sapranno risvegliarsi dal torpore opponendo un’adeguata resistenza al massacro, rimarranno sempre e solo comparse, inutili scenografie sullo sfondo che non aggiungono o tolgono nulla al dibattito. Perché è chiaro che l’unica variabile che può fare saltare in aria i piani dei vari buffoni che si alterneranno sulla scena è la reazione possente, competente, organizzata, coordinata della gente e se questa non ci sarà loro non si fermeranno mai. La fine di questa tragicomica farsa dipende dalla scelta consapevole del pubblico pagante di alzarsi in piedi e uscire dal teatro perché stanco del pietoso spettacolo a cui sta assistendo da tanti, troppi anni. Rimanere impassibili è comodo, ma il biglietto si paga lo stesso, e non si paga una sola volta all’ingresso, ma tutti i santi giorni, si consegna in eredità ai propri figli, ai propri nipoti, si tramanda di generazione in generazione. I buffoni in fondo si divertono a saltellare e strimpellare i mandolini sul palco, mentre noi spettatori inermi e impotenti, consapevolmente o inconsapevolmente, siamo gli unici a pagare per il loro divertimento. Loro si prendono gioco di noi con sempre nuove ingegnose macchinazioni, ma ripeto, per mettere fine a questa straziante agonia basterebbe soltanto avere la forza di alzarsi e dire ad alta voce: “No grazie, abbiamo già dato. Abbiamo pagato abbastanza per il vostro ludibrio e godimento. Conosciamo bene come funzionano le mille sfaccettature del potere totalitario, oligarchico, monarchico, imperialista e preferiamo la democrazia”.

La democrazia è l’unico personaggio ancora in cerca di autore che può stravolgere il triste scenario che ci aspetta, ponendo fine alla dittatura di mercenari e lacchè al governo e accelerando il processo di collasso dall’area euro, prima di essere spogliati del tutto dei nostri risparmi, del patrimonio pubblico e della nostra stessa capacità di resistenza. Ci vuole più democrazia nell’informazione per capire che l’euro è l’ultimo e più raffinato strumento di dominio inventato dai soliti tiranni e la fonte principale e originaria delle loro logiche predatorie. Ci vuole un ritorno alla democrazia per ridare speranza, futuro, dignità ai popoli. Ci vuole un recupero della sovranità monetaria, politica ed economica di ogni singolo paese, caposaldo fondamentale sul quale si costruisce una vera democrazia, per capire che l’unione, l’unità, la compattezza granitica che esclude le differenze, la molteplicità, non è quasi mai sinonimo di equilibrio, armonia, bellezza. Ci vuole una reazione forte da parte della società civile per cambiare rotta al cammino sbagliato di evoluzione che ci stanno imponendo dall’alto. Ci vuole uno stato di mobilitazione permanente, come sta già avvenendo in Spagna e in Grecia, per uscire dall’accerchiamento. Ci vuole una discesa in campo convinta e rumorosa che abbia come unico scopo quello di cacciar via dal suolo nazionale tutti i tecnocrati, i vecchi partiti, i politicanti, i funzionari che sono stati complici di questo sfacelo.

La manifestazione del 27 ottobre a Roma, il No Monti Day, rappresenta quindi un vero spartiacque politico per capire fino a che punto gli italiani sono pronti per affrontare questa battaglia, con le dovute armi di conoscenza e consapevolezza. In questa prima fase non è tanto importante il numero dei partecipanti, ma la determinazione e costanza che ognuno dei presenti avrà nel proseguimento della lotta, con i propri mezzi, con le proprie competenze, con i propri limiti. Gli spagnoli, i greci, gli italiani che stanno già scendendo e scenderanno in piazza a protestare nei prossimi giorni, nei prossimi mesi, nei prossimi anni, sono in verità gli unici “europei” degni di questo nome, che hanno rispetto per la storia, la cultura, le tradizioni del nostro amato continente, mentre gli altri sono solo merce di scambio dei mercanti. Gli irriducibili sognatori degli Stati Uniti d’Europa non sono “europei”, non sono portatori sani di modernità, non sono gli abitanti di una terra promessa che non esiste e non esisterà mai. Sono soltanto schiavi illusi e raggirati, accattoni opportunisti e profittatori, venditori di fumo agli stolti, persone prive di spina dorsale e lungimiranza, vittime della loro stessa fragilità. Ma forse per capire meglio il senso di queste ultime parole e rinvigorire l’orgoglio di sentirsi veramente “europei”, come suggerito da un lettore, bisognerebbe rileggere con attenzione una frase del filosofo, politico e storico francese Alexis de Tocqueville, uno che di democrazia se ne intendeva eccome:

Si può davvero credere che la democrazia, che rovesciò il sistema feudale e liquidò i re, si ritiri davanti a mercanti e capitalisti?”

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