lunedì 18 febbraio 2013

Benvenuti all’inferno. Una recensione precaria di Laura de Ronzo


Precari: la nuova classe esplosiva, promette il libro di Guy Standing, di recente tradotto in italiano (il Mulino, 2012). Il titolo, che si apre alle interpretazioni più disparate, sembrerebbe evocare uno scenario in cui queste nuove figure del mercato del lavoro, ormai allo stremo delle forze, rivelano un potenziale di liberazione senza precedenti, e che abbiano finalmente deciso di ribellarsi (esplodere, appunto) e cominciare a lottare contro il sistema capitalistico che se ne nutre.
Questo libro è però la narrazione della genesi e dello sviluppo di un nuovo gruppo sociale che ha assunto dimensioni mondiali e che, secondo Standing, ha tutte le carte in regola per diventare una vera e propria classe globale, nonostante egli la consideri ancora una classe “in divenire”, poiché deve ancora prendere coscienza di se stessa.
Standing offre un’analisi molto dettagliata del processo di formazione di questo fenomeno, come lo definisce, evidenziandone le cause e individuando i gruppi sociali che ne sono più colpiti.

La prima domanda cui Standing cerca di rispondere è quindi: chi sono i precari?
Standing definisce il precariato come un fenomeno tutto nuovo, che ha certamente dei legami con il passato, ma che non ha nessun nesso né con la classe operaia né con il proletariato.
Ciò che lo caratterizza non è il livello del salario o del reddito in quanto tale, ma la mancanza di aiuto in caso di bisogno, così come la mancanza di un’assistenza garantita, sia essa pubblica o aziendale, a integrazione del salario percepito.
Standing definisce il precariato in negativo, rispetto alle sue mancanze nei confronti del tradizionale lavoro stabile e a lungo termine. I precari sono identificati con i lavoratori che hanno rapporti di lavoro a tempo determinato, e ciò che li differenzia fortemente dagli altri lavoratori è la mancanza di quelle sicurezze che Standing considera tanto indispensabili quanto prioritarie, tanto che la loro assenza genera la frustrazione tipica del precario. In un precedente articolo, abbiamo sostenuto che «la precarietà è una questione di classe», ma non è il prodotto di una composizione sociale omogenea.
Precarie sono sicuramente le donne, poiché tradizionalmente è questo il loro ruolo nel mercato del lavoro. A esse sono destinati i lavori più monotoni e ripetitivi. Le lavoratrici si trovano sempre più, a causa della crisi, a sopportare il carico cosiddetti «servizi riproduttivi», ossia il lavoro di cura che genera, a sua volta, altro sfruttamento e lavoro precario. Ma esse non diventano per questo i «capifamiglia», si tratta ancora di sfruttamento e di una vecchia e rinnovata redistribuzione dei compiti all’interno della famiglia.
Precari sono i migranti, ovvero, come li definisce Standing, i non-cittadini, la «fanteria leggera del capitalismo globale, che si trovano a gareggiare tra loro per contendersi i posti di lavoro in offerta». Essi accettano lavori part-time, a tempo determinato o senza particolari prospettive.
Precari sono i giovani, la categoria precaria per antonomasia, su cui pesa l’incertezza di un futuro fatto di lavori instabili, sia temporalmente sia geograficamente, e l’eterno confronto con lo stile di vita della generazione dei loro genitori e di tutte le mancanze rispetto ad essa. I giovani devono far fronte all’impossibilità di fare progetti sulla propria vita, sperimentano l’impossibilità di raggiungere quello status sociale che li abiliterebbe nella società che siamo abituati a concepire.
Precari sono gli anziani, ai quali cui la carriera professionale o il tempo indeterminato non interessano. Per i precari, giovani e meno giovani, sono una minaccia, visto che senza battere ciglio accettano lavori malpagati e senza prospettive.
Precari sono ancora i disabili e anche i criminali che sono strutturalmente destinati a ingrossare le fila del precariato.
Per Standing tutte queste categorie sono accomunate dal senso di rabbia, di frustrazione e di stress dovuto alla loro condizione di incertezza; essi mancano di apprezzamento verso se stessi, di un’identità professionale. La precarietà sembra destinata a rimanere una condizione esistenziale, generalizzata, e lo è sicuramente, poiché fa leva sulla paura di perdere quello che si ha, ma manca un riconoscimento politico vero e proprio di questa classe in fieri.
I precari non possono essere rappresentati non perché non abbiano coscienza di se stessi. Essi non sono rappresentabili perché la nuova configurazione del mercato del lavoro mette in crisi il sindacato tradizionale.

Una politica per l’inferno
L’inferno in cui vivono i precari ha la struttura del controllo dello Stato. Standing, riprendendo da Bentham il concetto di panopticon, delinea una società in cui lo Stato concede benefici ai suoi cittadini che si «comportano bene» e li tiene «reclusi […] isolati gli uni dagli altri, affinché non sia loro possibile formare nessun progetto comune». È la società del workfare ed è in questa società che il precariato si è formato ed è da questa società che la nuova classe si deve liberare.
L’inferno descritto da Standing è uno Stato che condiziona l’assegnazione delle indennità pubbliche all’assunzione di comportamenti prescritti, com’è il caso per la disoccupazione. In questo Stato i precari sono demonizzati e criminalizzati con l’accusa di non adattarsi al sistema; essi devono essere messi sotto controllo. Tutta questa sorveglianza non fa che accrescere quei sentimenti di rabbia che affliggono i precari, e indebolire i legami di comunità e solidarietà tra cittadini.

Una politica per il paradiso (ovvero cosa dovrebbero fare i precari per evadere da questo inferno?)
C’è un modo per salvarsi da questo inferno, e si può farlo attraverso la costruzione di una politica per il paradiso, che Standing stesso definisce «lievemente, ma fieramente, utopistica».
Come dovrebbe essere il paradiso dei precari? Bisogna che lo Stato metta in atto un recupero dei valori di fiducia, solidarietà e universalismo che la società capitalistica dell’individualismo ha soppresso e che dovranno servire come strumento di emancipazione affinché la nuova classe diventi tale. I precari soffrono di una cronica mancanza di sicurezza economica, e acquisirla gli permetterebbe di superare quell’angoscia legata all’impossibilità di fare progetti sulla propria vita.
Il primo passo verso l’emancipazione completa è, quindi, l’istituzione di un reddito di base universale, che si pone come prerogativa per tutta una serie di riappropriazioni, dalla sicurezza economica al controllo del tempo di lavoro e del tempo libero, a una nuova consapevolezza nei confronti dei beni comuni, dell’ambiente in particolare.
Il paradiso dei precari è il luogo dove il multiculturalismo e la pluralità delle identità vengono riconosciute, in cui viene riconosciuto un pacchetto di diritti, in cui l’istruzione è continuativa e vi sono possibilità di apprendimento in qualsiasi momento della propria vita, in cui ci si riappropria della gestione del proprio tempo di lavoro e del proprio tempo libero, in cui vi sono organismi di rappresentanza fatti dai precari stessi, in cui lo spazio pubblico è uno «spazio pubblico di qualità», che rispetti l’ambiente e che dia la possibilità di creare luoghi di incontro e di discussione.
Il precariato ha, infatti, bisogno di porre in essere meccanismi che consentano di realizzare una democrazia deliberativa, che operi una responsabilizzazione dei lavoratori, in questo caso dei precari, attraverso il dovere della partecipazione alla gestione e alla vita della cosa pubblica.
I precari, secondo Standing, non sarebbero pericolosi per il loro potenziale rivoluzionario e di lotta contro i precarizzatori. La loro rabbia e loro frustrazione, causate dalle condizioni lavorative e di vita, li rende piuttosto pericolosi nei confronti di se stessi e di quelle classi che considerano più deboli e verso coloro che un lavoro stabile, loro malgrado, ce l’hanno. L’auspicio sembra essere quello di una compensazione della situazione di precarietà attraverso un nuovo welfare state più giusto ed equo.
Quello che ci sembra chiaro, oggi, è che non sarà lo Stato, né saranno i precarizzatori, a rimborsarci dell’insicurezza e della frustrazione. Né questo potrà avvenire attraverso una qualche forma di mediazione sociale. La precarietà non è indennizzabile.
Il quadro che Standing ci propone lascia il precariato in condizione subalterna e sfruttato, seppur dietro compenso. Ciò che egli non prende in considerazione è la necessità di un rovesciamento dei rapporti di forza tra precarietà e profitto, e la capacità dei precari di colpire il capitale laddove si riproduce: questa sarebbe una reale «novità esplosiva».

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