mercoledì 19 dicembre 2012

La crisi si supera salvando il Pianeta di Elvio Dal Bosco, Cambiareilmondo


Un breve saggio di Elvio Dal Bosco (economista ed ex dirigente del Centro Studi della Banca d’Italia) per Cambiailmondo,  che ripercorre con dovizia descrittiva e con molti significativi esempi, le cause profonde  della crisi economica, l’ideologia sistemica – assurda – che la caratterizza e le possibili strade del suo superamento, che non sono meramente congiunturali, ma che necessitano di un mutamento radicale del paradigma culturale e dell’abbandono definitivo dell’ideologia neoliberista. Di nuovo, come in ogni epoca di grandi crisi, si ripropone il dilemma del senso del nostro modello di vita, del significato di “crescita”, del nostro rapporto con la natura, con il pianeta e con le sue risorse, e di come con tutto ciò, volenti o nolenti, dovremo fare i conti, noi e le nuove generazioni. Questo tipo di società è al capolinea. Di ciò, classi dirigenti e cittadini-elettori dovrebbero essere edotti.
Premessa
La crisi finanziaria ed economica in atto rappresenta il fallimento delle politiche economiche neoliberiste intraprese negli ultimi trent’anni a livello mondiale, che si sono scaricate sulle condizioni di lavoro e di vita di larghe masse di popolazione anche nei paesi capitalistici sviluppati. In presenza di un enorme aumento della disuguaglianza dei redditi e della ricchezza alimentato dall’espansione delle attività finanziarie a spese dell’economia reale in questi paesi, fa veramente impressione leggere quanto scrive uno dei portavoce del fondamentalismo neo liberista: “Nonostante la crisi creditizia attuale, questo decennio sarà visto come quello della più elevata crescita del reddito pro-capite della storia” ( The Economist, editoriale del 18 ottobre del 2008, p. 14 ).
La crisi viene da lontano: già prima dell’utilizzo di strumenti finanziari ad altissimi rischio e di scarsa trasparenza come i CDO e CDS, la grande espansione della cosidetta finanziarizzazione aveva comportato radicali mutamenti nella struttura della produzione, distribuzione e impiego del reddito nei maggiori paesi capitalistici svilupppati, da me analizzati in un libro pubblicato nel 2004 ( La leggenda della globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino ). Scrivevo allora nel capitolo intitolato significativamente L’economia reale preda della finanza: il fatto che tendenzialmente la quota degli investimenti fissi lordi scenda laddove la quota delle attività finanziarie cresce, mettendo in evidenza una correlazione inversa, potrebbe indurre ad affermare che l’enorme espansione registrata dalle attività finanziarie negli ultimi vent’anni circa sia andata a scapito degli investimenti e a favore dei consumi.
E’ opportuno sottolineare qui che, mentre i singoli attori o settori dell’economia ( imprese, famiglie, pubblica amministrazione, intermediari finanziari ed estero )  nelle loro scelte di spesa del reddito possono decidere o di  consumarlo o di investirlo in beni reali ( impianti e attrezzature, fabbricati non residenziali, abitazioni, opere pubbliche e scorte ) o di impiegarlo in attività finanziarie, sotto il profilo della contabilità nazionale, al netto del saldo con l’estero ( X  -  M ) e del saldo della pubblica amministrazione ( G – T ), la domanda finale si ripartisce fra consumi delle famiglie e investimenti in beni reali ( C + I ), restando le attività finanziarie una transazione intermedia. Per un’impresa può essere equivalente sotto il profilo dei profitti impiegare il capitale in investimenti tecnici oppure in investimenti finanziari, ma se questi ultimi crescono a un tasso molto più alto dei primi, come è avvenuto fra il 1979 e il 1999, nell’ambito della spesa finale nella contabilità nazionale ciò si riverbera in un calo relativo degli investimenti fissi lordi rispetto ai consumi privati. La quota degli investimenti diminuisce di 1-1,5 punti percentuali in Germania e Svezia, di oltre 2 negli Stati Uniti, di circa 3,5 in Canada e Francia, di 5 e oltre in Italia e Giappone. Siccome la quota degli investimenti sulla domanda interna diminuisce a favore dei consumi delle famiglie e contemporaneamente cala la quota dei redditi da lavoro dipendente, si può arguire che sono i detentori di altri redditi a consumare di più e investire di meno. La quota dei consumi privati cresce di 2 punti percentuali in Giappone, di circa 3 – 4 in Svezia, Francia, Germania, Italia e Stati Uniti, di oltre il 5 in Canada, mentre la quota dei salari lordi diminuisce, anche notevolmente in alcuni paesi ( da quasi 2 punti in Francia a oltre 3,5 negli Stati Uniti, Germania e Svezia e a 7,5 in Italia ).
Terminavo sostenendo che  in presenza di un’ elevata espansione delle attività finanziarie si ha una riduzione relativa della formazione di capitale fisso potrebbe significare che il predominio della finanza sull’economia reale è sfavorevole nel più lungo periodo all’accumulazione del capitale, che è il paradigma costituente del capitalismo.

Le dimensioni della crisi finanziaria
Secondo i dati elaborati dal WIFO (Istituto austriaco di ricerca economica), il volume delle transazioni finanziarie è salito a livello mondiale da 20 volte il PIL mondiale nel 1990 a 35 volte nel 2000 per arrivare a oltre 70 volte a metà 2007 per scendere a 60 nel 2009 e riprendersi a quasi 70 nel 2010, seguendo quasi parallelamente il corso dei derivati, che  ne costituiscono la parte di gran lunga prevalente. A sua volta, la  Banca dei regolamenti internazionali di Basilea calcola che fra la fine del giugno 1998 e la fine di giugno 2008 ( il dato più elevato raggiunto dagli strumenti derivati ) il volume dei derivati è balzato da 72 mila miliardi di dollari a 684 mila, aumentando quindi di quasi 10 volte. Il Financial Stability Board con sede a Basilea dal 2009 si occupa del sistema finanziario internazionale ed è molto critico sulle cosidette Banche ombra, ossia gli istituti finanziari speculativi, che amministrano oggi fondi per ben 67 mila miliardi di dollari.
Le politiche economiche neoliberiste avviate trent’anni fa dalla Thatcher e da Reagan con privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni (Marco d’Eramo su “il manifesto” traduce deregulation con sregolatezza)  hanno comportato una crescita abnorme delle attività finanziarie nei paesi capitalistici sviluppati; nell’ultimo decennio particolarmente attiva è stata la finanza “creativa”: sempre nuovi operatori e strumenti ad alto rischio sono stati inventati per aumentare i profitti ricavati non dalla famosa imprenditorialità ma dagli impieghi finanziari. Negli Stati Uniti i profitti del settore finanziario, che rappresentavano una quota del 10 per cento sul totale dei profitti delle imprese nei primi anni ’80, sono arrivati al 40 per cento nel 2007. Le banche britanniche ricavavano in media un profitto del 7 per cento sulle azioni fra il 1921 e il 1971; da allora la media è salita al 20 per cento. Ciò è dipeso dalla crescente complessità degli strumenti finanziari che hanno consentito di lucrare rendite molto elevate; i profitti che milioni di risparmiatori sperano di guadagnare finiscono per essere pagati al settore finanziario come rendite.
Joseph Vogl, storico tedesco, nel suo libro Das Gespenst des Kapitals ( Lo spettro del capitale ) descrive la prevalenza della “finanziarizzazione” con opportuni riferimenti alle fonti degli ideologi neoliberisti. La teoria  della Ipotesi del mercato efficiente elaborata fra gli altri da Eugene Fama (e Merton H. Miller) in The Theory of Finance del 1972, ha sostenuto ancora nel 2007 che il concetto di “bolla” nei mercati finanziari era insostenibile e insensata, perché dal suddetto principio si ricavava che sono proprio i mercati finanziari a rappresentarlo al meglio; infatti, essi non sopportano costi di transizione, di trasporto e pesantezze di produzione, sono i luoghi ideali e senza attriti per il meccanismo della formazione dei prezzi e per la concorrenza perfetta, in cui agiscono attori razionali orientati al profitto e quindi economicamente attendibili. Di conseguenza i prezzi e i movimenti dei prezzi su questi mercati riflettono anche in maniera diretta e conclusiva tutte le informazioni ottenibili. I valori patrimoniali corrispondenti non sono mai sotto- o sopravvalutati (!)
L’autore punta l’indice su due nuovi strumenti finanziari: la cartolarizzazione dei mutui ipotecari che diventano obbligazioni piazzate nel mercato secondario come asset- based securities (obbligazioni basate sugli attivi delle banche ); la creazione di derivati da vari tipi di crediti venduti dalle banche e tolti dai propri bilanci per accollare i rischi ai compratori di tali collateral debt obligations. Questi due strumenti sono stati giudicati molto positivamente dal Fondo monetario internazionale nell’aprile del 2006 (un anno prima dello scoppio della nota bolla!) nel Global Stability Report: “Grazie alle differenziate gestioni del rischio e  prospettive di investimento questi nuovi attori contribuiscono ad attenuare e assorbire gli ‘shocks’, che in passato hanno colpito le poche, ma importanti, agenzie di intermediazione.” Per non parlare dei credit default swaps, con cui le banche toglievano l’assicurazione di insolvenza del credito dai propri bilanci scaricandola su investitori particolarmente disposti al rischio.    
Le novità principali sono i hedge funds, fondi ad alto rischio, i collateral debt obligations (CDO), obbligazioni emesse dalle banche impacchettando i mutui ipotecari spazzatura, i credit default swaps (CDS), strumenti derivati concepiti per assicurarsi dai rischi connessi ai mutui, le private equity, che nella traduzione italiana vengono definite “acquisizione di società mediante l’acquisto di azioni finanziato per mezzo di emissione di debito garantito dalle azioni comperate”.
Gli hedge funds crescono da meno di 1.000 nel 1990 con capitali raccolti per circa 40 miliardi a oltre 7.000 per 2.000 miliardi raccolti nel 2007; essi si sono fortemente indebitati con le banche nel periodo in cui con tassi di interesse delle banche molto bassi era conveniente farlo prevedendo di ricavare profitti del 20 per cento almeno. Negli Stati Uniti la legge Glass- Steagall del 1933 divideva le banche in commerciali e di investimento, laddove le prime erano protette sui depositi , ma non dovevano investire in titoli;  tale legge è sopravvissuta fino al 1980, ma le liberalizzazioni dei movimenti di  capitali hanno fatto crescere enormemente i flussi internazionali e la separazione rimaneva solo sulla carta per essere abolita nel 1999. Perfino uno dei portavoce più ascoltati del neoliberismo, The Economist, nell’edizione del 2 febbraio 2008 scriveva che “se le banche vogliono vivere come gli hedge funds devono imparare a morire come succede a questi”.
Andreas Schmitz, il presidente dell’Associazione bancaria tedesca, parla molto chiaro in un’intervista a Die Zeit del 29 ottobre 2009:
Le banche devono concentrare la loro attività nel fornire il denaro a imprese e famiglie. A un certo punto esse hanno scoperto se stesse come clienti e hanno incominciato a fare affari fra di loro. Qui deve intervenire lo Stato e ricondurre questo tipo di operazioni finanziarie a dimensioni ragionevoli…Inoltre, le banche dovrebbero detenere una quota maggiore di capitale proprio. Qui siamo già sulla buona strada, perché riducendo i rendimenti, si rende il settore finanziario più sicuro, in quanto possono operare meno con denaro in prestito,  facendo anche diminuire il pagamento di bonus”.
Concetti simili si ritrovano anche in un’intervista di Mario Sarcinelli a La Stampa del 28 febbraio 2010: “Occorre tornare a una separazione fra diversi tipi di attività finanziaria. Da una parte le banche che raccolgono i soldi della gente e li prestano alle imprese, con una garanzia a tutela dei depositi; dall’altra parte chi svolge altre attività a carattere  finanziario, esposto al rischio di fallimento.”
Dalla loro prima registrazione i pochi Hedge funds nel 1990, che  amministravano 39 miliardi di dollari, per passare a 400 miliardi nel 2000 gestiti da 3.900 fondi, sono diventati 10.000 nel 2007 per quasi 2.000 miliardi di dollari amministrati. Agli investitori erano stati asssicurati rendimenti molto alti e non correlati con il mercato azionario; in effetti nel 2008 i fondi hanno perso un quinto del loro valore, soffrendo della caduta dei corsi azionari ( The Economist del 14 febbraio 2009, p.106 ).
Una serie di dati e rifflesioni sulla finanza si trovano in un rapporto speciale sui rischi finanziari pubblicato su The Economist del 13 febbraio 2010, in cui si scrive che: “In assenza di stretti limiti, una più elevata leva finanziaria è il risultato naturale di bassi saggi di interessi internazionali. Il debito delle imprese finanziarie USA è esploso in rapporto all’economia generale. Al culmine della follia, una grande banca si era indebitata in media 37 volte il suo capitale azionario, il che significava che poteva sparire a causa di una perdita di appena il 2-3 per cento dei mezzi propri. Il rapporto fra il debito delle imprese finanziarie e il PIL era salito da meno del 20 per cento nel 1978, al 40 nel 1988, al 75 nel 1998, per arrivare al 120 per cento nel 2008 .
Nel 2008 un cosiddetto Risk Manager ha fatto le sue confessioni, scrivendo che in una riunione di suoi colleghi “nel gennaio del 2007 il mondo sembrava scevro di rischi…La possibilità che la liquidità potesse improvvisamente venir asciugata stava come sempre nella nostra lista dei rischi, ma noi vedevamo ancora più liquidità affluire sui mercati, e non defluire. Investitori istituzionali, quali gli Hedge Funds, le Private Equities e i fondi sovrani erano intenti tutti a investire. Questo dipendeva dal fatto che il differenziale dei tassi si stava restringendo e il rapporto fra debiti e profitti nel finanziamento delle pe stava aumentando. Alla domanda ‘Da dove potrebbe arrivare una crisi di liquidità?’ nessuno fu in grado di dare una buona risposta”. E più avanti concludeva: “Che cosa dobbiamo imparare dalle crisi, sia noi che il settore finanziario? Tanto ma soprattutto due cose: la prima è guardare ai fondamentali, analizzando le posizioni di bilancio per tipo, dimensioni e complessità prima e dopo di intervenire negli arbitraggi; la seconda di non presupporre che i giudizi delle agenzie di ‘rating’ siano sempre corretti e se lo sono di ricordarsi che possono cambiare d’improvviso.”
E’ opportuno allora ricordare i dati significativi delle tre agenzie di rating nel 2011: la Standard & Poor’s Ratings Services, che  raggiunge un fatturato di 1.767 milioni di dollari con profitti per 719 milioni, impiegando 1.345 analisti  e fornendo 1.190.500 ratings ( proprietà della casa editrice McGraw-Hill ); la Moody’s Investors Service: a seguire 1.569 – 690 – 1.204 – 1.039.187 ( entrambe di proprietà della McGraw Hill );  la Fitch Ratings: a seguire 733 – 227 – 1.049– 505.024 ( gruppo editoriale Hearst per il 50 per cento e l’altra metà è francese ).
I cosidetti CDO servono per convertire cartelle fondiarie e obbligazioni societarie detenute come fondi illiquidi da investitori locali in strumenti finanziari liquidi in giro per il mondo ( si calcola che il loro volume sia attualmente pari a 500 miliardi di dollari, mentre i CDS sono ormai arrivati a superare a metà 2008 i 62.000 miliardi in valore nozionale a livello mondiale, contro 10.000 a fine 2005.
Altra finanza “creativa” sono le cosidette private equity, che la Banca centrale europea nel suo Bollettino mensile del giugno 2007 magnificava scrivendo “l’attività dei fondi di private equity   può spesso aumentare l’efficienza e la crescita a lungo termine delle società che sono coinvolte nelle operazioni, sebbene nel breve termine si possano osservare costi in termini di occupazione”. Nello stesso Bollettino si legge che la raccolta di fondi per tale attività sul mercato europeo è balzata dal 1996 al 2006 da meno di 10 miliardi di euro a 90 miliardi , di cui la fonte principale sono i fondi pensione con il 22 per cento;   il mercato europeo equivale ormai a quello degli Stati Uniti e l’acquisizione delle società avviene in larga parte senza dover impegnare capitale proprio ma con credito offerto di solito dalle banche. Nel 2009 si calcola che circa 400 miliardi di dollari del debito assunto dalle Private Equities dovrà essere rifinanziato nei prossimi 4 anni.   Oltre alle banche, i più penalizzati dalla crisi sono ora i  fondi pensione che devono uscire dai hedge funds, perché devono saldare gli obblighi derivanti dagli acquisti di private equity.
Un caso esemplare di mutui subprime è riportato da “Die Zeit” del 14 febbraio 2007: negli USA un’infermiera ausiliaria di 28 anni siede su debiti ipotecari per quasi un milione di dollari. Tre anni prima un agente immobiliare l’aveva convinta a lasciare la casa popolare in affitto per comprarsi la casa col mutuo ipotecario; egli la spinse a comprare più appartamenti e lui avrebbe trovato gli inquilini; lei avrebbe pagato le rate del mutuo con gli affitti ricevuti e in poche anni sarebbe diventata ricca.  Nell’arco di tre mesi l’infermiera era diventata proprietaria di 8 appartamenti e 8 ipoteche. Già dopo pochi mesi, gli inquilini hanno fatto notare che lei doveva pagare una serie di riparazioni, mentre l’agente immobiliare le aveva garantito che gli appartamenti erano in ottimo stato; poi sono arrivate le cartelle dell’imposta sugli immobili e le polizze assicurative così che nel dicembre del 2007 lei ha perso tutti gli appartamenti.
In questo contesto, c’è da sperare che non si avveri quanto sostenuto all’alba del 2000 da The Economist che prevedeva per i prossimi 25 anni una quadruplicazione del denaro gestito dai fondi pensioni privati in Europa pari a 8.000 miliardi di dollari. Anni fa uno dei maggiori studiosi dell’instabilità finanziaria, Hyman Minski, si chiedeva se la crisi economica del 1929 si potesse ripetere e rispondeva che ciò era difficile perché oggi la quota dello Stato sul PIL corrisponde in media nei paesi capitalistici sviluppati al 40 per cento, contro il 10 circa di allora. Teniamoci quindi ben strette previdenza e sanità pubbliche.
In un’intervista a Die Zeit del 24 giugno 2010 il noto speculatore Soros era piuttosto pessimista:
Domanda: “ Non dobbiamo intervenire sui mercati finanziari?”; Risposta: “Dobbiamo sì, perché è falso il presupposto che i mercati sono efficienti e riflettono semplicemente la realtà. I prezzi di mercato possono a un certo punto a loro volta influenzare la realtà. Perciò la speculazione può diventare una previsione che si realizza. Quando ad esempio si specula contro una banca o uno Stato molte persone si allarmano, per cui clienti e investitori disinvestono.” D: “Quali conclusioni ne trae?” R: “Le banche centrali e gli istituti di vigilanza devono combattere le bolle finanziarie. Finora non l’hanno fatto, perché credevano a torto all’efficienza dei mercati.” D: Che cosa dovrebbero fare in futuro?” R: “Si dovrebbe nei periodi di boom costringere le banche a depositare più riserve presso la banca centrale, riducendo così l’offerta di crediti.” D: “Che ne pensa di un’imposta sulle transazioni finanziarie?” R : “Si dovrebbe provare seriamente; non sarebbe male se si riducesse la liquidità sui mercati. E perché lo Stato non dovrebbe con questa imposta trovare una nuova fonte finanziaria, visto che riscuote già un’imposta sul valore aggiunto.”  The Economist del 7 gennaio del 2012 scrive che gli hedge funds hanno fatto ricchi i loro proprietari e/o manager, ma certo non i loro clienti, che negli Stati Uniti dal 1998 hanno guadagnato in media circa il 2 per cento all’anno, cioè la metà di quanto avrebbero ricavato dai buoni del tesoro. In sintesi: “ L’investimento nei hedge funds consentirà ad alcuni fortunati manager di godersi anticipatamente la pensione sui loro yachts, ma non permetterà ai fondi pensionistici di saldare i loro deficit.”
Lo stesso settimanale qualche settimana dopo registra un andamento analogo per le private equity che fra il 2000 e il 2008 hanno visto salire gli investimenti dei clienti ( anche in questo caso i fondi pensionistici hanno fatto la parte del leone ) da 75 miliardi a 190, mentre le rendite sono calate dal 15 al 2 per cento – da ricordare che le Private Equities avevano fatto largo ricorso ai debiti invece che al capitale proprio, perché gli interessi pagati alle banche sono portati in detrazione fiscale (!), ma ora questo grande debito pregresso da ammortizzare pesa fortemente sui loro bilanci.
Die Zeit del 12 aprile 2012 riporta un’intervista con Robert Johnson, un ex-manager dei Hedge Funds: “Gli economisti neoliberisti fanno sempre finta di essere osservatori obiettivi, come una specie di marziani che guardano gli uomini dall’alto in basso e li descrivono come esseri egoisti e avidi, mentre essi non sono marziani, ma uomini normali a cui interessa il potere, il prestigio e il denaro. Essi servono alcuni interessi e non altri e si fanno strumentalizzare. Basta guardare ai mercati finanziari, dove gli errori intellettuali degli economisti hanno condotto a una errata liberalizzazione dei mercati finanziari e alla nascita dei derivati. Sono stati i loro consigli a far sì che i politici abbiano stimolati questi mercati, invece di regolarli.” Nel frattempo egli ha creato l’INET, Istituto per il nuovo pensiero economico, che sovvenziona giovani economisti che cercano nuove idee, visto che “a livello mondiale crescono le disuguaglianze  e la crisi ecologica mostra che non possiamo più continuare a produrre come abbiamo fatto finora.”

Enorme aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza
Dati importanti sull’incremento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza all’interno dei singoli paesi o aree si trovano nel libro di Glenn Firebaugh, The New Geography of Global Income, Harvard University Press, Cambridge ( Mass. ), 2003. Fra il 1980 e il 1995 le disuguaglianze di reddito sono aumentate del 10 per cento nell’Europa occidentale, del 18 nel Nordamerica, Australia e Nuova Zelanda, del 23 per cento in Asia (ma di oltre la metà in Cina)  e sono più che raddoppiate nell’Europa orientale (compresa la Russia), area che nel 1989 mostrava la minore disuguaglianza di reddito.   La crescita della finanza è fortemente responsabile dell’aumento della disuguaglianza di reddito in Italia fra il 1989 e il 2009: il 40 per cento inferiore nella scala della ricchezza delle famiglie si aggiudicava l’8,3 per cento della ricchezza nel 1989 e il 7 nel 2000,  per il successivo 40 per cento la quota scendeva dal 33,8 al 29,2 , mentre per il 20 per cento superiore la quota saliva dal 57,9 al 63,8 ;  se si scompone quest’ultima quota la disuguaglianza aumenta dal 40,2 al 48,5 per cento per il 10 per cento superiore delle famiglie, dal 27,3 al 36,4 per il 5 per cento e dal 10,6 al 17,2 per l’1 per cento, che è moltissimo in termini relativi. L’indice di Gini complessivo sale dallo 0,533 nel 1989 allo 0,613 nel 2000, ma quello dei beni reali (soprattutto abitazioni) passa solo dallo 0,575 allo 0,596, laddove quello delle attività finanziarie balza dallo 0,677 allo 0,806. (A. Brandolini, L. Cannari, G. D’Alessio e I.Faiella, Household wealth distribution in Italy in the 1990s, Banca d’Italia, “Temi di discussione”, n.530, dicembre 2004).
The Economist del 17.06.2006 forniva per il 2000 la classifica di Gini, che va da 0 = perfetta uguaglianza a 1= disuguaglianza massima, i seguentidat: Stati Uniti 0,41 ; Italia 0,34; Gran Bretagna 0,33; Giappone 0,32; Germania 0,28; Francia 0,28; Svezia 0,24, Danimarca 0,23;   Brasile 0,59!  Negli Stati Uniti lo 0,1 per cento dei più ricchi aveva una quota sul totale del reddito nel 1929 dell’8 per cento, scesa nel 1979 al 2 nel periodo del capitalismo regolato, per risalire nel 2000 al 6,3 per cento.
Le riduzioni fiscali decise da Bush si sono così ripartite sommandole tutte dal 2001 al 2010 per quintile delle classi di reddito: 3 miliardi di dollari al quintile inferiore, 15 a quello successivo, 23 al terzo, 31 al quarto e 163 al quintile superiore .  In un paese in cui già nel 2001 la ricchezza era così ripartita : in debito il quintile inferiore, in pareggio praticamente quello successivo (0,3 per cento), 4 per cento il terzo e 11 il quarto, 85 il quintile superiore (coll’ 81 per cento il decile più ricco e con il 33 l’1 per cento più ricco).
In Germania il 26 per cento dei bambini con età inferiore ai 15 anni vivono in famiglie sostenute dall’assistenza sociale nel 2007. Comunque, la povertà che è salita dal 12 per cento nel 1999 al 20 nel 2009 non colpisce quasi gli anziani perché prevale ancora il sistema pensionistico pubblico a ripartizione, come scrive l’autorevole settimanale liberale “Die Zeit” del 31 dicembre: “Quando i mercati finanziari si trasformano in casinò, i buoni consigli non servono più a niente. In questa situazione si rivela una fortuna il fatto che in Germania l’assicurazione pensionistica non dipenda dall’altalena dei prezzi delle azioni e dei tassi di interesse. Il crollo dei corsi azionari, la crisi bancaria, l’ondata di vendite dei hedge funds non hanno nemmeno sfiorato le casse della previdenza. Al contrario, il sistema pensionistico basato sul sistema a ripartizione, tanto criticato in passato e spesso dichiarato inaffidabile per il futuro, si è dimostrato una volta di più una colonna portante della stabilità sociale…Uno dei vantaggi poco rilevato ma importante del sistema pensionistico pubblico risiede nel fatto che nessuno ci guadagna del denaro. Non c’è posto per mediatori, consulenti e venditori del settore finanziario di prendere soldi dalla cassa comune. Non ci sono provvigioni, commissioni, costi pubblicitari. L’assicurazione pensionistica pubblica lavora in modo molto efficiente: i costi amministrativi costituiscono l’1,1 per cento dei pagamenti.” L’articolista fa ancora notare che col sistema a ripartizione gli anziani percepiscono una pensione che si basa tanto sul reddito di lavoro di quando erano attivi quanto sull’evoluzione dei salari negli anni in cui godono della pensione; la pensione pubblica a differenza di altre forme di assicurazione contro la vecchiaia è inoltre protetta dall’inflazione.
La crescita forte delle disuguaglianze sociali negli USA si riverbera anche nei tanto decantati consumi privati che dovrebbero sostenere il modello neoliberista in crisi: il quintile superiore nella scala della ricchezza contribuiva per il 60 per cento ai consumi privati, il quintile inferiore per il 3 e i tre quintili che formano il cosidetto ceto medio per il 37 per cento.
Ancora più significativi delle disuguaglianze all’interno degli Stati sono i dati seguenti: negli USA fra il 1952 e il 1986 in nessun anno l’1 per cento dei più ricchi ha guadagnato una quota superiore al 10 per cento del PIL; nel 2007, prima della crisi, tale quota è arrivata al 18,3, praticamente uguale a quella del 18,4 registrata nel 1929, inizio della Grande Crisi. Fra il 1986 e il 2006 l’indice di Gini è salito da 0,34 a 0,38 in USA, da 0,28 a 0,41 in Cina, da 0,32 a 0,37 in India, da 0,30 a 0,33 in Giappone, da 0,26 a 0,30 in Germania, da 0,20 a 0,23 in Svezia.
L’aumento delle disuguaglianze è stato alimentato dalla politica fiscale a favore delle imprese e dei redditi alti a scapito dei lavoratori: fra la metà degli anni Novanta e oggi la Germania ha diminuito l’aliquota di imposte sulle società di 27 punti percentuali e quella sui redditi personali più alti di 9,5 punti; Spagna e Francia hanno ridotto le aliquote sui  redditi più alti di 13 punti, l’Italia di 6 punti, abbassando quella delle società addirittura di 27 punti.

Cambiamento climatico e gestione ottimale delle risorse
Da quanto appena detto, dovrebbe emergere l’esigenza di un nuovo modello economico che concili la salvezza del pianeta con una vita dignitosa di tutti gli abitanti della Terra. Una serie di associazioni italiane, dalla CGIL alla Coldiretti, da Legambiente al WWF, dal Terzo settore al volontariato laico e cattolico, tutte aderenti alla “Coalizione in marcia per il clima” hanno sottoscritto un documento in cui si sostiene:
“Per rispondere in modo efficace alla sfida dei cambiamenti climatici e approdare a un sistema economico a basse emissioni, saranno necessari entro il 2030 investimenti aggiuntivi a livello globale pari a 200-210 miliardi di dollari all’anno, mentre 23-54 miliardi di dollari saranno annualmente indispensabili per prevenire e porre rimedio agli impatti dei cambiamenti climatici. Investimenti necessari ma anche utili a rilanciare l’economia in una fase di crisi globale.”  (“il manifesto”, 23 aprile 2009)
Si tratta quindi di enunciare i principali problemi di una riconversione ecologica dell’economia e della società e delle politiche necessarie per salvare il pianeta. Puntare l’attenzione solo sulla crescita del PIL è  fuorviante anche perché nei calcoli del PIL non viene portato in detrazione la perdita secca della ricchezza nazionale dovuta alle catastrofi naturali (anche quelle indotte dall’uomo), mentre vengono computati in addizione le risorse spese per eliminare i danni provocati.
Senza profonde riforme economiche non cambierà niente. Sia la crisi ambientale che quella finanziaria sono i due lati della medaglia della guerra al futuro, condotta dall’avidità finanziaria del mercato dei capitali e dal saccheggio dei fondamenti naturali della vita. Questa guerra non può essere vinta con gli stessi strumenti con cui essa è condotta. Si tratta invece di capire quali siano cause, forze motrici e interessi che ne stanno dietro. Allora forse cambierà qualcosa. Ne vanno di mezzo democrazia, giustizia e libertà. Senza una cultura sostenibile nel vero senso della parola che conosca l’autolimitazione e l’austerità non è possibile difendere o conseguire tali valori.” (articolo scritto da due noti studiosi dell’ambiente tedeschi per il settimanale liberale “Die Zeit” del 7 gennaio 2010)
I temi in discussione sono vari: energie alternative, sovranità alimentare, riduzione dei rifiuti e degli sprechi anche attraverso il riciclaggio, beni comuni; su quest’ultimo problema non si può che sottoscrivere quanto sostiene il presidente dell’Istituto europeo di ricerche sulle politiche dell’acqua, Riccardo Petrella: “La Sinistra storica anticapitalista deve affermare che il primato dell’umanità, in quanto portatrice di diritti e bisogni primari, deve rappresentare il paradigma assunto da un’autorità politica mondiale di regolazione dell’acqua e del clima: E cioè che l’aria, l’acqua, la terra, le foreste, devono essere considerati beni comuni mondiali. Dunque bisogna andare ben oltre il mercato delle emissioni, il mercato dei rifiuti, il mercato dei derivati. Loro sono stati capaci di mercificare ogni cosa, noi dobbiamo essere capaci di trasformare quei ‘beni alienati’ in ‘beni comuni del’umanità’.” (Liberazione dell’11 luglio 2009)
La crisi provocata dal neoliberismo deve essere superata con interventi dello stato che non siano semplici salvataggi ma promuovano un tipo diverso di economia e società. Come scrive Marco d’Eramo in un editoriale de “il manifesto” del 29 aprile 2009:
Non è vero che di notte tutti i gatti sono neri. C’è capitalismo e capitalismo. Laburismo, socialdemocrazia e New Deal erano lontani anni luce dal nazismo e dal fascismo che pure furono appoggiati dal gran capitale. Proprio come il capitalismo e l’imperialismo dell’amministrazione Bush ci hanno precipitato in una barbarie giuridica e in una ferocia sociale, hanno fatto terra bruciata dei diritti civili, carta straccia dell’habeas corpus e delle garanzie costituzionali, hanno ridotto la politica alla guerra e la guerra alle polizie segrete… Così, almeno per il momento, è finita in soffitta la vecchia ortodossia monetarista friedmaniana, il cui dogma assoluto è che  la sola razionalità risiede nel libero mercato, la sola efficienza nel privato, e che tutto ciò che è pubblico  va smantellato.”
A proposito cosa vogliamo rispondere a un appello come quello lanciato da ricchi tedeschi dal titolo “ Introdurre un’imposta sui patrimoni!” nel maggio del 2009, in cui si scrive: “L’attuale crisi finanziaria ed economica aumenterà la disoccupazione, la povertà e la disuguaglianza sociale. Essa è in primo luogo il risultato delle politiche neoliberiste, che hanno imposto la deregolazione dei mercati, senza fissare alcun limite sociale e ambientale al capitalismo globalizzato. Con la crisi si apre una prospettiva di svolta verso una diversa politica economica e sociale; il superamento della crisi va fatto con massicci investimenti per il futuro in ecologia, istruzione e giustizia sociale. Coloro che hanno un patrimonio superiore ai 500.000 euro devono contribuirvi con una tassa una tantum del 5 per cento annuale per due anni, che poi diventerà successivamente un’imposta patrimoniale duratura di almeno l’1 per cento.”  E pensare che il sindacato di categoria più radicale da decenni nella RFT, l’IG Metall, aveva chiesto in un suo documento del marzo scorso di imporre un prestito forzoso del 2 per cento sui patrimoni privati superiori a 750.000 euro; qui abbiamo invece dei ricchi che chiedono di pagare un’imposta secca del 5 per cento, anziché concedere un prestito del 2 per cento!
Del resto, un altro tipo di capitalismo è stato sperimentato in Europa occidentale fra il 1960 e il 1980. La guerra fredda tra Est e Ovest inaugurata dal discorso di Churchill a Fulton nel 1947 ha avuto paradossalmente effetti largamente positivi sul piano economico e sociale nell’Europa occidentale. Essa denunciava la chiusura dell’Unione sovietica di Stalin e la progressiva dominazione dell’Europa orientale, ma contemporaneamente apriva una forte competizione fra i due massimi sistemi in Europa, capitalismo contro comunismo, e per essere convincente doveva sottrarre dal bagaglio propagandistico comunista gli aspetti macroscopicamente negativi del sistema capitalistico.
A differenza del primo dopoguerra quando la politica di pesanti riparazioni di guerra imposta alla Germania fu tra le cause dell’avvento del nazismo, era quindi necessario puntare a un rapido ricupero delle economie disastrate dalla guerra nell’Europa occidentale, realizzato anche grazie agli aiuti previsti dal Piano Marshall, contrastando così il prestigio guadagnato dall’Unione sovietica a Est e a Ovest con il grande contributo offerto dall’Armata rossa alla vittoria sul nazi- fascismo.  Sul piano ideologico, bisognava dimostrare che il capitalismo non era un sistema di mero sfruttamento dei lavoratori da parte dei detentori del capitale e la cui inefficienza economica sarebbe stata testimoniata dalla Grande Crisi del 1929; entrambi argomenti principali della battaglia ideologica comunista contro il sistema borghese. In effetti, la ricostruzione economica procedette rapidamente, tanto che essa poté considerarsi conclusa nel 1960 circa per l’insieme dell’Europa occidentale.
Le aperture sul piano sociale verso i lavoratori dovevano dimostrare che le economie di mercato erano società senza classi basate sul ceto medio, sempre più ampio e ricco. Da qui una politica economica che puntava sulla piena occupazione, sulla crescita del reddito nazionale, in cui i salari  aumentavano in linea col progresso della produttività, e sulla formazione dello stato sociale, tale da garantire a tutti il diritto all’istruzione, alla salute e alla previdenza pensionistica. L’economia di mercato non era lasciata al libero gioco delle forze di mercato, ma era guidata da uno Stato regolatore, che in alcuni paesi e segnatamente in Italia era anche imprenditore. Questo tipo di capitalismo fu chiamato economia mista per sottolineare il crescente peso dello stato, neocapitalismo in Italia, economia sociale di mercato ufficialmente nella Repubblica federale tedesca,  tardo capitalismo negli ambienti di sinistra di quel paese e successivamente capitalismo corporatista per sottolineare un sistema basato sull’accordo fra stato, imprese e sindacati. Va, peraltro, notato che non in tutti i paesi dell’Europa occidentale questo accordo funzionò sin dall’inizio senza quasi conflitti: esso ebbe vita facile nei paesi nordici, dove il partito socialdemocratico e i sindacati avevano conquistato un ruolo preminente già negli anni ’30, e nella Germania federale, dove più forte era la competizione ideologica fra Est e Ovest e si riteneva che la pace sociale valeva bene una messa. Le condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori furono conquistate con la rivolta del maggio 1968 in Francia, con gli scioperi selvaggi in Gran Bretagna  e con i forti scioperi unitari delle tre grandi centrali sindacali in Italia a cavallo fra gli anni ’60 e ’70. Si ebbe, infatti, fra il 1960 e il 1980 quasi una triplicazione dei salari reali nell’Europa occidentale, e la spesa sociale sul PIL salì dal 14 al 24 per cento.
Il predominio del neoliberismo iniziato coi governi Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti ha ridotto fortemente la quota dei salari sul PIL e la spesa sociale, favorendo i profitti e soprattutto le rendite,e alla fine ha aperto la crisi finanziaria ed economica attuale. Di fronte all’ampiezza di questa lo stesso The Economist, la bibbia dell’ideologia neoliberista, aveva scritto  nell’ottobre del 2008  in un editoriale dal titolo significativo Salva il sistema :
L’economia mondiale si trova in una brutta situazione, ma potrebbe andar peggio. Questo è il momento di mettere da parte i dogmi e la politica e concentrarsi su risposte pragmatiche. Ciò significa nel breve termine  interventi dello Stato e cooperazione più di quanto contribuenti, politici o giornali  del libero mercato amerebbero in casi normali…   Lo Stato dovrebbe intervenire su tre piani: sbloccare i mercati del credito, accrescere il capitale delle banche, ridurre i tassi di interesse e concedere agevolazioni fiscali.”
Puntualmente, i paesi capitalistici sviluppati hanno seguito questa raccomandazione,  inondando di soldi le banche di investimento: soltanto negli Stati Uniti sono stati stanziati 1.740 miliardi di dollari. Ovviamente, questi aiuti finanziari hanno peggiorato i conti pubblici e subito l’ineffabile settimanale inglese il 23 gennaio 2010 con il titolo programmatico STOP! Le dimensioni e il potere dello Stato sta crescendo, ma sale anche l’opposizione a ciò ha ripreso la crociata neoliberista, prendendo spunto dalla perdita del seggio del Partito democratico al Senato degli USA, che fu di Ted Kennedy, in Massachusetts all’inizio dell’anno  scorso per chiedere la riduzione del peso dello Stato. E scrive testualmente in questo editoriale:
Si possono ridurre le retribuzioni del settore pubblico, visto che tali posti di lavoro sono sicuri: sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna i dipendenti pubblici sono pagati meglio che quelli privati; le pensioni pubbliche sono troppo generose in confronto a quelle del settore privato che si riducono, per cui si possono tagliare i diritti ma aumentando l’età pensionabile. E il mondo diventerà  un luogo più verde e prospero se scompariranno i vari ministeri dell’agricoltura in Occidente… Una grande battaglia sullo Stato sta emergendo ovunque e come nel caso di un’altra storica rivoluzione il primo sparo si è fatto sentire nel Massachusetts.”
Invece di perderci in battaglie ideologiche di retroguardia sulla purezza anticapitalistica, dovremmo cercare di mettere in cantiere politiche di superamento del neoliberismo concreto che ci ha portato alla drammatica situazione del presente e del futuro prossimo, anche sul piano della battaglia ambientale, come afferma uno dei massimi studiosi  della crisi  climatica. In un’intervista su “Die Zeit” del 26 marzo del 2009 J. Schellnhuber, direttore del Postdamer Institut fuer Klimafolgenforschung e membro del Consiglio mondiale del clima, dal titolo Talvolta potrei urlare!  sostiene: “La crisi economica è drammatica e brutale, ma se ciò dovesse condurre a trascurare la difesa del clima sarebbe un disastro, secondo lo slogan prima facciamo ripartire l’economia e poi ci preoccuperemo di nuovo del clima. Che incredibile cinismo: noi riteniamo più importante la conservazione di un benessere spropositato di una ristretta elite economica che non il futuro di intere generazioni.” Avrei qualche difficoltà ad accettare il termine “elite” per banditi che per conservare alte rendite stanno tranquillamente distruggendo il futuro perfino per i loro figli e nipoti…
Sul ruolo dello Stato è molto interessante il dibattito ospitato da Die Zeit .  Nel  dicembre del 2009 lo scienziato tedesco Ernst Ulrich von Weizsaecker è molto chiaro  nel descrivere il rapporto fra Stato e imprese. Egli registra infatti:
Nel cosiddetto triangolo della sostenibilità ci sono un fattore forte e due deboli: quello forte è l’influenza economica, i deboli sono l’influenza sociale e quella ecologica. Credere che si possa avere la sostenibilità senza uno stato forte è pura illusione… La politica è diventata inefficace, perché il mercato attraverso il diktat del massimo profitto impedisce allo Stato di porre delle regole. Se un governo si immischia, il capitale farà di sicuro in modo che si fugga da tale paese. Il coordinamento internazionale sarebbe l’unica soluzione.”
Sullo stesso settimanale in data 7 gennaio 2010 interviene lo storico USA, Tony Judt, che incalza la Sinistra:
La sinistra politica ha qualcosa da conservare: i diritti politici; essa ha ereditato la moderna spinta ambiziosa da esercitare in nome di un progetto universale di istruzione e innovazione. La socialdemocrazia deve sostenere le conquiste del passato con decisione. Lo sviluppo di uno stato delle prestazioni sociali che nell’ edificazione lunga un secolo del settore pubblico ha impregnato  la nostra identità collettiva e i nostri comuni obiettivi con la conquista dello stato sociale come un diritto e la sua garanzia un dovere sociale… Altri hanno utilizzato gli ultimi tre decenni per destabilizzare e respingere indietro sistematicamente questi miglioramenti: dovremmo essere molto più arrabbiati di quanto non lo siamo. Ci dovrebbe anche preoccupare : perché siamo stati tanto rapidi nel distruggere la diga che i nostri predecessori avevano costruito con tanta fatica? Siamo tanto sicuri  che non arriveranno nuove ondate? “
Per la serie Lotta di classe dall’alto (titolo significativo usato da un settimanale liberale!) un altro autore, Boris Groys, filosofo e matematico dell’Università di New York, ricorda al cosiddetto ceto medio quale dovrebbe essere la sua funzione:
E’ il ceto medio che supporta e cura lo stato sociale e occupa i suoi gradini gerarchici. Il ceto medio amministrativo addirittura lo rappresenta, pur essendo quello che ne approfitta di meno. Per cui c’è da attendersi che prima o poi questo ceto medio se ne accorgerà che è insensato reggere una struttura sociale di cui ne approfittano solo altri…Solo quando il ceto medio prenderà coscienza di questo fatto, potrà emergere una nuova battaglia politica, una nuova rivoluzione delle virtù, che sarà nel solco della tradizione della Rivoluzione francese e della Rivoluzione d’ottobre russa..” ( Die Zeit del 17 dicembre 2009)
Lo scontro non è più fra le classi secondo gli apologeti neoliberisti, ma fra le generazioni: in base alla ricchezza per classi di età, in Gran Bretagna la popolazione inferiore ai 40 anni costituisce la metà del totale ma possiede solo il 15 per cento delle attività finanziarie; fra il 1995 e il 2005 la quota di ricchezza detenuta dalle persone comprese fra 25 e 34 anni è calata, mentre sarebbe triplicata secondo la Banca d’Inghilterra quella della classe fra 55 e 64 anni (The Economist del 13 febbraio 2010). Questa è una conseguenza della precarizzazione del lavoro voluta dalle politiche neoliberiste; altro che attaccare i pensionati perché troppo ricchi e vedere come una iattura l’aumento della speranza di vita!  Ben altri giudizi arrivano dal filosofo francese, Lucien Séve in Le Monde diplomatique del gennaio 2010 che rivendica l’effettiva emancipazione delle età sociali.
Si tratta di offrire a ognuno una formazione iniziale di alto livello, eliminare la disoccupazione giovanile, sradicare in profondità l’alienazione del lavoro, garantire una sicurezza continua del lavoro e/o della formazione,  passare da un tempo libero miseramente compensatorio a una vita fuori del lavoro riccamente formativa, favorire al massimo la formazione dei cinquantenni alla vita post-professionale – offrendo così la prospettiva di un lungo tempo diversamente attivo, fuori dalle logiche sfruttatrici in un sistema consolidato di pensioni per ripartizione, rivalorizzate sulla base di una più equa distribuzione delle ricchezze e indicizzate sui salari. Ecco ciò che farebbe della Francia del 2040 il contrario di un paese invecchiato.”
Del resto, Fred Pearce, studioso di questioni ambientali di fama mondiale, ha relativizzato il problema demografico in Tutto scienze, supplemento settimanale de La Stampa ( 12 maggio 2010 ), scrivendo:
Non possiamo risolvere il problema del cibo o dell’energia o dei cambiamenti climatici e tutto a causa della sovrappopolazione – dicono gli ambientalisti. E’ sbagliato: l’impatto decisivo sulla Terra non è quello dei popoli poveri, ma delle nazioni ricche. E infatti, anche se oggi l’umanità si bloccasse a 7 miliardi, l’ambiente continuerebbe a deteriorarsi a causa delle nostre cattive abitudini, come quella di bruciare combustibili fossili. Ecco perché, invece della Bomba della Popolazione, ci si deve preoccupare della Bomba dei Consumi: è questa, mentre si diffonde in Paesi un tempo sottosviluppati, che rischia di distruggerci.”
Tornando al dibattito sul cambiamento climatico, tre noti studiosi tedeschi hanno scritto su Die Zeit del 15 aprile 2010 quanto segue:
Liberare la società mondiale rapidamente, cioè entro la metà del nostro secolo, dalla dipendenza dalle energie fossili, avrebbe tre vantaggi: In primo luogo, si stabilizzerebbe il clima; inoltre, con ciò si passerebbe a una fonte di energia ad alta efficienza e sostenibilità proveniente dal sole, dal vento e dalle onde marine; infine, molti paesi in via di sviluppo potrebbero saltare le fasi di industrializzazione ‘sporche’. La direzione di marcia di una strategia del clima razionale è per noi chiara: L’obiettivo di ridurre di due gradi il riscaldamento del clima stimola innovazioni tecniche e investimenti nei sistemi di energie rinnovabili e nell’efficienza delle risorse, promuove intelligenti sistemi di mobilità spaziale e offre a imprese e consumatori aspettative di sicurezza a livello mondiale.”   
Come si possa passare a un altro modello di vita lo spiega bene un assessore regionale di Brema:
Nel porto della città c’erano molti vecchi capannoni in degrado, che ora vengono risistemati da giovani architetti, che riutilizzano tutto ciò che resta per il rinnovo degli ambienti: porte, finestre, ecc. e non solo parti di antiquariato, rifacendosi a un esempio della Svizzera, che per legge impone di riutilizzare tutto ciò che si ottiene dall’abbattimento di un edificio. Anche imprenditori sono conquistati dal rifiuto di continuare col modello  ‘sempre di più, sempre più velocemente, sempre avanti così’. Nel mercato del pesce a Brema, un imprenditore ha aperto dopo 20 anni un nuovo capannone, in cui l’energia è prodotta in proprio per il 60 per cento, e ha deciso di non aumentare oltre 50 il numero dei suoi operai, perché la ditta perderebbe il carattere familiare e a lui passerebbe il piacere di lavorare.” (Die Zeit,  30 dicembre 2010)
Andando alla radice del mito della crescita economica,  su Blaetter fuer deutsche und internationale Politik del dicembre 2011 è apparso un saggio molto interessante di Harald Welzer (direttore del “Klimawandelinstitut”- Istituto di ricerca sul cambiamento climatico) dal titolo Aus Fremdzwang wird Selbstzwang (Da una costrizione esterna si passa a un’autocostrizione – Come l’idea di “crescita” è entrata nelle menti). L’autore inizia il discorso partendo dal fatto che l’idea della crescita presuppone quella del futuro, che è una categoria di pensiero inesistente fino al 1600; quando si parlava del futuro si faceva riferimento all’Avvento, ossia al ritorno di Cristo alla fine dei tempi, e non al raggiungimento di una situazione diversa nell’esistenza terrena. In altri termini, l’idea dell’espansione di un qualsiasi aspetto della vita è storicamente recente; lo stesso dicasi per il suo correlato, cioè il futuro riferito al corso della vita, l’autobiografia. Nelle condizioni sociali dipendenti da una struttura del potere statica in un ordine precostituito è praticamente inesistente il concetto di autobiografia o di individualità; il posto di ognuno nella società è fissato dalla nascita. Welzer ricorda che è Marx a sostenere che lo sconvolgimento sociale provocato dal capitalismo con la prima rivoluzione industriale apre il discorso della responsabilità del singolo per la sua biografia. Nella produzione industriale si lavora per ottenere una serie infinita di prodotti al fine di conseguire il plusvalore; qui sono le radici non solo dell’idea della crescita illimitata, ma anche della mentalità dell’uomo che cresce sempre, cioè dell’uomo economico. Per concludere:
Il problema è che questa cultura della crescita non arriva con l’esaurimento delle risorse al temuto punto della finitezza, dove essa non funziona più, ma già prima in conseguenza dei danni da essa provocata che ne minano le stesse condizioni di sopravvivenza; la categoria della finitezza è per questa cultura insopportabile come la morte per l’individuo… L’edificazione delle infrastrutture materiali e istituzionali della modernità ha modificato anche le infrastrutture mentali dei suoi abitanti, nel senso che la costrizione alla crescita permanente è da tempo diventata un’autocostrizione, tanto che nessuno si chiede a che serva tutto questo.”
Infine, su Le Monde diplomatique, edizione italiana, del novembre 2011 Lucien Séve sostiene una tesi ancora più radicale come si evince dal titolo Salvare il genere umano non solo il pianeta. Secondo l’autore siamo ormai alla mercificazione generalizzata dell’umano, proprio perché “non c’è più nulla di umano che possa sfuggire al diktat della finanza: tutto deve produrre spietatamente un profitto a due cifre… il che significa anche finanziarizzazione generalizzata dei servizi tesi a formare e sviluppare le persone – salute, sport, insegnamento, ricerca, creazione, tempo libero, informazione, comunicazione; di colpo le finalità proprie di queste attività tendono a essere scalzate dalla legge del denaro”. A questa mercificazione si accompagnano la tendenza allo svuotamento di tutti i valori, la perdita incontrollabile di senso, la decivilizzazione senza argini, ma soprattutto la proscrizione sistemica delle alternative: “la frenesia del profitto tende a persuaderci della fatalità del peggio; il sistema stesso, la cui parola d’ordine è libertà, ha assunto come motto non ci sono alternative della Thatcher – e infatti come possiamo liberarci dell’onnipotenza dei mercati finanziari e delle agenzie di rating se la gigantesca crisi del 2008 non ha cambiato niente di significativo all’interno del sistema?”. E termina sostenendo che la carica etica dell’indignazione riavvicina alla politica e “deve portare a un nuovo tipo di azione, non nel senso della rivoluzione all’antica attraverso delle trasformazioni dall’alto, il cui fallimento è garantito, ma di impegno a tutti i livelli per l’  appropriazione comune in forme innovative di iniziativa e di organizzazione; a questo prezzo si potrà far deragliare la fatalità del peggio.”
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**Breve bibliografia di ELVIO DAL BOSCO
Come leggere il bilancio della Banca d’Italia – Ediesse – 1988
L’Economia mondiale in trasformazione – Il Mulino – 1993
Germania economica – Ediesse – 1994
Globalizzazione dell’economia e correnti migratorie – Filef – 2000
La leggenda della globalizzazione. L’economia mondiale degli anni novanta del Novecento
Bollati Boringhieri – 2004
- KALECKI - Michal  Kaleki visto da Elvio Dal Bosco – Editore: Hoepli

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