mercoledì 30 ottobre 2013

Fiorentino Sullo e la rendita immobiliare. che cosa è cambiato. Fonte: Eddyburg | Autore: EDOARDO SALZANO


Un vecchio articolo dell'urbanista Edoardo Salzano da Foedus. Culture economie e territori, rivista quadrimestrale, n 29, 2011. Attualissimo, purtroppo.

Tra gli studiosi della città (un po' meno tra quelli della società) Fiorentino Sullo è noto per la sua proposta di legge urbanistica, elaborata nei primi anni 60, presentata nell'estate del 1962 e clamorosamente bocciata nella primavera del 1963. Sullo era allora democristiano e ministro per i lavori pubblici. Fu sconfessato dal suo stesso partito (segretario era Aldo Moro) in seguito a una campagna di stampa dai toni così feroci come solo negli anni recenti li abbiamo sentiti riecheggiare di nuovo. Non c'erano allora né “il Giornale” né “Libero”, ma c'era in compenso il “Tempo” di Roma che svolse un analogo ruolo. L'accusa che gli si rivolgeva era di voler togliere la casa agli italiani. Si affannò a dimostrare che le accuse erano fantasiose bugie ma non ci riuscì. Già allora l'informazione corretta era molto difficile.
La sua proposta era innovativa per la realtà italiana. Sviluppava gli elementi positivi già introdotti nella legislazione italiana dalla legge urbanistica del 1942, adeguandola alla nuova realtà del paese: l'accresciuta dinamica insediativa, le consistenti differenze nell'organizzazione del territorio, la dimensione di massa della riconquistata democrazia. L'adeguamento alla nuova realtà imponeva di fare i conti con quello che era stato il dominus dell'espansione urbana e la matrice della forma sciagurata che le sterminate periferie avevano assunto nei primi tre lustri del dopoguerra: bisognava fare i conti con la rendita fondiaria urbana.
Il ministro democristiano ci provò, con prudenza, ed elaborò la sua proposta. Si rifaceva all'insegnamento degli economisti liberali. Si riallacciava a principi che erano stati trasformati in leggi negli anni della destra storica, della sinistra storica e del giolittismo. Applicava strumenti che erano stati adoperati ampiamente negli anni del regime fascista. Ma questo non bastò a salvarlo. Come non gli bastò dimostrare che intendeva applicare in Italia la stessa politica fondiaria urbana che aveva reso civili le periferie delle città di più evoluti paesi europei.
Riflettendo su quell'esperienza mi viene da pensare che non molto è cambiato in Italia, da allora a oggi, quanto meno per due profili: per la tendenza perniciosa a ignorare la storia del nostro paese, e per l'ugualmente pervasivo e letale provincialismo pratico. Due aspetti della medesima miopia, l'una nel tempo, l'altra nello spazio.
Le due ragioni di Fiorentino Sullo per contrastare la rendita
É opportuno precisare quale fosse l'obiettivo che Sullo si poneva nel contrastare la rendita fondiaria urbana. La rendita fondiaria urbana: cioè quell’elevatissimo gradiente che gratifica il proprietario del suolo quando il prezzo, da quello del terreno agricolo, ascende a quello del terreno edificabile.
Dalla lettura delle pagine che scrisse all'indomani della sua sconfitta (Sullo, 1964) emergono due ragioni sostanziali: 1. l'enorme incremento del prezzo dei terreni, che si manifestava quando questi da agricoli divenivano idonei all'edificazione, incideva in modo insopportabile sul prezzo delle abitazioni, delle quali c'era un grande bisogno a causa sia dell'entità delle migrazioni interne sia dall'esigenza di migliorare le condizioni di abitabilità; 2. l'entità della rendita urbana e la sua appropriazione da parte dei proprietari facevano sì che forma e struttura della città fossero determinati dall'unica regola del massimo sfruttamento economico d'ogni porzione di suolo, realizzando periferie invivibili.
Sullo insiste molto sulla descrizione delle trasformazioni che avevano caratterizzato l’assetto territoriale e demografico del paese negli anni della ricostruzione postbellica e sulle ragioni che pretendevano dall’azione pubblica un governo del territorio e del mercato capace di abbattere in misura consistente il prezzo delle case. Su questo gli incrementi della rendita fondiaria urbana incidono in modo insostenibile, sia per i bilanci delle famiglie che per il potere pubblico, che deve provvedere sia ad assicurare il godimento dell’abitazione per quei ceti che non possono accedere al mercato sia ad arricchire la città delle dotazioni che le rendono cosa diversa, e più civile, che un mero ammasso di case e capannoni.
Ed egli insiste ugualmente sul denunciare il risultato funzionale ed estetico dell'appropriazione privatistica della rendita urbana. Per effetto di questa «la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli o medi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni a mezzo delle maggiori altezze dei fabbricati e che si pongono in netto antagonismo con i cittadini non interessati alla speculazione, i quali chiedono spazio per i veicoli ed aria per le persone. E quindi riduzione al massimo della densità fabbricativa» (Sullo, 1964, p.61). Cita, proposito delle conseguenze nefaste della rendita urbana, classici della cultura urbanistica. Cita Gustavo Giovannoni, e cita Camillo Sitte: «I prezzi elevati dei terreni - scrive Sitte - spingono i costruttori alla loro massima utilizzazione possibile; è questa la ragione per cui molti dei più attraenti motivi dell’ architettura cadono a poco a poco. in disuso ed ogni lotto fabbricabile dà luogo ad un blocco squadrato» (Sitte, 1889).
Cita con ampiezza Hans Bernoulli, del quale riporta un lungo brano nel quale lo studioso elvetico racconta (dice Sullo) «l'assurdo di un’urbanistica che si sviluppi consentendo l’anarchica utilizzazione del suolo da parte di ciascun proprietario privato» (Bernoulli, 1946). Fa sue le conclusioni di Bernoulli: «La nuova città, i nuovi quartieri abbisognano . di territorio; debbono liberamente disporre del terreno su cui sorgeranno, liberi e disimpegnati per poter erigersi e svilupparsi secondo le migliori norme. Perché il suolo corrisponda ad un compito così nuovo e di così diversa qualità, è necessario rimuovere con sicurezza e con tranquillità le suddivisioni attuali per dar luogo a quella nuova» (Bernoulli, 1946) La proposta di Sullo
Dall’intreccio tra queste due ragioni nasce la sua proposta, volta a impedire che negli anni successivi la prosecuzione dei trend espansivi della città producesse effetti sociali analoghi a quelli che si erano registrati nel periodo precedente: pesante incidenza sui bilanci delle famiglie, assenza delle elementari condizioni d’igiene e di vivibilità, sovraffollamento, disagio abitativo e urbano.
L’attenzione era volta all’espansione delle città. Lo strumento era quello impiegato dagli stati dell’Europa nei quali il welfare urbano si era affermato più che in Italia: l’acquisizione preventiva da parte del comune delle aree d’espansione individuate dai piani urbanistici, con un indennizzo commisurato al valore agricolo; la progettazione dei nuovi insediamenti da parte della pubblica amministrazione; la realizzazione, da parte del comune, di tutte le urbanizzazioni primarie e secondarie, tecniche e sociali; la cessione agli utilizzatori, privati e pubblici non della proprietà del suolo, ma del diritto di utilizzarlo per un periodo determinato, a un prezzo corrispondente alla spesa sostenuta della pubblica amministrazione.
La scelta della cessione temporanea e non della proprietà (“diritto di superficie”) avrebbe consentito al comune di rientrare in possesso delle aree nel momento in cui l’edificato fosse divenuto obsoleto e si fosse voluto modificare l’assetto dell’area.
La violenta reazione del blocco sociale e politico formatosi attorno alla grande proprietà fondiaria ed edilizia indusse la DC ad abbandonare, come sappiamo, la proposta di Sullo. Se il suo iter fosse proceduto, sarebbero venute alla luce (e avrebbero potuto essere risolte) alcune contraddizioni che la legge non superava. In particolare, la legge introduceva una disparità di trattamento tra i proprietari delle aree non ancora urbanizzate, soggetti all’espropriazione e quindi privati dalla possibilità di lucrare della rendita urbana, e i beneficiari del diritto di superficie, che avrebbero potuto godere degli incrementi della rendita edilizia (cioè del trasferimento della rendita dal fondo all’edificio). Una seconda disparità si sarebbe manifestata tra gli espropriati e i proprietari degli immobili (aree ed edifici) nella città consolidata. Insomma, ad alcuni sarebbe stato lasciato il privilegio di lucrare sull’incremento della rendita (la quale aumenta all’aumentare delle aree fabbricabili) e ad altri no.
La prima debolezza intrinseca della proposta sarebbe stata certamente riparata ricorrendo all’esempio della legge 167/1962 (una sorta di anticipazione parziale della legge urbanistica), e cioè mediante il controllo dei prezzi delle case costruite sui terreni divenuti pubblici. La seconda (cioè la disparità tra i nuovi insediamenti e la città esistente) avrebbe richiesto provvedimenti di carattere più generale in materia di diritto proprietario e di fiscalità pubblica: cioè il prelievo generalizzato di una parte almeno, ma consistente, del plusvalore determinato in relazione alla crescita e al miglioramento della città[1].
Le ragioni dell’etica e dell’economia
Se riflettiamo oggi sulla posizione di Fiorentino Sullo per aiutarci a ragionare sull’oggi e sul domani è necessario accennare a un’altra ragione della sua proposta: una ragione che parte dall’etica per prolungarsi nell’economia.
Nel difendere la sua proposta Sullo ripete che si deve incidere seriemente sugli alti costi dei suoli urbani, il che è possibile solo se si espropria, urbanizza e rivende le aree a chi ha bisogno del suolo per costruire. E prosegue: «Se milioni di cittadini ci guadagnano, c’è qualcuno che ci perde. E che strepita. Ma chi ci perde, perde arricchimenti iniqui. Non ciò che è suo, ma ciò che, per fortuite coincidenze, gli viene, con l’attuale sistema delle leggi, regalato dalla collettività» (Sullo, 1964, p. 49).
Sullo è insomma pienamente consapevole di una realtà che era ben nota alla cultura liberale. Una realtà che voglio ricordare in questa sede.
Delle tre forme di reddito (salario, profitto, rendita) nelle quali si divide la torta della ricchezza nazionale, la terza, la rendita, è l’unica che non corrisponde ad alcuna logica d’interesse sociale e a nessun contributo del soggetto percettore all’attività economica. Se vogliamo rifarci alla logica dell’analisi liberale possiamo dire che il salario è il corrispettivo del lavoro, il profitto è il corrispettivo della capacità imprenditiva, e la rendita compensa unicamente il privilegio proprietario. Se vogliamo riferirci a una logica sostanziale, sappiamo che il salario paga la sussistenza e la riproduzione del lavoratore, essenziale per qualsivoglia processo produttivo; che il profitto costituisce, oltre alla remunerazione dell’attività imprenditoriale, il miglioramento – attraverso l’accumulazione - delle condizioni della produzione; che la rendita costituisce un mero prelievo della ricchezza prodotta, in nome di una posizione di potere.
Il riferimento di Sullo è costituito dalla dottrina liberale. Cita un testo pubblicato nel 1900 da Luigi Einaudi proprio ragionando sulla rendita determinata dall’edificabilità dei suoli:
«Il caso dei terreni edilizi [così Einaudi definisce i suoli edificabili, distinguendoli da quelli destinati agli usi agricoli] è invece molto diverso. Non esiste un vincolo indissolubile tra la proprietà del terreno ed il lavoro applicato alle costruzioni; anzi, il valore del terreno cresce per virtù propria, date le circostanze d’ambiente propizie, senza che su di esso si sia nulla edificato. Il proprietario del terreno nudo, sul quale mai non è stata fatta da lui alcuna spesa, può venderlo ad un prezzo incredibilmente alto all’imprenditore di case il quale ha intenzione di fabbricarvi sopra. La proprietà del suolo non è nient’affatto una condizione necessaria perché si eserciti l’industria edilizia» (Einaudi, 1900, p.779).
Il contesto
La vicenda della legge Sullo si aprì – come ho detto – all’inizio degli anni 60 e si concluse nel 1963. Pochi anni. Ma essa è nata, si è sviluppata ed è proseguita in un arco di tempo più ampio, che ne costituisce il contesto e al quale è bene richiamarsi, sia pure in modo necessariamente sintetico.
Nasce quando maturano tre condizioni. 1. Il consolidarsi dell’industria manifatturiera, che diviene competitiva con quelle estere; 2. La diffusa consapevolezza delle conseguenze territoriali e sociali di uno sviluppo capitalistico, lasciato interamente libero all’azione dei suoi animal spirits; 3. L’affermarsi di una democrazia di massa, che pretendeva l’esercizio dei diritti promessi dalla Costituzione.
Sono gli anni nei quali la DC sposta l’asse del suo potere, la programmazione economica diventa un tema centrale, alcuni poteri monopolistici vengono messi in discussione. “Modernizzazione” significa a quei tempi eliminare i lacci e lacciuoli della rendita urbana, perchè in tal modo le città sarebbero diventate più efficienti, le abitazioni – e in generale la vita delle famiglie – meno costose, di conseguenza la spinta salariale non avrebbe avuto nuovo alimento.
Si erano comprese molte cose. Ne era stata trascurata una: la potenza di quel “complesso edilizio” che Valentino Parlato, con un’analisi di un’acutezza raramente raggiunta dopo, descrisse (1970). Scrive Parlato:
«In questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta é l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando - per rafforzare i più solidi legami di interesse economico - il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, é naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”» (Parlato, 1970).
Il “complesso edilizio” non fu sconfitto. Sembrò averlo incrinato la poderosa spallata data nel biennio 1968-69 da un blocco alternativo di forze sociali, che andava dagli studenti, alle donne, ai lavoratori delle fabbriche e degli uffici. Quella spallata che culminò nel grande sciopero generale nazionale per la casa, i trasporti, l’urbanistica e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969. Un mese dopo, il 12 dicembre dello stesso anno, cominciarono ad esplodere le bombe del terrorismo.
Gli anni successivi (tutto il corso degli anni 70) videro ancora avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte dell’una e dell’altra delle grandi correnti che percorrevano la società. Le consapevolezze che erano state acquisite agli inizi degli anni 60 – e in particolare la necessità di contenere fortemente la rendita fondiaria urbana – sembrava ancora viva. Lo testimoniano le prese di posizione singolari (se le rileggiamo oggi) di uno dei massimi esponenti del capitalismo italiano, Gianni Agnelli, padrone della Fiat e, poco dopo, presidente della Confindustria.
In un’intervista rilasciata all’Espresso Gianni Agnelli affermava: «Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire [...] Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» (Intervista rilasciata all'Espresso, novembre 1972).
Erano anni sui quali gli storici hanno cominciato a riflettere, abbandonando gli slogan unilaterali degli “anni di piombo”. Anni che conobbero – non solo sul terreno dell’urbanistica – grandi conquiste e grandi sconfitte. Il clima generale stava cambiando. In peggio. Già cavalcavano nel mondo globalizzato i quattro cavalieri dell’Apocalisse ritratti da David Harvey sulla copertina del suo libro più fortunato, la Breve storia del neoliberismo: Tatcher, Reagan padre, Pinochet, Deng Tsiao Ping (Harvey. Stava iniziando l’epoca di quello che Giorgio Ruffolo chiama turbo-capitalismo.
In Italia, la “modernizzazione” del craxismo espresse la sua versione al pomodoro della strategia neoliberista, e il passaggio dalla pianificazione urbanistica all’urbanistica contrattata fu la sua ricaduta sul terreno della città. “Privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” furono gli slogan vincenti, agitati su tutti i lati dello schieramento politico. Che cosa è successo della rendita urbana in questo mutato contesto?
La rendita oggi
Ci aiuta a comprenderlo un saggio di Walter Tocci, oggi direttore del Centro per la riforma dello stato ma buon conoscitore dell’urbanistica grazie anche alla sua esperienza di amministratore al comune di Roma, dove è stato assessore ai trasporti e vicesindaco. É un saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Democrazia e diritto, la cui parte monografica è dedicata al “Trionfo della rendita urbana”.
L’autore ragione a lungo sul legame tra rendita urbana e rendita finanziaria, sull’evoluzione del connubio tra queste due realtà, sul dominio che esse sono venute a svolgere nella fase neoliberistica e sulla attuale crisi. In relazione a quel connubio la rendita urbana ha svolto in passato funzioni ed ha assunto caratteristiche diverse. Nella fase dell’espansione urbana ha prevalso la rendita
«prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo» (Tocci 2009, p. 18).
Più tardi, negli anni Ottanta, cambiò il verso della trasformazione. Si tornò a operare all’interno della città, utilizzando gli immobili liberati dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.). «La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici» (Tocci 2009, p. 19).
Ed ecco il punto: «La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più» (Tocci 2009, p. 19).
All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase che Tocci definisce della “rendita pura”. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi. Tocci rileva che
«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria» (Tocci 2009, p. 20).
Il cambiamento è enorme, non solo in termini quantitativi. Cambia radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia.
A differenza di quanto accadeva prima, la rendita immobiliare non può più essere indicata (e combattuta) come un fattore di arretratezza. «Anzi, oggi essa si trova a svolgere un ruolo di trascinamento dell'innovazione economica. D’altronde, come spesso accade, il nuovo contiene una rielaborazione dell'antico. Infatti, la novità della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione capitalistica, a lungo dissimulato dall’economia classica e consumato non a caso nel campo della proprietà immobiliare. L’accumulazione del capitalismo nasce infatti nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta […] Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso sulla produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo […] Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nell’impresa, nella società» (Tocci 2009, p. 23-24).
“Il declino nascosto sotto il mattone”
Il predominio della rendita (la “rendita pura”) come segno della modernità. Ma è una modernità che va nella direzione del declino. Almeno per il nostro paese. Tocci sottolinea il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende (a partire dalle grandi e “moderne”: Fiat, Pirelli, Falk, Benetton) di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, l’imprenditività (se tale può ancora chiamarsi) dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» (Tocci 2009, p. 28)che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano.
Gravi sono le responsabilità dei tecnici. In particolare gli urbanisti, che hanno accompagnato e “facilitato” la legittimazione della rendita. Scrive Tocci: «Quando il progetto urbanistico smarrisce il senso critico si riduce a celebrare il già fatto o a pianificare il nulla» (Tocci 2009, p. 29). Gravi anche le responsabilità degli imprenditori, e soprattutto dei politici in questa scelta di privilegiare la rendita anziché combatterla: incoraggiata da alcuni, utilizzata da altri, ignorata da chi aveva il dovere culturale di denunciarla.
Ma ai più è sfuggito un fatto. In Italia, quella che è una tendenza generale della fase attuale del capitalismo, ha assunto una forza e un’incidenza straordinaria per effetto di una iniziativa politica (quella del governo Berlusconi-Tremonti) che, in questo settore, ha dispiegato una strategia volta con grande efficacia a consolidare la base immobiliarista dell’economia e della società. «Il funzionamento capovolto del mercato della rendita» (il valore dei suoli edificabili aumenta all’aumentare dell’offerta, a differenza da ciò che accade per altre merci) e l’introduzione del fondo immobiliare sono stati utilizzati e accompagnati da una serie di misure, tutte orientate nella medesima direzione. Per citare le principali, il superamento dell’equo canone e la liberalizzazione dei canoni di locazione, lo scudo fiscale, la dismissione dei patrimoni immobiliari pubblici, il condono edilizio, il piano-casa» (Tocci 2009, p. 26). A cui vanno aggiunte le innumerevoli eliminazioni dei controlli sulle trasformazioni aventi rilevanza urbanistica.
«L'insieme di questi provvedimenti – prosegue Tocci - configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra. Poi sul piano istituzionale, con un'inusuale consonanza tra l'intervento dello Stato e quello di Regioni, Province e Comuni, tranne poche e meritorie eccezioni. Neppure i media, prima della recente crisi, avevano mai raccontato i meccanismi più o meno occulti del fenomeno, lasciando quindi l'impressione di un ampio consenso dell'opinione pubblica» (Tocci 2009, p. 27 ).
Che fare?
La rendita immobiliare è ancora un avversario da battere. Non nel senso – ovviamente – di eliminarla, ma certo in quello di ridurne gli effetti negativi, operando nelle due direzioni storiche: trasferirne parte consistente (molto consistente, se il sogno di Henry George non è integralmente realizzabile) dal privato al pubblico; ridurne drasticamente la crescita con le politiche urbane mirate.
Ma è un avversario ancora più consistente che nel passato. Ciò rende evidente che la lotta contro la rendita non è questione tecnica, che possa essere affidata a questo o a quel pool di esperti. É innanzitutto una questione politica, culturale, morale. Occorre in primo luogo comprendere (occorre che tutti comprendano) che non invertire la tendenza comporta danni gravissimi per tutti e per tutto. Occorre denunciare, illustrare, dimostrare, argomentare. Questo è il primo compito dei tecnici, degli intellettuali.
Ma occorre al tempo stesso che la politica ri-assuma il proprio ruolo. Che non è quello di accompagnare l’economia data (illudendosi di cavalcarla), limitandosi a mitigarne gli effetti meno gradevoli. La politica deve tornare a dirigere l’economia: a definire per quali fini debbano essere impiegate le risorse scarse di cui il pianeta dispone.

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