giovedì 18 aprile 2013

Addio Pd di Marco Damilano, L'espresso


Addio Pd

«Era una situazione talmente esplosiva che per far saltare tutto sarebbe bastato gettare in sala anche un fiammifero spento», commenta un vecchio parlamentare del Pci nella piazza Capranica trasformata in una bolgia. Sono le undici e mezzo di sera, l’assemblea del Pd si è conclusa da poco, fuori ci sono manifestini strappati, telecamere abbandonate, un megafono, dirigenti in fuga.
Sarebbe bastato un fiammifero spento, già, ma la candidatura di Franco Marini formalmente proposto da Pier Luigi Bersani ma in realtà scelto dal Cavaliere-Caimano-Giaguaro ha l’effetto di un detonatore, scatena una guerra termonucleare nel cuore del Pd, una riunione pazzesca, una notte mai vista, neppure nella storia tormentata delle elezioni presidenziali della Prima Repubblica. All’epoca, nella Dc, si usavano con millimetrica precisione i pugnali e i veleni, tutti ossequiavano il candidato ufficiale e poi lo impallinavano il giorno dopo con il voto segreto. Ieri notte no, alla vigilia della votazione più importante il Pd si spacca in mille pezzi davanti a tutti. E ci sono nuovi protagonisti, imprevisti. Fanfani non sarebbe mai finito in liveblogging, nessuno ha mai ispezionato la carriera di Forlani su wikipedia, meno che mai gli aspiranti franchi tiratori avrebbero rivelato le loro intenzioni su facebook. E mai il capo della cordata ribelle sarebbe andato in tv a sparare sul quartier generale come fa Matteo Renzi mentre il povero Bersani prova a domare la platea infuriata.
Ci vorrebbe un politico ruvido e carismatico, un sindacalista rotto a ogni furbizia, ci vorrebbe un Franco Marini per placare l’ira dei parlamentari Pd e portare l’assemblea a una conclusione positiva. Una volta, era una sera di nove anni fa, durante a cena con Arturo Parisi e Rosy Bindi dopo un incontro a Sinalunga, Marini raccontò di quella volta che da segretario della Cisl lo chiamarono in piena notte perché i suoi delegati non volevano firmare il contratto della funzione pubblica. Si alzò, si vestì, andò davanti al ministero, convocò i suoi. «Non volete firmare? Benissimo!». E si mise a strappare il contratto, pagina per pagina. Finché furono proprio i contrari a bloccarlo: «Basta! Firmiamo». Ma Marini, qui dentro, non c’è. Non è stato eletto senatore alle elezioni di febbraio. I candidati, i cavalli di razza, i Prodi e gli Amato, i D’Alema e i Veltroni, i saggi come Castagnetti, tutti quelli che saprebbero guidare gli umori del gruppo sono fuori di qui, paradossi della rottamazione. E il segretario Bersani, nel momento della verità, si affloscia, si immalinconisce, quando propone Marini la sua voce è così flebile che lo sentono e applaudono (per cortesia) solo nelle prime file. Dietro ululati, proteste. E standing ovation per chi va al microfono a dichiarare il dissenso. Come Walter Tocci, sostenitore di Rodotà e di Prodi, che fa l’elogio del franco tiratore: viene giù il teatro.
Contro Marini parlano i renziani e la sinistra del partito, Pippo Civati lucido e efficacissimo e Matteo Orfini che chiede di ripensarci prima dello schianto, lo yin e lo yang, i deputati di prima nomina, giovani turchi o meno sono i più inferociti, «noi non lo votiamo». E non è un problema di persona, benché il caratteraccio di Franco non aiuti: in molti lo conoscono solo perché nelle assemblee e nelle direzioni del partito interviene per rimbrottare ogni istanza di rinnovamento, come fece sei mesi fa quando si schierò contro le primarie: «Sono una cazzata, spaccheranno il partito», addentò la pipa. Aveva torto, ma almeno Marini è un combattente a viso aperto. Mentre il gruppo dirigente del Pd è uno stato maggiore che si è fatto imporre il candidato dal nemico Berlusconi e non sa neppure spiegare perché. Perché è stata cambiata la linea di due mesi, che cercava un rapporto con il Movimento 5 Stelle per un governo «del cambiamento» e chiudeva ogni strada al rapporto con il Cavaliere.
Invece, ieri sera bastava girare l’angolo per incontrare uno dei vincitori della serata: Silvio Berlusconi. All’assemblea del Pdl, durata pochi minuti, tutt’altro clima. La Santanché in bicicletta. Formigoni rivestito con la fodera del suo divano. Giovanardi felice: «I due grandi partiti si sono messi d’accordo…». Ma anche il Cavaliere ora ha paura. Incassa un Pd in disfacimento, ma l’accordo stipulato ieri pomeriggio con Bersani non c’è più e il voto di questa mattina, probabilmente, stabilirà che in questo Parlamento lo spazio per le larghe intese è strettissimo, sono piccole, piccolissime intese.
L’altro vincitore della serata si chiama Beppe Grillo. Il Pd voleva spaccare 5 Stelle, ma è finita esattamente in modo opposto: è stato lui, entrando finalmente in partita con il nome di Stefano Rodotà, a distruggere il Pd e il centrosinistra. Vendola voterà per il giurista più amato a sinistra, addio alleanza dell’Italia bene comune. Nel Pd, alla fine, il voto palese stabilisce 222 sì per Marini e novanta no, il rifiuto di decidere a voto segreto accende ancora di più gli animi. Fuori una piccola folla – ci sono anche i professionisti della piazza come Mascia – insulta i parlamentari del Pd. «Traditori!». E perfino: «Democristiani!». Sbagliato, perché a chiudere l’accordo con il Giaguaro ieri è stato il post-comunista Bersani. Ma è la fotografia di un partito che non si tiene più insieme. Con un pezzo pronto a votare Rodotà con la sinistra. E un altro che ormai punta alle elezioni e a un leader chiamato Matteo. Che follia, tenerlo fuori Renzi, ieri sera. Ma per far scoppiare il Pd non ci voleva il Rottamatore, bastava un fiammifero spento. E questa mattina vedremo se ci sarà la deflagrazione del Pd in aula.
da L’Espresso blog

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