giovedì 12 settembre 2013

La deRiva d’Italia


famiglia2Anna Lombroso per il Simplicissimus
Una volta c’erano dinastie di imprenditori. Vivevano a Lubecca, Amburgo, Londra, Torino, in case comode ma austere. Dietro facciate severe si svolgevano esistenze dedite all’accumulazione tramite il lavoro  in ditte commerciali, banche, industrie. Anche allora c’erano greggi di pecore nere, ribelli e trasgressive, chi per la passione del gioco, chi delle donne, che dell’assenzio, chi del rischio e dell’avventura. Qualche figliol prodigo usciva dalla Belle Epoque per rientrare nei ranghi, o in guerra, o in sanatori incantati, qualcuno spariva ai margini della società. In letteratura esistono innumerevoli epopee del declino di famiglie borghesi travolte dalla modernità, da crisi che sembravano uniche e irripetibili, dalle tragedie e dai massacri del secolo breve, ma anche dalle sue occasioni eroiche di riscatto degli sfruttati.
Ma chi si sarebbe immaginato che stirpi di titani, magnati, rapaci e avidi avventurieri, amanti del rischio e delle scommesse imprenditoriali, qualcuno visionario, qualcuno filantropo, avrebbero lasciato il posto a semplici criminali, sciagurati ricattatori, incapaci cialtroni, approssimativi e incompetenti perfino nell’imbroglio, con l’indole dell’assassinio su larga scala, come permette ormai la nostra contemporaneità, tramite veleni, cancro, disperazione, espropriazione di diritti e lavoro.
Chi avrebbe detto che le uniche produzioni dei nostri giorni sarebbero consistite in inquinamento, rifiuti e polveri? Che lo scorrere di denaro sarebbe stato quello della corruzione? Che l’indole al rischio e all’investimento si sarebbe indirizzata solo verso il gioco d’azzardo della turbo-finanza? Che i loro soci sarebbero diventate le mafie e i politici sleali? Che avrebbero incaricato i loro manager unicamente della missione di modernizzare lo sfruttamento tramite la precarietà, di aggirare le regole e infrangere le leggi, di passare mazzette e ingannare i cittadini, di muovere guerra alle rappresentanze, corrompendole o isolandole?  Che  avrebbero protervamente tradito il loro Paese e la sua economia e il suo popolo, evadendo le tasse, sottraendo attività, disperdendo risorse e innovazione e derubando soldi pubblici perseguendo parassitismo e assistenzialismo, come business?  Non l’unico, perché il vero brand è il ricatto.
E infatti Riva Acciaio   ha annunciato oggi con  un comunicato  la cessazione da oggi di tutte le attività dell’azienda, esterne al perimetro gestionale dell’Ilva, e relative a sette stabilimenti in cui sono impiegati circa 1400 persone. Un provvedimento motivato come conseguenza del sequestro preventivo penale del Gip di Taranto su beni e conti correnti per 916 milioni di euro. Verranno quindi “lasciati in libertà” circa 1400 dipendenti di sette siti produttivi che il gruppo Riva possiede in tutta Italia. Le aziende interessate, nel dettaglio, sono gli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco); nel capoluogo ionico l’unica società è Taranto Energia, che conta 114 dipendenti. L’azienda ha già convocato per domani i sindacati di categoria, pare prospettando problemi per il pagamento degli stipendi.
Proprio come quelli del pizzo, proprio come la criminalità organizzata, proprio come Marchionne quando un tribunale  gli dà torto i Riva motivano la decisione come “necessaria,    poiché il provvedimento di sequestro preventivo penale del Gip di Taranto, in base al quale vengono sottratti a Riva Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale ciclo di pagamenti aziendali, fa sì che non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività”.
Non ci stupisce, se i loro operai e i cittadini dei loro siti industriali da anni subiscono il diktat:  o posto o salute, se devono subire l’affronto della scelta tra diritti e salario, se l’opzione è tra rinuncia o delocalizzazione. 
È lo spirito del tempo, in fondo, se un Paese deve subire il ricatto di un condannato per evasione e dei suoi soci di governo interessati a tutelare i torti di un ceto dirigente miserabile, impegnato in tutte le guerre, quelle mosse dal partner americano, quelle contro gli acquirenti delle loro armi cui ora pensano di rivolgerle, ma soprattutto quella contri popoli, in modo da tradurli in eserciti assoggettati e mobili.
Ma cere guerre sono suicide, se questi sono i generali, che nemmeno si accorgono che forse sarebbe il momento di salvare il mercato dal loro capitalismo e che anche sul Titanic è possibile un ammutinamento.

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