giovedì 19 settembre 2013

I “precari” avranno mai una coscienza di classe? Il ruolo della scuola pubblica Christian Raimo, L'inkiesta

Che vuol dire quindi cultura del lavoro?
Mio nonno – operaio – non credo abbia mai letto molto Hegel o Marx in vita sua ma mi ha trasmesso quel paio di cose fondamentali: 1) che il lavoro nobilita nel senso hegeliano, in quanto dà all’essere umano la consapevolezza di poter trasformare la natura; 2) che una coscienza di classe è sentita prima ancora che teorizzata. La condizione sociale di mio padre è, a miei occhi, il frutto migliore di una comunità fondata sul lavoro, come Costituzione aveva voluto all’articolo 1. La sua etica lavorista e aziendalista, il suo rapporto con gli altri dipendenti e con i sindacati, sono stati la forma di un mondo per cui per dirla – contro la Thatcher – non gli individui ma la società esiste, ed è fatta in primis dalle persone che lavorano insieme. Nessuno della mia famiglia ha fatto politica attivamente: questa cultura (ossia questa consapevolezza) era immediata. Passava, sono convinto, attraverso grandi e piccole narrazioni. Ho presente che nelle storie che mi raccontavano da bambino mio nonno e mio padre c’erano i racconti della guerra ma c’erano anche un sacco di racconti di fabbrica: scioperi, vertenze, aneddoti della vita interna tra la mensa e i laboratori.
E oggi? Mi viene in mente quello che dice Stanley Aronowitz in Post-work: non esiste una coscienza di classe se non c’è un racconto di classe, non esiste una rivendicazione di diritti sul lavoro se prima non c’è un racconto comune su cosa vuol dire lavoro. Ossia, per farla breve, esiste il movimento operaio, la cultura operaia, se ci pensate con i suoi canti, i suoi riti, le sue feste, le sue date fondamentali, i suoi eroi, ed è una meravigliosa e secolare storia; non esiste un movimento precario, una cultura precaria. Nonostante, per fare un esempio sempre dal mondo anglofono, Guy Standing abbia provato un paio di anni fa a realizzare nel suo libro The precariat. The new dangerous classun’operazione di sintesi storica e geografica dei nuovi lavoratori globali. Ma è una forzatura, a mio avviso, una sintesi in vitro. È difficile e forse impossibile definire il “precariato” una classe. Per semplici, preliminari ragioni, linguistiche prima ancora che storiche.
Precario dice in sé una condizione di debolezza, oggettiva e non soggettiva. Precario è una condizione deficitaria, semanticamente definisce per difetto rispetto a stabile. Precario è una parola onni-significante, in sociolinguistica si definirebbe un plastismo, ossia una parola talmente adattabile a tanti significati diversi da non essere più utile a dirci qualcosa. In questo senso la cultura del lavoro è oggi una questione più che una risorsa.
È difficile: A) riconoscere una condizione e B) pensare che questa condizione ci definisca e che anzi la rivendichiamo come parte fondamentale della nostra identità se questa condizione è essenzialmente dolorosa, deficitaria, mancante, spersonalizzante…
La cultura del lavoro oggi è un processo complicato perché il capitalismo avanzato è veramente molto avanzato, e mette a lavoro tutto, comprese non solo le nostra facoltà cognitive, ma anche – se ci pensiamo – le nostre psicosi. Per fare un esempio, io non sono soltanto un consumatore migliore se sono portato a fare shopping compulsivo, ma sono in un certo senso un lavoratore migliore se per esempio sono ansioso. Sono un lavoratore più produttivo se sono un manager che sviluppa una control-freakness, se sono un ufficio stampa con manie narcisistiche, se sono uno che fa più lavori e ha un bipolarismo accentuato. Già riconoscere questa condizione come una condizione patologica determinata anche dalle forme del lavoro contemporaneo non è facile. Il rischio successivo è di fare di questa condizione patologica la condizione di rispecchiamento. Un orgoglio patologico, se ci si pensa. Una coscienza di far parte di una comunità di traumatizzati vissuta come coscienza di classe.
Quale cultura del lavoro si può sviluppare da tutto questo? Come abbiamo provato a considerare, il capitalismo avanzato mette tutto a profitto. Sia il trauma che produce, sia il racconto del trauma. Non è vero che non si parli di precariato, di lavoro, etc… Ma se ne parla quasi sempre come un elemento oggettivo. In questo senso si è sviluppato negli ultimi anni un consumo culturale legato al precariato. Film, libri, canzoni, format televisivi, spot televisivi hanno raccontato moltissimo questa nuova scena sociale, questo mondo vissuto dai precari. In due modi: oggettivandolo ossia spesso neutralizzandolo (eliminandole la prospettiva soggettiva, quindi eliminandone la potenzialità di conflitto), e – passaggio ancora più importante – rendendolo merce. Mister Precarietto con i suoi 700 euro al mese, sempre a casa di mamma e papà, senza futuro chissà che farà, è diventato uno dei personaggi più diffusi delle narrazioni contemporanee. Il racconto della sfiga, della lamentazione, del paradosso di adulti che non riescono a essere adulti è diventato un genere letterario.
Ora, la domanda ovviamente è cosa si può fare per uscire dall’impasse. Io penso che una data cardinale come punto di svolta nella politica italiana degli ultimi due anni sia stata il 14 dicembre 2010. Era il giorno in cui Berlusconi riusciva ad avere la fiducia dopo lo strappo di Fini raccattandosi gli scherani di Scilipoti. Per strada a Roma c’era una manifestazione degli studenti dell’Onda che veniva attaccata dalla polizia in piazza del Popolo. Quello che mi fu chiaro lì era che la rabbia che la generazione post-Genova aveva maturato era una rabbia non ingenua, ma una specie di rabbia disincantata.
Lì in molti, chi era in strada e chi era davanti alla tv, hanno ancora potuto riconoscere che il nodo cruciale è il deficit assoluto di democrazia. Chi mi rappresenta in Parlamento, in tv, sui giornali, nella politica? Qualcuno che in questi anni non si è arreso al cinismo ha ricominciato a pensare che l’ingenuità in politica può diventare una colpa. Ciò che è venuto dopo: i referendum, le occupazioni, le manifestazioni anti-Tav, mostrano una forma nuova politicizzazione che ha bisogno di tempi lunghi, percorsi personali, fiducie, incontri… Se una condizione traumatica deve trasformarsi in una soggettività politica, occorre anche un’autocoscienza che sia in parte terapeutica. È anche normale che quindi la risposta a In che direzione lavorare? è In qualunque direzione, per me. Dovunque ci rialfabetizzi a un linguaggio comune.
Quello che personalmente non mi ha fatto diventare cinico in questi anni sono state delle comunità non politiche che svolgevano un ruolo di supplenza rispetto a questo deficit di confronto pubblico: la comunità intellettuale, le comunità religiose… per altri magari sono stati i gruppi femministi, per altri ancora i gruppi di lavoro teatrale, per altri le riviste… ognuno ha cercato in piccolo un luogo di minima appartenenza. Ora questi percorsi hanno la forza e la consapevolezza per arrivare a una convergenza?
La verità è che molte esperienze di aggregazione dal basso a sinistra si sono rivelati al massimo dei frankenstein elettorali, da Uniti contro la Crisi, Uniti per l’Alternativa, a Alba: e sono fallite nel giro di poco. Ma prendiamo l’esperienza del Teatro Valle, che arriverà a festeggiare una grande vittoria politica, a essere una fondazione. Si è visto che la forza del mettersi insieme vale se è trasformativa, non se è un’addizione. La vitalità del Valle è il principio di autocritica. Il Valle poteva essere un segno vuoto, un aggregato del peggiore centrosocialismo, non è stato così. Se doveva essere pensato come luogo di trasformazione politica doveva essere un luogo di autoformazione, che è quello che è stato e che è. Non bastava un’agenda di contenuti, ma occorreva la vita. Vuoi sapere cosa pensano quelli del Valle? Vai lì e frequenta questo posto un mese. C’è gente che cambia idea al Valle, molto; c’è gente che fa delle cose talmente belle che non ci rinuncerà per nulla al mondo. C’è un confronto continuo di idee tra persone che fanno un lavoro simile. Un confronto il cui scopo principale è ricostruire un contesto di dibattito credibile. All’inizio il principio che ci si è dato come imprescindibile era proprio quello della carità. Ossia, eravamo giunti alla convinzione che la mancanza di politica fosse stata compensata da anni con il cattivo metadone dello schierarsi: le tifoserie dell’opinionismo sono tuttora il fantasma della discussione. Quello che non facevamo da anni e che ci è sembrata un’esperienza gioiosa è stato fare assemblee, discutere fino a tarda notte, stendere documenti e passarli al vaglio di centinaia di persone, discutere, avere ragione e avere torto. Per fare questo i luoghi dovevano essere per forza neutri, da ricolonizzare… Anche per questo le occupazioni o nel piccolo quello che accaduto con TQ sono stati dei soggetti orizzontali, senza leader, non c’è nulla che non venga ridiscusso mille volte: perché si è visto come le scorciatoie sul coinvolgimento della società civile producano mostri da una parte (vogliamo, per dire, parlare della candidatura dei vari Calearo alle penultime elezioni?) e perché è diventato evidente che la ripoliticizzazione deve passare per forza per una lunga e continua autoformazione. Non è meraviglioso poter essere finalmente in disaccordo e potersi parlare? Non è meraviglioso riconoscersi nelle battaglie di qualcun altro?
Tutto questo porterà a nuove forme della democrazia che non siano i partiti né i fantasmi futuristici evocati dai Casaleggio di turno? Nuove forme della democrazia nell’era della post-democrazia, come la chiama Colin Crouch? Si può declinare così questa questione. Se sì, allora direi che prima di pensare a quali procedure sono utili per stimolare partecipazione e deliberazione, mi chiederei perché è così macchinosa e difficile la transizione da una politica che aveva fiducia nei partiti a una politica per cui quei partiti sono diventati dei mostri inutili.
Io ho una sensazione. La sensazione è che nel Novecento ci siano state delle importanti agenzie di educazione informale all’uguaglianza, che oggi sono molto più deboli.
Dove è che io ho imparato il valore dell’uguaglianza? Quand’è che l’ho vissuto questo valore? Penso prima di tutto in famiglia, nell’esperienza della fratellanza. Io ho una sorella, e credo che sia stato fondamentale sapere tutti i giorni della mia infanzia che c’era qualcuno accanto a me che aveva i miei stessi bisogni, qualcuno con cui rispecchiarmi. Questa solidarietà fraterna è stata, esageriamo, in nuce un piccolo esempio di coscienza di classe: una contrapposizione, un’alleanza buona contro i nostri genitori. Oltre la famiglia, anche la società in un modo o nell’altro era un’agenzia di educazione informale all’uguaglianza. Se mi ricordo i racconti di mio nonno, sia i racconti familiari appunto in cui parlava delle decine di fratelli e cugini con cui si doveva dividere lo spazio e il cibo, mi ricordo anche i suoi racconti di guerra e i suoi racconti di fabbrica. L’esperienza terribile della solidarietà nella guerra e anche e soprattutto la vita di fabbrica mostravano senz’appello una condizione di uguaglianza, nella fragilità certo, nello sfruttamento anche.
Oggi quest’educazione informale è molto meno rilevante nella formazione personale. Metà dei miei studenti sono figli unici, un buon quarto ha fratelli o sorelle ma di un solo genitore: quello che apprendono spesso questi ragazzi è di essere speciali, unici in qualche modo; è più difficile che sperimentino l’uguaglianza. La stessa cosa è evidente sul lavoro. Le decine di tipologie di contratto oggi disponibili sono l’indice di una frammentazione della condizione lavorativa. L’utilizzo indiscriminato delle partite Iva addirittura sottintendono una condizione di solitudine che è simile a quella della monade. Non esiste un ambiente di lavoro, l’ambiente di lavoro sei tu.
E allora la domanda che mi faccio: cosa vuol dire partecipazione oggi se non ho imparato che cos’è l’uguaglianza, se per me uguaglianza non è un valore? Secondo me l’unica agenzia forte che ancora riesce in questa pedagogia dell’uguaglianza è la scuola pubblica. Per questo penso che sia il baluardo su cui una politica di sinistra deve concentrare in modo prioritario tutte le sue energie. Come posso utilizzare nuovi strumenti di partecipazione dal basso, se non ho imparato mai a confrontarmi nemmeno coi miei compagni di classe?
Fatta questa lunga premessa mi viene da citare un libro del 2011 di Donatella Della Porta, Democrazie (edito da il Mulino)che con un ottimismo contagioso, fa una lunga disamina del crollo delle ideologie novecentesche e della fiducia della forma-partito, e poi racconta come dai movimenti degli anni Sessanta fino al Forum di Porto Alegre fino ai bilanci partecipativi si possa oggi imparare molto.
Ma il discorso sulle nuove forme di democrazia è tutto da costruire, non esistono soluzioni facili. Oggi i social network o la rete in generale darebbero da sé la possibilità di rendere più democratico il discorso pubblico. Ma questo, vediamo (anche se sappiamo quanto un twitter o un facebook hanno contribuito a trasformazioni epocali come le complicate primavere arabe) non è un processo automatico. La rialfabetizzazione politica è un processo lungo: quando negli ultimi anni ho ricominciato a partecipare a assemblee politiche, ho visto che molte persone non avevano neanche la capacità di stare a sentire senza parlare addosso, ho visto conflitti personali che non riuscivano a essere trasformati in contrasti di idee… A fare politica si impara col tempo.
Quello che ho riscontrato che le persone che venivano da esperienze di discussione di gruppo – da ambienti cattolici o femministi, per esempio – avevano per esempio una maggiore capacità di gestire le dinamiche collettive. E questo è un po’ un discrimine: fare un monologo di due ore in un’assemblea a favore della democrazia partecipativa – ogni riferimento a Grillo è puramente casuale – ecco è un tipico esempio di quello che accade all’inizio di questa rialfabetizzazione politica. Si parte dagli errori.
Perché la verità è che io sono, come molti della mia generazione, un figlio del consumismo. Credo di aver passato, se sommiamo le ore, almeno due anni buoni della mia vita vigile a guardare o a ascoltare pubblicità. Credo di aver passato altri due anni buoni della mia vita in fila in macchina. Ecco, la mia educazione politica è stata ed è un continuo tentativo di smarcarmi da una società che dia per scontato il linguaggio pubblicitario e l’ideologia dei consumi. Oggi credo che se dovessi sintetizzare in una frase la mia prospettiva politica, farei mie le parole di Godard: «La pubblicità è il fascismo della nostra epoca». Forse, rispetto a qualche anno fa, penso di essere meno isolato a pensarla in questo modo.
Anche la mia formazione politica rispetto a dei temi come la decrescita, l’ecologia, la sostenibilità, è avvenuta attraverso l’immaginazione di un sistema socio-economico diverso da quello capitalistico consumistico. Fondamentalmente, un mondo che non condivide il feticismo per le merci che invece molti di noi hanno bevuto con il latte (letteralmente, se uno pensa ai biscotti del Mulino Bianco). Questa consapevolezza politica può partire solo da un’esperienza personale. Non si difende il vegetarianesimo se non si è vegetariani. Non si difende il consumo critico se non lo si pratica. In questo senso il discorso sulla conversione ecologica che fanno Alexander Langer o Guido Viale è un modello di politica di lungo respiro che, dopo anni di marginalità (il suicidio di Langer è difficile non interpretarlo anche come una delusione politica), può finalmente diventare centrale.
L’aspetto che per me oggi rimane una risorsa enorme da un punto di vista politico, e che invece è sottosfruttata politicamente a sinistra, è la forza ideale del cristianesimo. Se diventano concetti chiave dei nuovi movimenti politici quello di beni comuni, quello di cooperazione, quello di consumo critico, è chiaro che ci può essere una convergenza tra la capacità profetica della Chiesa, che questo Papa ha rialimentato, e le nuove militanze. Come accadde con il pacifismo e il no-global negli anni Novanta, prima che questa sintonia venisse – insieme a molto altro – distrutto a Genova.
In tutto questo occorre capire che ruolo centrale hanno quelli che in questi anni sono stati i presìdi della democrazia. Il ruolo centrale che per me, abbiamo detto, ha la scuola. La scuola, l’università, le biblioteche, i giornali. Anzi, a scandirlo meglio: i maestri, i professori, i bibliotecari, i giornalisti. Una grande trasformazione culturale (che vuol dire in seconda battuta sociale e politica) è possibile soltanto se i protagonisti di questa trasformazione sono i mediatori culturali. Essere educati all’equità o alla sostenibilità vuol dire apprendere un diverso modello di vita comune. In questo senso credo che oggi una nuova buona politica in Italia deve pensare di tesaurizzare quella militanza informale, non espressamente politica, che in questi anni berlusconoidi di scandali giudiziari e incompetenze politiche ha svolto un enorme ruolo di supplenza. Se uno si domanda qual è l’informazione critica che ci ha accompagnato pensando un diverso tipo di società, di cittadinanza, etc… certo non mi viene da pensare al giornalismo d’inchiesta, anche a quello meritorio, che però ha finito con l’esaurire nella dimensione legale il bisogno di giustizia sociale.
Come scriveva Pierluigi Sullo in una sua puntata di democrazia km zero di qualche anno fa: mi sta bene imparare dal Fatto o da Report che per l’appalto di quell’inceneritore o di quel cantiere i politici Tizio e Caio hanno intascato varie tangenti, ma la domanda più importante in questo modo viene inevasa: s’aveva da fare quell’inceneritore? s’aveva da aprire quel cantiere? Il legalismo di questi anni ha generato mostri. Se uno va in libreria vede che il settore saggistica è pieno di libri-inchiesta, una grande Laqualunquopoli. Questo modo di informarsi, questo modo di studiare la società intorno a noi, ci deresponsabilizza, ci rende passivi da un punto di vista etico, illudendoci di darci una prospettiva politica. Su questo tipo di deresponsabilizzazione di massa sono cresciuti e stanno ancora crescendo i fenomeni dell’antipolitica: il travaglismo, il dipietrismo, il grillismo, anche il savianismo. Che sono significativi certo ma per come evidenziano una richiesta d’impegno. Una buona politica dovrebbe essere capace di trasformare questa richiesta in un processo di lungo periodo. Nutrire gli strumenti di educazione alla cittadinanza invece di quelli del consumismo dell’impegno.
Ora, come mutare questo consumismo dell’impegno in un impegno reale, in una politica praticata? Qui farei un discorso duplice. Il primo e scontato è il coordinamento, e la messa a frutto di esperienze di lotta diverse, diffuse sul territorio, con obiettivi e metodi differenti. Il punto, per dirla in termini marxiani, è capire come far crescere una coscienza di classe e che cosa vuol dire una nuova classe. È per me evidente che nei nuovi movimenti sociali non si è formata ancora una nuova coscienza di classe perché non esiste un’identità di classe. L’identità culturale, abbiamo detto, precede quella politica. Ma la coscienza di classe non può non passare da un percorso personale di conversione, di cambiamento di mentalità, un ripensamento del nostro modo di consumare e quindi di vivere.
Il secondo aspetto che secondo me va tenuto in considerazione è quello performativo. Ai movimenti sociali in questi ultimi anni è mancata un po’ la capacità di ottenere un consenso – direi più che mediatico – carismatico. Le forze antisociali, antidemocratiche, antidiritti si fanno forza di un’enorme capacità di autopromozione. Si scambia l’aspetto comunicativo per quello mediatico, per quello parresiastico (alla Saviano per dire, ossia nell’incarnazione di un’ideale), mentre io penso che manifestare una giusta conflittualità sociale in un mondo come quello di oggi, dove l’agire è quasi sempre parola, vuol dire diventare molto bravi nella performatività. La sfiducia nella forme classiche della rappresentanza così come l’incantamento per dei guitti come Grillo deriva anche dall’incapacità di molti politici di trovare un codice comunicativo che sia al tempo stesso convincente e bello. Il giustizialismo ha fatto leva molto sulle nostre passioni tristi, le rivendicazioni, le recriminazioni, i risentimenti: vorrei immaginare una pratica politica capace di tesaurizzare forme di retorica non pubblicitaria, far nascere passioni non tristi, e addirittura se possibile pensare una pratica politica di tipo artistico. Ma qui mi fermo, non voglio cominciare voli pindarici che mi facciano sembrare un velleitario.

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