giovedì 27 dicembre 2012

Cambiare #sipuò, intervista a Camilla Barone. "Si è aperto il cantiere di lavoro per il simbolo"



Camilla Barone, semiologa specializzata in analisi di identità visive e processi creativi. E' intervenuta all'assemblea al Teatro Quirino  presentando idee per il simbolo. Un intervento dunque per iniziare un cantiere di lavoro e condividere il percorso che aveva ipotizzato.

1. Due parole, Camilla, sulla vostra partecipazione all'assemblea Cambiare si può e al vostro lavoro svolto prima dell'incontro al Teatro Quirino.
È stato un lavoro matto e disperatissimo. Difficile se non impossibile trovare un nome e un simbolo capaci di mettere tutti d’accordo. Sono molte le anime di questo movimento. Il tempo, pochissimo. È stato difficile anche perché alle prese con tensioni identitarie divergenti il simbolo non viene vissuto per quello che è, una convenzione che è solo la parte emergente di pratiche ben più rilevanti, ma gli viene attribuito un valore sovradimensionato. Abbiamo fatto il possibile per rispettare le richieste del gruppo di promotori che ruotavano, essenzialmente, attorno a desideri di espressione dei valori fondativi, e in più di incisività, rinnovamento, iconicità, capacità di significare anche per i più giovani e di intercettare energie non istituzionali né ideologiche, di incarnare un mood positivo e parlare un linguaggio contemporaneo, semplice, spontaneo “gergale”. Sono stato poi gli stessi promotori ad aver scelto il simbolo proposto all’assemblea. È solo uno di quelli che avevamo identificato come interessanti, i cantieri sono ancora aperti, sia per quel che riguarda la veste grafica della proposta che abbiamo visto a Roma in forma provvisoria, sia per la finalizzazione di soluzioni alternative.
2. Seguendo il vostro intervento e il file che è stato proiettato alla platea è giunto, con molto interesse, un vero lavoro di rinnovamento nell'ambito della comunicazione elettorale a partire però da elementi base come la gestualità, le mani, la memoria collettiva, la possibilità, dunque, di permettere a chiunque "di riprodurre il logo" . Da dove siete partiti?
Dal presupposto che il momento storico sia piuttosto denso di tensioni e che il modo più efficace di esprimerle non sia quello di sovrapporre alla realtà fantasmagorie simboliche o feticismi politici di varia estrazione. Le persone sono tanto desiderose di cambiare quanto disilluse. Nessun trucco di sorti luminose e progressive (non stiamo vendendo un sogno) e nessun arroccamento veteroqualcosa può reggere. Solo la concretezza e il rispetto dei movimenti reali può valere. A maggior ragione per cambiare si può. Che proprio sulla centratura sulle pratiche fa forza. Da ciò l’uso di simboli già in circolazione, come il cancelletto, ricodificato da pratiche spontanee come il postare foto del gesto del cancelletto sui social network. Gli stilemi graffitari (non ancora finalizzati nella proposta vista a Roma) il font a stencil/mascherina stanno nella stessa logica di un logo che raffigura un gesto: il gesto può essere replicato e rifatto da chiunque, il logo può essere riprodotto ovunque. Certo non è possibile che la diffusione per contagio di un segno sia voluta o pianificata. O va da solo o non va. Però riprodurre la logica/estetica del contagio spontaneo per noi ha avuto una valenza etica: proporre un passo indietro a partiti, firme, proprietà intellettuali ed eredità ideologiche per mettere in primo piano le persone comuni (al centro della proposta politica di Cambiare si può) che si possono riappropriare dei segni e dei gesti per inserirli in pratiche di significazione autogestite. Si tratta insomma di proporre un lessico grafico e politico se non generato almeno legittimato dal basso. Forse posso trovare affinità con i metodi cosiddetti di social innovation… ma non ho avuto, almeno personalmente, alcuna ambizione di rinnovare il metodo della comunicazione elettorale in nessun modo. Semplicemente mi sembrava la postura più onesta possibile per una creatività al servizio del reale. Certo nel mondo dei sogni, e con 6 mesi di tempo, di segni che condensino “spontaneamente” significati socialmente rilevanti tanto da essere definiti, come dici tu, “pezzi d’immaginario collettivo”, tutti insieme ne avremmo potuti trovare diversi altri, per poi rielaborarli, selezionarli, votarli… ma la speranza non è l’ultima a morire, non è detto che non si possa trovare il tempo per fare bene o ancora meglio le cose.
3. Fino ad oggi i partiti hanno utilizzato loghi legati alla storia, oggi il vostro lavoro esprime un verso bisogno di rinnovamento. Si va verso questa direzione? Con quale metodo?
Non ho molto da aggiungere rispetto a quanto detto prima. Se non forse che no, non è una tendenza generale. È stata un’idea singolare. Nella quale credo. Non tanto per l’esigenza di “rottamare” i simboli. Mi da fastidio solo scriverlo. Tutti sappiamo quanto possono fare una stella o un pugno. È stata più che altro l’esigenza di elaborare un linguaggio trasversale alle diverse identità. Mi spiego meglio. C’è una forza coesiva nella crisi che stiamo attraversando. Non è solo la fede in un incremento positivo ed esponenziale della ricchezza ad essere in discussione, lo sono anche le autorappresentazioni. L’idea che non ci sia un modello economico o sociale prestabilito ad orientare pensieri ed azioni può essere disorientante, ma nello stesso tempo concentra le prospettive, fa campo libero. E la possibilità di costruire una società diversa ricomincia da qui. In questa nuovo spazio libero, in questa pausa forzata credo possano emergere meglio soluzioni reali, persone concrete, pratiche “virtuose”… basta mettersi in ascolto. Ecco forse l’unico metodo che mi sembra necessario al momento è l’ascolto. Le persone che ci parlano, la cronaca, la piazza, le statistiche, le chiacchiere al bar, i post, le manifestazioni… è pieno di “punti di presa” sulla realtà che ci consentono di intercettare la posta in gioco. La responsabilità di una proposta come cambiare si può, è enorme. Il disagio è diffuso e cresce. Il bisogno di una modalità per articolare il pensiero sul futuro è bruciante. Coglierlo e interpretarlo è più che necessario, oltre che sufficiente. Insomma in fondo il cancelletto dovrebbe stare solo per “canale di aggregazione attorno a tematiche di cui la rete degli utenti stabilisce la priorità” e sta per “canale d’ascolto”.
4. Le innovazioni da voi proposte possono essere anche introdotte nell'ambito dell'informazione nell'ambito del movimento durante le assemblee e nei casi in cui è importante l'utilizzo della simbologia?
Come dicevo, non so se si sia trattato di innovare un metodo – in realtà forse si è trattato di applicare qualche tecnica di osservazione del reale e delle nostra cultura tipica della ricerca socio-semiotica. Niente a che fare con il marketing politico o lo spin doctoraggio, per intendesi. Si tratta di una forma mentis che ha molto a che fare con l’ascolto, semplicemente, e la voglia di provare a capire il più possibile il contesto reale. La cultura elabora costantemente nuovi segni e cambia i significati di quelli già in circolazione. Ci vuole un po’ di allenamento e di attenzione per capire quali sono quelli “emergenti” e in grado di condensare pezzi d’immaginario. Tutto qui. Non è che l’immaginario, ribadisco, lo si possa creare. Si può solo intercettarlo e prenderlo in prestito. Credo che l’epoca dei cieli azzurri e delle bandiere sventolanti, per intenderci, non potrebbe più darsi a prescindere dalla fede politica d’appartenenza
5. Il logo da voi proposto sembra rivolto a tutta quella parte di elettorato che ha la possibilità di stare sul web. Bisogna tuttavia non dimenticare tutta quella parte di elettorato che non ha la possibilità di navigare e che va comunque informata e coinvolta. Quale metodo risulta più adatto per non escludere né l'uno né l'altro?
A riuscirci - e non è semplice – credo che il metodo più adatto sia quello di progettare segni che consentano più livelli di lettura. Bisogna partire dal presupposto che nessun segno dice a tutti la stessa cosa. Pensare che se ne possa trovare uno è pura utopia. Persino un singolo colore, il bianco, per esempio, non significa la stessa cosa per me e per la persona che mi sta al fianco chiunque questa sia. Siamo obbligati a scegliere a chi vogliamo parlare, sapendo che questi rappresenteranno solo una parte della popolazione. Non possiamo parlare a tutti. Possiamo solo scegliere di concentrare i nostri sforzi per farci capire da quella parte della popolazione che per noi è la più importante. In questo caso, per Cambiare si può, erano le persone più giovani o alfabetizzate informaticamente. Perché il movimento stesso ha usato la rete per esprimersi dal principio, e perché sono i più giovani che sfuggono maggiormente alle capacità interpretative delle proposte politiche attuali, e che hanno sempre più bisogno di nuove prospettive e di coinvolgimento diretto. E perché sono loro che più di tutti sanno insegnare come fare rete, e non solo in rete, soprattutto sul territorio. Sono loro che potranno trainare il cambiamento, e poi raccontarlo e coinvolgere altri. Scegliere i più giovani come destinatari elettivi è una cosa, però. Che non significa in nessun modo escludere gli altri. Questo è importante. Abbiamo cercato di arrivare a un segno che potesse parlare anche a persone completamente diverse.Bisogna fare in modo che un hashtag, se non viene riconosciuto come tale, possa dire qualcos’altro di ugualmente importante a chi lo leggerà a un altro livello di lettura. Un intreccio ad esempio, una figura reticolare che racconta di per sé collaborazione e condivisione. E poi mani, che sono segno si umanità e concretezza. E per finire un doppio segno di vittoria. Insomma non so se il segno che abbiamo proposto rispondesse perfettamente a questo requisito. Anche altri proposti andavano nella medesima direzione. Ma credo che sì, la coerenza di più livelli di lettura sia fondamentale.

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