domenica 30 dicembre 2012

SINISTRA ....STAMPA

 

Una lettera in soggettiva può spiegare più di una lunga analisi politica. Oggi il manifesto vive il suo ultimo giorno, ma il futuro, se mai ci sarà, in mano alla "redazione a Norma" sembra decisamente buio.

Ancora non è noto il nome del padrone della "nuova storia" - questo il titolo di un editoriale collettivo, per quanto possa valere l'espressione "collettivo" dopo la lettura di queste sofferte righe, che aveva l'ambizione di presentare "il futuro" senza dire mai come sarebbe stato - ma si sa già quali saranno le relazioni interne.  Padronali.

Uscite tutte le firme storiche - meno Giuliana Sgrena, impegnata come candidata vendoliana, ossia col Pd, alle elezioni regionali del Lazio; una ragione ci sarà - i "nuovi" raccolti intorno a Norma Rangeri stanno strutturandosi per una continuazione dell'attività sotto altre forme societarie. La testata è in vendita (non è un segreto, sono usciti i bandi sui giornali...), ma ritengono che fare una nuova cooperativa possa garantire loro una continuità di gestione editoriale. Come se un padrone qualsiasi possa davvero limitarsi a comperare un brand e lasciarlo in mano ad altri, senza un controllo teso a salvaguardare l'"investimento".
Ma solo un imbecille può credere che un'attività industriale "nuova" - perché questo sarà quel giornale dal 2 gennaio in poi - possa partire senza fondi.
La domanda interessante è dunque: da dove arriveranno i soldi per pagare i normali costi industriali (affitto, bollette, tipografia, carta, ecc) anche considerando che "i nuovi" possano "investire su se stessi" e quindi autosospendersi il pagamento degli stipendi fino al momento in cui cominceranno ad entrare i ricavi delle vendite? (90-180 giorni).
Di certo non dai circoli dei lettori organizzati, che - oltre a finanziare il giornale ogni volta che questo aveva lanciato una "campagnadi sottoscrizione - avevano tentato di proporsi come acquirenti della testata, ricevendo dall'attuale direzione/redazione un quasi indignato rifiuto.
In attesa di scoprirlo - e nulla, nel mondo dell'informazione, resta segreto a lungo - ci illumina questo squarcio sulla presente e prossima vita interna al giornale. Che già prima, come "comunista" lasciava parecchio a desiderare, ma ora...
Da "la rivoluzione non russa" a "la rivoluzione no".


Scrivo per spezzare le nostre solitudini

Car* compagn*
come sapete sono in corso le procedure per formare la nuova cooperativa che dovrà fare in modo che il manifesto rimanga in edicola. La nuova coop è stata costituita prima di Natale da (credo) 9 persone, con uno statuto (credo sia stato ripreso quello della vecchia coop) senza che sia mai stata data una comunicazione ufficiale ai vecchi, nuovi e aspiranti soci. Se ne è parlato al giornale, sul giornale, sui social media ma chi abbia deciso i nomi dei “fondatori” e anche chi siano i fondatori io non lo so. Avrei potuto chiedere, certo, ma non ho voluto. Ho atteso invano una comunicazione ufficiale che non è mai arrivata.
E ora veniamo a “come” si sta formando la nuova cooperativa: si parte dal budget (calcolato sulle vendite attuali), si cerca di capire quanti posti di lavoro si possono salvare con quei soldi, si fanno alcune scelte (chiudere il centralino, chiudere il sito, ridimensionare l’archivio, ma questi sono solo esempi) e poi un comitato, formato da due persone, comunica ai singoli lavoratori il tipo di contratto che il giornale si può (o non si può) permettere per loro.
Il processo che io, insieme ad altri compagni, tutti ormai fuori dal giornale, compresi Rossana e Valentino, ho sempre caldeggiato, era esattamente l’inverso: prima si doveva parlare di progetto e poi di chi serviva per realizzarlo, cercando di fare un buon giornale, che aumentasse le vendite e fosse in grado di riassorbire progressivamente più persone possibili. Questo ovviamente comportava un grande e impegnativo dibattito politico che si è scelto di non fare.

I colloqui
Siamo stati convocati dal comitato singolarmente (cosa che ovviamente mette le persone in condizione di debolezza) e ci è stato comunicato cosa il comitato aveva deciso per noi: contratto a tempo pieno, contratto a tempo parziale o nessun contratto, senza altra possibilità che prendere o lasciare. Ognuno poi, sempre in perfetta solitudine, ha accettato tirando un sospiro di sollievo, ha rifiutato cortesemente, ha cercato di contrattare, ha pianto le sue lacrime o ha sbattuto la porta. Questo è quello che non mi va giù: ognuno solo con le sue gioie o le sue pene, nessun processo collettivo. Ognuno che racconta “come è andata” ai suoi amici, come fosse un colloquio di lavoro in un posto qualsiasi.
Per questo ho voluto scrivere questa lettera: per rompere queste solitudini, per cercare di far sentire meno solo e rabbioso chi è rimasto tagliato fuori.
Che fosse necessario un drastico ridimensionamento del personale lo sapevamo tutti ma che questo fosse il modo migliore per farlo, no, questo proprio no.
Che dovessimo formare una nuova cooperativa lo sapevamo tutti, che si formasse in questo modo, con questi tempi, senza alcuna discussione collettiva sul chi e sul cosa, no, questo proprio non lo accetto.
Siccome sono abituata a partire da me, vi racconto il mio colloquio (avvenuto ieri, 28 dicembre, ultimo giorno utile prima della liquidazione della vecchia coop): qualcuno, non so chi, ha deciso che bisognava chiudere il sito. Inutile dire che chi ci ha lavorato non è stato coinvolto in questa decisione, è stato informato solo a decisione già presa. Nessuno ha chiesto al gruppo di lavoro del sito se si poteva trovare una soluzione transitoria, per cercare di tenerlo aperto comunque, solo colloqui personali in cui si poteva accettare o rifiutare una soluzione alternativa oppure prendere atto di essere stati tagliati fuori. Dei quattro che lavoravano al sito uno è in pensione, a due sono stati offerti contratti certo molto miseri ma pur sempre contratti, a me è stato detto che non c’era alcuna possibilità di contratto. L’unico vantaggio economico che viene al giornale, quindi, è il taglio del mio stipendio, solo del mio, a fronte dell’immenso danno di immagine che comporta la chiusura del sito del manifesto. Se poi mi viene da pensare che la decisione di chiudere il sito sia stata presa al solo scopo di eliminare una persona scomoda, praticamente l’unica rimasta del gruppo dei “dissenzienti” dite che sbaglio? Può darsi, ma io non posso fare a meno di pensarlo.
A questo bisogna aggiungere un particolare: mi sono stati tolti i premessi di amministratore della pagina Facebook del manifesto. Inutile dire che neanche questo è stato oggetto di discussione, me ne sono accorta da sola, loggandomi alla pagina. Forse qualcuno ha pensato che potessi abusare dei permessi da amministratore per farne un uso improprio? Se così è quel qualcuno si sbaglia: non ho mai pensato di usare gli strumenti che il manifesto mi dava per scopi personali. Sono una persona seria e non tollero che questo sia messo in discussione.
Tanto per togliere qualche eventuale dubbio, non ho voluto scrivere questa lettera per cercare di strappare uno strapuntino, magari a scapito di qualcun altro. No, cari compagni, la guerra tra poveri non mi appartiene. La mia è, ancora una volta, una battaglia politica. Continuo, come faccio ormai da quando abbiamo deciso (tutti insieme) di mettere in liquidazione la cooperativa, a contestare il metodo. Ho condiviso l’idea dei Circoli della proprietà collettiva, ho scritto documenti, ne ho firmati altri, sono intervenuta in assemblea sempre con la stessa idea in mente: la rifondazione del manifesto non è un problema sindacale e nemmeno economico. E’ un problema politico e come tale va trattato.
So per certo che molti non hanno firmato documenti o ne hanno firmati altri solo temendo di perdere il posto di lavoro. E’ una preoccupazione comprensibile che ha però inibito la discussione che dovevamo e potevamo fare sul futuro del manifesto. Questo modo di procedere con colloqui personali ha fatto il resto: nessun processo collettivo, nessuna condivisione, ognuno lasciato a decidere (o a subire) da solo. Per questo o voluto socializzare la mia esperienza e mi piacerebbe che anche altri lo facessero. Chi ha deciso di rimanere contento, chi ha deciso di rimanere con molte perplessità, chi non ha potuto decidere niente, chi ha deciso, più o meno serenamente, di non voler prendere parte a questa nuova avventura. Mi piacerebbe. E ora a voi la palla.

Tiziana Ferri

da www.manifestiamo.eu 

Il quotidiano di Telese doveva servire a tirare la volata all'assalto di Vendola alle primarie del PD. E' andata male, e ora il "giornale a tempo" chiude. Una ricostruzione - anche troppo garbata e diplomatica - del disastro da parte della redazione.

Oggi, domenica 30 dicembre alle 16,30 presso Pubblico, Lungotevere dei Mellini 10, conferenza stampa sulla vicenda del nostro quotidiano, che ad appena tre mesi dalla sua prima uscita non sarà più nelle edicole. Quello del 31 dicembre sarà l’ultimo numero. Dal primo gennaio Pubblico, in edicola dal 18 settembre, sospende le pubblicazioni. Intanto vi invitiamo in redazione a brindare con noi a questa “incredibile impresa”.

Cronaca surreale di un giornalicidio. Perché la breve vita di Pubblico non è solo la vicenda di un quotidiano che non ha avuto la fortuna sperata nelle edicole, me è soprattutto la storia di un disastro imprenditoriale. Per quel che ne sa la redazione, il 31 dicembre, come preannunciato dall’amministratore delegato davanti ai rappresentanti della Federazione nazionale della stampa italiana, l’assemblea dei soci metterà ai voti la liquidazione della Pubblico srl che lo ha editato. E questo dopo appena tre mesi da quel 18 settembre in cui approdavamo sul mercato editoriale sospinti dall’orgoglioso motto: “Dalla parte degli ultimi e dei primi”.

Tre mesi dopo quel giornale spietatamente scompare dalle edicole, fermandosi tuttavia ad un testardo nocciolo duro di 4000 lettori circa. La metà di quel che serve per “stare nei conti”. E per arrivare alla decisione di chiusura dell’azienda. Anzi della non-azienda. Che non ha saputo sostenere il prodotto, che ha assistito all’erosione del capitale (appena 748mila euro) e che pur non avendo nemmeno un euro di debiti precipitosamente decide di chiudere baracca e burattini.

Il direttore del giornale è tra i principali fondatori e promotori di questa azienda, così come l’amministratore delegato. Eppure né l’uno né l’altro hanno saputo arginare le scelte strategiche che hanno portato al disastro.

Primo, il capitale sociale esangue, che non poteva certo reggere ad una programmazione economica di almeno sei mesi. Secondo, il prezzo di copertina iniziale ad un euro e mezzo, evidentemente troppo alto all’epoca della “grande crisi”.Terzo, la totale assenza di una campagna pubblicitaria che facesse conoscere il giornale ai lettori, nell’ingenua convinzione che ai tempi di internet e di twitter bastasse il tam-tam digitale per farsi strada. Quarto, la totale mancanza di un “piano B” nel caso in cui le cose fossero andate male. Qualche tentativo di correggere la rotta, appena s è visto che i conti – evidentemente – non tornavano? No.

Come chiunque sa, se uno decie di produrre un nuovo dentifricio, prepara una campagna pubblicitaria, si accerta che il prodotto sia opportunamente distribuito nei grandi supermercati e nelle migliori farmacie, e poi che venga collocato adeguatamente sugli scaffali. Infine, un’indagine sul gradimento tra i consumatori, per capire cosa convenga fare perché possa assestarsi sul mercato. Niente di tutto questo è stato fatto dalla Pubblico srl, con l’aggravante che un quotidiano è uno strumento “democraticamente sensibile”, contrariamente ad un dentifricio.

Ebbene, una delle prime scelte dell’azienda è stata quella di tagliare “orizzontalmente” la tiratura iniziale, che era molto alta, come sempre accade quando si lancia un nuovo giornale. Peccato che questo sia stato fatto senza che venisse effettuata una mappatura delle edicole, per capire dove si vende di più e dove si vende meno. Risultato numero uno: si spendono inutilmente soldi per spedire le copie del giornale in un qualche villaggio remoto, ma non si sostiene il prodotto là dove si vende (o venderebbe) di più. Risultato numero due: un colpo d’ascia sulle vendite in edicola. Dopodiché la “grande fuga”: nonostante una minuscola campagna di spot (solo su La7 e su alcune radio) che hanno fatto raddoppiare le vendite, laPubblico srl ha iniziato poche settimane fa l’operazione smantellamento. Quasi un mantra: si chiude, si chiude, si chiude.

Un tentativo di salvataggio da parte di un grande stampatore, che aveva mostrato notevole interesse nel far continuare l’avventura, è penosamente naufragato per motivi sconosciuti. Ci sono stati diversi tentativi di sospendere immediatamente le pubblicazioni, scongiurati ogni volta dalla redazione all’ultimo tuffo. Finché è stato possibile. Ma fra poche ore Pubblico sparirà dalle edicole. Fine del giornale degli ultimi e dei primi. Fine del giornale di Luca Telese.

Fine, anzi e, sopratutto del nostro e vostro giornale, che tutti i giorni queste pagine le abbiamo scritte e lette. Dobbiamo dircelo in faccia, almeno noi. Ci stanno chiudendo. Anche se speriamo ancora che qualcosa possa salvare il destino di queste pagine e il nostro. E continueremo ragionevolmente a sperarlo. La tentazione più forte in queste ore, ve lo diciamo chiaramente, è stata gettare la spugna, andarsene. Che fare d’altra parte quando quelli che ti hanno chiamato ad un’impresa dopo tre mesi, alla prima difficoltà, ti vengono a dire: è finita? Senza neppure aggiungere: scusate, abbiamo sbagliato. Nelle stesse ore in cui tu provi a dare fondo alla tua agenda loro ti dicono: purtroppo non conosco imprenditore che possa investire in questa impresa.

Loro d’altra parte sono stati i primi a decidere di non ricapitalizzare. Ce lo hanno detto in modo molto brutale: prima l’amministratore delegato Tommaso Tessarolo e poi il direttore-editore Luca Telese. E così abbiamo cominciato a capire che alle spalle non avevamo né azienda né direzione fino in fondo al nostro fianco. «Sapevamo che era un’operazione a rischio» ribadiscono gli editori. Sì, un’operazione a rischio affrontata con lo spirito o la va o la spacca. Ed è spaccata. Noi, i giornalisti di Pubblico, ci siamo sentiti dire «non eravamo del ramo, non abbiamo contatti», quando abbiamo chiesto se siamo stati cercati possibili nuovi soci che potessero rafforzare la compagine azionaria. Anche perché degli interessi, in effetti, si sono manifestati: il fatto è che Pubblico è ancora un prodotto attraente, che costa poco, con un suo posto sul mercato e con le potenzialità per tornare a crescere.

Intanto però dal primo gennaio Pubblico sparirà dalla edicole. Ed è quantomeno kafkiano che un giornale politico abbassi le saracinesche proprio alla vigilia di una nuova, cruciale, contesa elettorale. Da cronisti appassionati di quello che succede nel nostro Paese e nel mondo, siamo furiosi. Da lavoratori, che per mestiere e per passione su questo giornale hanno provato a raccontare ogni giorno la solitudine degli altri lavoratori, siamo indignati.

Stavolta la lotta per i diritti minimi passa direttamente per le nostre vite e vede come controparte chi ha messo in piedi questo giornale. Perciò abbiamo deciso di non gettare la spugna e fare ancora una volta i giornalisti. La nostra vicenda, la vicenda diPubblico crediamo che racconti molto di questo Paese. C’è di tutto, in questo racconto, dall’approssimazione alla fuga di fronte alla responsabilità, dalla resa davanti alle prime difficoltà fino all’ipocrisia squadernata ai precari che prima sono il sale dell’impresa e poi diventano un problema, perché per loro non scattano neppure gli ammortizzatori sociali.

Ancora adesso, a poche ore dalla sospensione delle pubblicazioni, pensiamo che un editore interessato ad un giornale che sappia raccontare l’alto e il basso, il volto politico e quello sociale della prossima campagna elettorale, ci possa essere. Non siamo un giornale indebitato fino al collo. Non siamo una macchina succhia-soldi. Ci siamo gettati con slancio in questa impresa e riprenderemmo a farlo se ci fossero le condizioni. Perché noi, i giornalisti di Pubblico, la nostra parte l’abbiamo fatta. Nonostante chi oggi ha deciso di chiuderci.

L’assemblea dei redattori di Pubblico

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