sabato 14 settembre 2013

WAR! di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives
( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*
 
Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.
Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.
Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.
Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.
Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.
Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.
Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.
Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.
 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.
Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.
Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti [...]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra [...]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue [...] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.
Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.
Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.
Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.
Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.
Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.
L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).
E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).
Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.
Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.
Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.
La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.
L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.
La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.
Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.
Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .
Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.
Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa determinante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere”***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.
Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.
Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti”*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.
Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.
 
 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).
 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.
 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21
 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3
 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

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