venerdì 24 maggio 2013

“Piano giovani” Letta-Alfano: corso di sopravvivenza di Alessandro Robecchi, Micromega

Non so esattamente come reagirei se fossi giovane all’annuncio di un imminente “piano giovani” a cura del governo Letta-Alfano. Suggerisco alcune ipotesi.
Uno. Invecchiare velocemente. Due. Darsi alla macchia. Tre. Auspicare serenamente il superamento della riforma Fornero che va urgentemente riformata, a quanto pare dagli stessi che votarono la riforma Fornero – non alcuni decenni fa, ma solo pochi mesi addietro – tra applausi e attestazioni di stima per il ministro più pasticcione che abbia mai calcato le scene. Vediamo il dettaglio.
Darsi alla macchia costa. Invecchiare rapidamente produrrebbe innegabili vantaggi per la società. Usando alcol e fumo, per esempio (due innegabili fattori di invecchiamento) si pagherebbero più tasse, magari finendo per aiutare gli egoisti che decidono di restare giovani e approfittare del “piano giovani” del governo. Riformare la riforma Fornero sembra invece la via maestra. Con il che capirete tutti che essere giovani, oggi, da queste parti, è uno sport estremo, tipo il salto con l’elastico dal cavalcavia più alto del mondo, con il serafico pensiero che l’elastico te lo aggancia il governo.   
A quanto si capisce dalle prime indiscrezioni sul “piano giovani”, la prima mossa è incrociare le dita. Fatti gli opportuni scongiuri, bisogna attendere il 29 maggio e sperare che la Ue revochi la procedura di infrazione per l’Italia. In quel caso, avremo dei soldi da spendere per sostenere il lavoro, cioè pagare la cassa integrazione per chi non ce l’ha. Seconda astuta mossa: rendere più facilmente rinnovabili (con intervalli minimi) i contrattini precari su cui campa (malamente) mezza Italia.   
Si scontrano qui due filosofie. Astutamente, la Fornero pensava che aumentando l’intervallo tra un contratto e l’altro le aziende avrebbero assunto i precari. Ancora più astutamente, le aziende li hanno licenziati prendendo in carico altri precari da licenziare subito dopo. Ora si sostiene invece che riducendo l’intervallo tra un contrattino e l’altro le aziende preferiscano tenersi i precari usati invece che renderli al concessionario in cambio di quelli nuovi. I contrattini perderebbero le loro “causali”, cioè ti facciamo un contratto, ma perché e percome non lo scriviamo. In questo modo tutto diventa più facile (per le aziende), aumenta la ricattabilità di chi lavora, il precariato diventa stabile, la regolarizzazione vi fa marameo.
Come diceva quello che sfrecciava davanti alle finestre del secondo piano cascando dal tetto: fin qui tutto bene. Le cose si complicano quando si mette mano alle questione generazionale. I giovani non lavorano perché i vecchi lavorano troppo a lungo. E questo, per inciso, lo dicono gli stessi che hanno votato la riforma delle pensioni (ancora Fornero) che allungava l’età lavorativa. Ora si teorizza che facendo dei contrattini part-time ai padri, potremo per-metterci il lusso di fare dei contrattini a termine ai figli. Con il che, come si capisce, si dà l’ultima martellata all’unico vero e funzionante welfare italiano, la famiglia. Dalla formula “Non-ho-un-lavoro-grazie-a-Dio-ce-l’ha-mio-padre”, si passerà alla nuova formula: “Ho-un-lavoro-precario-esattamentecome-mio-padre”.
Sistemato il conflitto generazionale: prima si è cominciato a chiamare “privilegi” i diritti. Poi si è detto che molti non avevano diritti per colpa dei “privilegi” della generazione precedente. Ora si sistemano tutte le generazioni. Niente diritti e niente privilegi. Un piano per i giovani. Diabolico.  

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