domenica 27 ottobre 2013

Le origini del Manifesto




È vitale per un gruppo politico, e soprattutto se è in formazione, sforzarsi di avere un'idea della propria storia e del proprio rapporto con la storia; storia delle idee e storia delle cose. Non a caso questo è stato uno dei terreni fondamentali della lotta politica nei partiti comunisti.
Perché solo con questa riflessione è possibile evitare fraintendimenti e deformazioni di una linea e di un patrimonio teorico che, se limitati a formulazioni separate da un contesto, continuamente danno luogo a equivoci. Non c'è dubbio che noi, troppo poco ci siamo impegnati in questo sforzo di chiarimento e non è stata certamente la causa minore di molti fraintendimenti sorti sulle tesi, sulla linea politica, sull'ispirazione teorica del MANIFESTO. 
D'altra parte solo integrandosi sul proprio rapporto con il passato del movimento operaio il nostro gruppo politico può cominciare ad applicare a sé stesso i criteri di analisi e di giudizio che applica alla realtà, considerando anche sé stesso come una delle espressioni di una dialettica oggettiva che viene avanti nella realtà; e così in pari tempo evitando un'immagine megalomane di sé e cercando di scoprire sia le ragioni della propria esistenza, sia la natura della propria parzialità. 
Quel che vorrei cercar di dimostrare in questa introduzione al seminario sulle Tesi, è che il MANIFESTO non è nato nel 1969 da zero, come un improvviso ravvedimento di un gruppo di dirigenti del partito comunista folgorati sulla via di Damasco dalle nuove lotte di quegli anni, da esse convinti dei propri passati errori, e decisi a una svolta rigeneratrice. Il MANIFESTO è piuttosto il punto terminale di una tendenza che ha radici assai lontane nella storia del movimento operaio italiano e del Partito comunista in particolare. E se è riuscito a coagulare un'opposizione modesta ma non irrilevante interna al Partito comunista, poi a dar luogo a una rottura, e poi a sopravvivere in questi anni, è proprio perché è da un lato l'espressione di una componente permanente della storia del Partito comunista e del movimento operaio italiano, e dall'altro perché questa specifica storia ha contribuito a produrre, oltre che un certo Partito comunista, un certo movimento di massa, un particolare orizzonte politico-culturale. Nel quale il MANIFESTO non è una pura eccezione, un elemento anomalo, ma una delle componenti effettive. 
Le radici di questa storia a me pare possano collocarsi alla nascita stessa del Partito comunista, nel dibattito che in Italia e fuori si sviluppò intorno agli anni venti e alla rivoluzione d'ottobre. Tutto il movimento operaio moderno porta il segno di quella crisi politica teorica, si misura con il grande paradosso della storia del nostro tempo: la rivoluzione d'Ottobre che esplode in un paese in cui il capitalismo non era affatto avanzato, e la sconfitta del movimento operaio in occidente là dove la , 1917lotta di classe era più avanzata e dove, secondo le previsioni di Marx e di Lenin, la rivoluzione sarebbe invece dovuta cominciare. 
Non si valuterà mai abbastanza quella straordinaria rottura; non solo il marxismo ortodosso e la 2a Internazionale trovarono assolutamente abnorme che la rivoluzione fosse cominciata in Russia. Anche Lenin, che pure attraverso la sua analisi dell'imperialismo e dello sviluppo ineguale era riuscito a prevedere e ad utilizzare il fatto che la rottura doveva verificarsi a partire dall'anello più debole della catena, cioè nella Russia zarista, si è mosso, almeno fino agli degli anni 20, sulla base dell'ipotesi che la Rivoluzione Russa era solo la scintilla, la premessa di una rivoluzione che doveva svilupparsi nei paesi di capitalismo avanzato. 
Di fronte all'emergere, all'inizio degli anni 20, di una realtà che contraddiceva questo modo di pensare, il movimento operaio internazionale fu costretto ad una revisione; ma questa tardò enormemente. Anzi si può dire che nella maggioranza dei partiti comunisti non venne compiuta per tutto il periodo che va dal 1920 al 1930: di fronte al fatto che la rivoluzione in occidente non scoppiò e anzi si determinò un generale riflusso, la 3a Internazionale non seppe infatti elaborare alcuna interpretazione convincente. 
Furono gli anni del dibattito fra trotskismo e stalinismo. Il trotskismo si rifiutò di prendere atto di ciò che era successo, e continuò per tutti gli anni 20 nella stessa URSS a sostenere la tesi che bisognava puntare a fondo sulla rivoluzione in Occidente, impegnando tutte le forze dello stato e della rivoluzione sovietica in questo obiettivo. Ma anche la maggioranza staliniana, che elaborò proprio allora la teoria discussa e discutibile del socialismo, in un paese solo, era convinta di vivere una semplice parentesi, un periodo in cui tener duro, al di là del quale le cose avrebbero ripreso il loro cammino secondo gli schemi tradizionali. Così, tutti i partiti comunisti, sia nella corrente trotskista che in quella stalinista, per tutti gli anni 20 pensarono che la sconfitta della Rivoluzione in Occidente fosse sostanzialmente legata alla mancanza di un partito e di una teoria giusti, e, parallelamente, che la rivoluzione in occidente era soltanto rimandata. Si sarebbe riproposta, e avrebbe vinto, sulla base del modello sovietico del 1917, nel momento in cui si fosse riaperta una nuova crisi della società capitalistica. 
In questa panorama di sostanziale rifiuto d'una ricerca che muovesse dalle lezioni della sconfitta, solo in Italia – più tardi anche in Cina – si pose il problema di andare a fondo del nuovo e inatteso sviluppo delle cose; di capire perché negli anni 20 la rivoluzione in Occidente non si era sviluppata e quindi su quali basi bisognava ricostruire un'ipotesi e un'azione rivoluzionaria. Solo Gramsci e il partito comunista in Italia si proposero di fare, rispetto al marxismo della loro epoca, quello che Lenin aveva fatto rispetto al marxismo della 2a Internazionale, cioè un tentativo di rinnovamento profondo dell'analisi, delle previsioni, delle piattaforme. 
Credo che da qui convenga partire se si vuol rintracciare soprattutto a livello di idee (nell'elaborazione di Gramsci) ma anche nella pratica politica del Partito comunista l'Italia, diciamo dal momento della crisi del bordighismo fino al 1928-29 (quando l'Internazionale impose nuovamente una ortodossia) l'origine lontana della sigla caratteristica dell'elaborazione del Manifesto, lo sforzo di riflettere sulla specificità della rivoluzione occidentale e su un modello di strategia rivoluzionaria che superasse creativamente quello dell'Ottobre del '17. come è stato affrontato da Gramsci questo problema? Gramsci e il Partito Comunista d'Italia reagirono alla sconfitta avviando una riflessione sulla storia d'Italia, sulla specificità del capitalismo italiano; del resto è stato più o meno questo l'itinerario seguito dal leninismo, che come sistema teorico nacque appunto dallo studio delle particolarità storiche dello sviluppo capitalistico in Russia. 
Nella storia d'Italia Gramsci trova l'idea che lo spinge a una ricerca nuova e originale. E qui bisogna anzitutto fare giustizia di un luogo comune molto diffuso secondo cui il capitalismo italiano sarebbe un capitalismo arretrato e straccione simile a quello russo, per cui l'Italia si presentava come il terreno migliore per lo sviluppo della rivoluzione leninista. Ora, Gramsci parte sì dal riconoscimento dell'arretratezza produttiva, dal carattere straccione del capitalismo italiano, ma – ed è decisivo per lo sviluppo del suo pensiero politico – considera ce l'arretratezza del capitalismo in Italia ha ragioni diverse, opposte alle ragioni della arretratezza del capitalismo russo. Se una notevole parte degli «Scritti dal carcere» sono dedicati da Gramsci alla storia d'Italia dal 1300 al 1500, è perché lì Gramsci vede le ragioni dell'arretratezza del capitalismo italiano; un'arretratezza che non deriva da una mancata rivoluzione borghese ma dal carattere per un verso prematuro e per l'altro verso estremamente capillare e consolidato nei secoli della rivoluzione borghese. 
L'Italia non è affatto il paese dove non si sarebbe fatta la rivoluzione borghese: è il paese che ha dato vita alla rivoluzione borghese. Il paese dove il feudalesimo ha avuto radici più episodiche e precarie, nella cui storia si conserva una sostanziale continuità dall'epoca tardo romana all'epoca comunale, dove si sviluppa per prima una civiltà urbana, dove nelle città si sviluppa un potere politico capace di contrapporsi ai feudatari, dapprima un centro commerciale e poi le prime manifestazioni di attività manifatturiera: i commercianti del 300 e del 400 diventano anche organizzatori della produzione, per esempio nel campo tessile. L'Italia è anche il paese dove si determinano i primi centri di potere finanziario europeo. L'Italia è la banca delle monarchie inglesi e francesi. È in Italia insomma che si determinano rapporti di produzione già borghesi, che aggredirono anche la struttura sociale agraria; per cui si diffonde la mezzadria, la proprietà assenteista ma borghese del suolo, si disgrega l'economia feudale. 
Ora, questa origine della rivoluzione borghese è anche la ragione del suo blocco. Non riesce a svilupparsi, ad esplodere come rivoluzione capitalistica in senso pieno, per la sua prematurità: innanzitutto le manca uno stato nazionale, che altrove ha come origine la struttura del potere feudale e poi la lotta della monarchia nazionale contro la sopravvivenza del potere feudale decentrato. Questa mancanza è forse la ragione principale, secondo Gramsci, del blocco; implicando l'assenza del capitale, con la conseguente divisione della borghesia in una serie di strati corporativi, la debolezza politica e militare rispetto alle altre nazioni ecc.
D'altra parte, l'arretratezza dell'ambiente tecnologico e scientifico in cui si sviluppa in Italia la rivoluzione borghese rende estremamente difficile uno sviluppo rapido e lineare dalle prime manifatture a una produzione di massa. Ancora, la insistenza di mercati adeguati, che solo più tardi si sarebbero formati con lo sviluppo complessivo dell'economia capitalista europea, e poi con lo sviluppo dei traffici, con le nuove colonie; la mancata formazione, attraverso la via coloniale, di grosse riserve di capitale; la struttura sociale delle campagne nelle quali questa lenta rivoluzione borghese, anziché determinare una rapida espulsione della mano d'opera, come avverrà nel 700 in Inghilterra, determina una struttura capillare di proprietà o di semi proprietà contadina coltivatrice, e quindi fa mancare l'altro grande elemento di formazione e sviluppo del capitalismo, che è l'abbondanza di mano d'opera espropriata.
Infine questa borghesia incipiente, proprio per il suo carattere economico-corporativo, per il suo particolare collegamento con l'attività finanziaria e creditizia, esprime rapidissimamente una forte tendenza redditiera e tende a diventare una borghesia parassitaria, si costruisce ville in campagna, acquista dai nobili le terre, diventa una borghesia cittadina che vive di rendita.
Il blocco dello sviluppo borghese nel '600 e nel '700 non distrugge però quel che la prematura rivoluzione borghese ha creato  a sua immagine e somiglianza, e cioè una società di tipo nuovo: per la nascita di un medio ceto estremamente stratificato  nelle città e nelle campagne; per la formazione di uno strato intellettuale cosmopolita che diventa l'intellettuale di tutta la borghesia  europea; per la formazione di una cultura per un verso controriformista, e quindi immobilista, per altro verso libertina, scettica, «moderna». Infatti anche nei cosiddetti secoli della decadenza, l'Italia rimane la culla del cosiddetto pensiero moderno e borghese; non è un caso che la filosofia moderna o addirittura la scienza economica, come Marx dice, abbiano i precursori in Italia e non in Inghilterra.
Tutte queste considerazioni, che sono al centro della ricerca di Gramsci e che si riflettono nel modo in cui il Partito comunista affronta il problema del fascismo, fanno rilevare l'impossibilità evidente di una pura e semplice applicazione del modello sovietico alla rivoluzione italiana. Per una serie di ragioni, appunto collegate al particolare tipo di sviluppo del capitalismo, quale ad esempio (e cito solo le più importanti) la mancata separazione del proletariato, la continuità sociologica tra proletariato industriale e strati intermedi che dà alla classe operaia italiana le caratteristiche di un semi artigianato o di una classe integrata alla agricoltura; l'importanza della sovrastruttura nel senso più vasto del termine: le istituzioni, l'ideologia cattolica, il peso degli intellettuali, l'organizzazione delle forze politiche; infine, riassuntivamente, l'impossibilità per il proletariato di puntare, come era stato possibile nell'Unione Sovietica (e come in sostanza rimase l'ipotesi di altri partiti comunisti) sul «completamento della rivoluzione borghese», sia in termini di rivendicazioni democratiche (la repubblica ecc.) sia in termini di rivendicazioni economiche (l'espropriazione della proprietà terriera, la lotta la latifondo, lo sviluppo capitalistico).
In Italia infatti una piccola e media borghesia diffusa avverte lo sviluppo del capitalismo come una minaccia alla propria sopravvivenza; può diventare alleata della classe operaia solo fuori e contro l'ordinamento capitalistico stesso, non in nome del completamento della rivoluzione borghese. Di qui una interpretazione del fascismo che in Gramsci prima, in Togliatti poi, tende a dare una grande importanza all'apporto di massa piccolo borghese; tende già dal 1922-23 a vedere nel fascismo una forma specifica di alleanza tra la grande borghesia monopolistica, minacciata dalla crisi, e gli strati reazionari del piccolo e medio ceto.
Ora, come nell'analisi del capitalismo in Russia Lenin individuava tratti comuni e universali dello sviluppo capitalistico (ad esempio la tendenza allo sviluppo ineguale della fase imperialistica), così nella analisi del capitalismo in Italia Gramsci individua una serie di verità comuni allo sviluppo capitalistico della nostra epoca; per lo meno del capitalismo occidentale, che col passare del tempo sarebbero diventate via via più importanti. Per esempio, nella rivoluzione borghese prematura e nel suo arresto affiora un rapporto tra rendita e profitto, la continua tendenza alla rendita e al parassitismo insita nella struttura sociale borghese capitalistica, che diventerà macroscopica nel capitalismo maturo: oggi, o nel capitalismo americano vediamo emergere, seppure per altre strade e ragioni, questo stesso nodo fondamentale, cioè questa componente redditiera e parassitaria che è permanente dello sviluppo capitalistico, per cui si pone perfino il problema se il capitalismo può mai essere considerato come una forma economica e sociale pura o se la cosiddetta «sopravvivenza di residui precapitalistici» sia un elemento inerente al suo sviluppo e alle sue leggi oggettive.
Un'altra questione di carattere generale, che emerge dalla riflessione sulla specificità del capitalismo italiano, è la natura del medio ceto. Non più visto unicamente come sopravvivenza di una rivoluzione capitalistica non compiuta, ma come una delle componenti dello sviluppo borghese-capitalistico; l'analisi e il discorso che fa Gramsci è in qualche modo preveggente e prefigurante dei modi nuovi in cui il problema del medio ceto si viene ponendo in una società di capitalismo avanzato. Altro elemento ancora, l'importanza del livello sovrastrutturale, la necessità per la classe operaia di porsi come una forza egemone di un arco molto vasto di interessi ideali e sociali, di dare alla sua lotta per il potere il carattere di nuova egemonia, di proposta positiva; di dare alla lotta per il potere il carattere di una lotta che prefiguri i tratti distintivi del comunismo (la contestazione dello stato, il deperimento dello stato). Infine un modo nuovo di vedere anche il Partito, come soggetto di egemonia e non semplicemente come struttura di combattimento.
Questi tentativi di elaborazione e di esperienza politica sono rimasti negli anni 20 sostanzialmente minoritari. Appunto tentativi, che non sono riusciti a diventare una politica; non è certo un caso che la loro piena esplicitazione sia fatta da Gramsci in carcere, sostanzialmente ai margini del partito. Non c'è dubbio che questa ricerca e questa ispirazione è rimasta per tutta quella fase una ricerca minoritaria, sottoposta alle repressioni dell'Internazionale, e non c'è dubbio che è arbitraria e agiografica l'idea, poi diffusa da tutta la storiografia comunista, secondo cui fra Gramsci, la politica dei fronti popolari e Togliatti esiste una perfetta continuità.
In realtà, tra le ipotesi strategiche prima accennate e la politica dei fronti popolari non c'è né identità né continuità vera. La politica dei fronti popolari fu soprattutto una politica di difesa dell'Unione Sovietica come primo stato socialista, e implicava un rinvio continuo al modello sovietico che l'analisi gramsciana cercava in qualche modo di rimettere in discussione. Però credo che sarebbe sbagliato forzare lo schema in un senso opposto, e ridurre tutta la politica dei fronti popolari a qualcosa di estraneo alla ricerca gramsciana. Sbagliato pensare quindi alla storia del PCI come a una storia in cui il fiume sotterraneo della ricerca gramsciana a un certo momento scompare sotto terra per riaffiorare solamente nell'esperienza del MANIFESTO.
In realtà questa tradizione e questa ricerca, sia pure in modo ambiguo, ha continuato ad essere presente in tutta la fase intermedia. Sbaglieremmo a ridurre la politica dei fronti popolari a semplice politica di difesa immediata dell'URSS, pratica sostanzialmente social-democratica e antifascista, di rinvio a una futura fase rivoluzionaria in cui si sarebbe nuovamente applicato il modello del 1917. La  politica dei fronti popolari dell'epoca staliniana è molto più complessa. Innanzitutto non è un caso che Gramsci abbia approvato a fondo le posizioni strategiche di Stalin contro quelle di Trotsky, anche se cercò inutilmente di aprire una polemica col gruppo dirigente russo sul metodo della discussione contro Trotsky: in sostanza nella scelta staliniana del socialismo in un paese solo, che poi divenne l'asse portante di tutta la strategia dei fronti popolari, era presente qualcosa di profondamente complementare al tipo di ricerca avviata da Gramsci. Il fatto cioè che la costruzione e il consolidamento del socialismo in un paese come l'URSS era un elemento di rottura essenziale su cui si poteva ricostruire un'offensiva in Occidente. In altri termini la politica dei fronti popolari non può essere ridotta a una pura politica di sostegno dell'URSS nella misura in cui la rottura del mercato capitalistico internazionale a livello mondiale era un momento essenziale perchè si potesse riproporre il tema della rivoluzione in Occidente.
Inoltre la politica dei fronti popolari rappresentò, ben al di là delle sue parole d'ordine, una grande svolta storica sulla base della quale i partiti comunisti si ricostruirono, anzi forse si costruirono per la prima volta come partiti di classe e di massa. Troppo spesso si dimentica che all'inizio degli anni 30 i partiti comunisti erano ridotti al lumicino a causa di una lunga politica settaria e agitatoria; i loro legami con le masse erano esigui. In Italia il Partito comunista non era riuscito a impostare una lotta al fascismo, in Francia era una forza assai minoritaria.
Con la politica dei fronti popolari in pochi anni si riaprirono lotte di massa significative, e, soprattutto in Francia, si ricostruì uno schieramento di alleanze, i partiti comunisti cominciarono ad essere, anche in gran parte dell'occidente; il punto di riferimento di grandi masse popolari.
Infine la politica dei fronti popolari viene forzata dal togliattismo, che, pur portando a destra, crea una serie di principi e soprattutto di pratiche che avevano anche una forte valenza di sinistra; il togliattismo fu veramente ambiguo, stabilendo un orizzonte che ritrovava il contatto con la tradizione riformista ma nel contempo permetteva quel tipo di ricerca sulla rivoluzione in Occidente di cui Gramsci fu il solo esponente coerente.
In quali elementi il togliattismo manifesta questa capacità di innovazione e rottura rispetto all'ortodossia della politica dei fronti popolari e dell'epoca staliniana? In primo luogo nella concezione del «partito nuovo», come partito di massa e nazionale; due termini che andavano bene anche nell'epoca dei fronti popolari, ma in Togliatti volevano dire partito capace di vivere come organizzazione della lotta immediata di larghi strati sociali e di esprimerne i bisogni in termini positivi. Questo era un elemento già presente nella politica dei fronti popolari, ma con Togliatti e nel PCI del dopoguerra diventa la caratteristica fondamentale. Così la concezione togliattiana del partito ha una valenza ambigua: per un verso smantella quel carattere bolscevico, militarizzato, elitario che garantiva al partito la sua alterità rispetto alla società circostante aprendo canali e porte a una pratica socialdemocratica, all'interclassismo, a una visione gradualistica e riformista del processo rivoluzionario; per un altro verso ancora la pratica del Partito ai bisogni, al controllo, all'iniziativa di grandi masse. E difatti il partito comunista italiano è il solo in Occidente capace di vere lotte di massa nel secondo dopoguerra e fino ad oggi.
Una seconda forzatura del togliattismo rispetto alla politica dei fronti popolari è il problema degli schieramenti politici e ideali. Togliatti è l'uomo del dialogo coi cattolici. E il dialogo coi cattolici ha una valenza di destra, perché cerca un campo di alleanze ancor più vasto di quello della sinistra tradizionale; ma ha anche una valenza opposta, nella misura in cui questa nuova alleanza non può fondarsi prevalentemente sull'ipotesi del completamento della rivoluzione democratico-borghese, su   di una ideologia democratica di sinistra, ma implica un rapporto con una forza popolare e di massa, contadina e proletaria, portatrice di una ideologia di rifiuto della rivoluzione capitalistica e della logica borghese.
Il terzo elemento di ambiguità è la concezione internazionale, il rifiuto, sia pur con estrema prudenza, di considerare la lotta internazionale del proletariato come identica alla difesa della politica estera dell'URSS. Il PCI fu il solo a rivendicare una legittimità ai movimenti di liberazione nazionali, anche quando non erano guidati da un partito comunista. Tuttavia l'ambiguità viene dal fatto che l'autonomia dall'URSS viene giocata in diverse direzioni, una delle quali è la questione della coesistenza pacifica e della guerra atomica. 
Ultimo elemento di forzatura togliattiana, su cui si è costruita la fisionomia del PCI e su cui siamo cresciuti noi come gruppo politico, è la questione delle riforme di struttura. Mentre il Fronte Popolare vedeva da una parte rivendicazioni molto immediate, dall'altro la crisi finale della presa del potere, nel secondo dopoguerra viene avanti nel PCI lo sforzo di definire una tematica nuova, quella delle riforme di struttura. Anche questa, soprattutto questa, profondamente ambigua perchè apriva un varco al riformismo più piatto, e tuttavia era anche il tentativo di elaborare una alternativa specifica per la rivoluzione in occidente, attraverso lotte di massa non solamente economiche, ma rivolte a realizzare spostamenti profondi nell'assetto del sistema, e a costruire un blocco storico di forze capaci di preparare una crisi di sistema. 
Va detto con decisione che tutti gli elementi potenzialmente di sinistra interni alla storia del PC nel secondo dopoguerra rimasero assolutamente minoritari almeno fino agli anni 60; non nel senso che erano sostenuti da una piccola parte del Partito, ma che rimasero in secondo piano. 
Il limite storico del togliattismo è stato di non aver saputo dare alcuna base seria alle potenzialità pur contenute in alcune sue scelte. Per esempio: il disprezzo di tutti gli elementi programmatici di carattere economico, di lotta sociale propri del togliattismo, la sua riduzione della politica quotidiana a manovra, a elettoralismo, la tendenza a considerare le alleanze in modo strumentale, e quindi a stemperare progressivamente i connotati di classe del Partito; la incapacità di andare a un recupero del marxismo. 
La cultura di Togliatti, il tipo di marxismo che Togliatti propose al PCI nel dopoguerra, non hanno niente a che fare col marxismo di Gramsci. Sono un marxismo storicista, gradualista, le cui categorie fondamentali sono lo svecchiamento della cultura italiana, la lotta al clericalismo, magari in contraddizione con alcune scelte politiche acute come quella del rapporto coi cattolici. Tanto è vero che sarebbe di grande interesse studiare la fortuna di Gramsci in questo dopoguerra; il modo con cui il PCI ha, oggettivamente, censurato Gramsci. Il Gramsci che è stato valorizzato dal PCI è stato infatti il Gramsci di «Letteratura e vita nazionale» o del «Risorgimento», il Gramsci più riducibile allo schema puramente antifascista. E non è a caso che, molto più di Gramsci, rimasero fuori da tutta la formazione culturale del movimento operaio italiano Marx e in gran parte Lenin. Sia il «Capitale» che «Stato e Rivoluzione» non sono stati letti dalla generazione del PC del dopoguerra, formata sui libri di Stalin, o una letteratura democratica-riformista, o su un Marx fondatore, diciamo, di uno «storicismo rinnovato», il Marx del 18 Brumaio, il Lenin del «Che fare?», il Lenin dell'«Imperialismo». Non certo il Marx e il Lenin radicale. 
Ciononostante, questi elementi di forzatura degli aspetti più dinamici dei fronti popolari hanno fortemente pesato sulla storia della lotta di classe in Italia. Non sono stati in grado di fare la rivoluzione, ma sono stati in grado di condizionare profondamente la restaurazione capitalistica, cioè da un lato di imporre al capitalismo italiano di uscire dal tipo di equilibrio che aveva caratterizzato la sua storia precedente, e dall'altro di impedirgli di svilupparsi sotto una salda egemonia politica e intellettuale delle forze borghesi. La restaurazione capitalistica c'è stata, in Italia come in Germania come in Francia; ma in Italia è avvenuta sotto il segno di una precarietà politica e di una indebolita egemonia intellettuale della borghesia. Se si esclude una breve parentesi, agli inizi degli anni 60, il potere politico non è più riuscito a crearsi né un sistema di partiti omogeneo a sé stesso, né istituzioni adeguate al proprio sviluppo, né una egemonia culturale e politica adeguata. Mente d'altra parte si è creata una consuetudine di lotta di massa, di mobilitazione, di scontro, di autonomia politico-ideologica del proletariato, che è la vera ragione per la quale in Italia si è avuta la prima e più imponente contestazione del capitalismo avanzato malgrado che in Italia esso sia arrivato più tardi rispetto ad altri paesi occidentali. 
Ora, ciò è stato possibile soprattutto perché l'ambiguità del togliattismo aveva due ancoraggi che le hanno impedito per un lungo periodo di risolversi in una chiave integralmente riformista e di destra. La prima garanzia stava nel fatto che il capitalismo italiano, malgrado tutto, restava straccione e arretrato, e quindi anche lotte non molto avanzate assumevano un forte impatto di rottura; pensiamo alle lotte per la terra, o contro i residui culturali e statuali del fascismo, che hanno avuto una natura profondamente contestativa, anche senza avere contenuti molto avanzati. L'altra garanzia consisteva nel collegamento con l'URSS in una fase storica in cui l'URSS era ancora una forza antagonistica al potere imperialistico mondiale, riproponendosi quindi di continuo una frattura tra il PCI e l'insieme delle forze politiche capitalistiche nel nostro paese. Il venir meno, alla metà degli anni 50, di questi due grandi ancoraggi ha costretto il togliattismo alla sua prova di verità. L'ambiguità ha dovuto sciogliersi[1]
Il togliattismo rivelò allora come la sua componente maggioritaria e fondamentale fosse quella gradualista e riformista. Avremmo quindi degli anni in cui, mentre cominciava a svilupparsi un nuovo tipo di proletariato industriale, il PC lavorò in tutt'altri settori e direzioni; sprecò il grosso movimento di massa che aveva portato alle elezioni del 1953, con una serie di obiettivi e di campagne assolutamente minimalisti e spuri. Perse un anno intorno all'affare Montesi, non utilizzò il 20° Congresso per la riproposizione di alcuni temi di fondo propri della sua tradizione. Basti ricordare che tutta la tematica consiliare di Gramsci e dell'Ordine Nuovo fu ripresa in quegli anni da Panzieri o dalla sinistra socialista, senza che all'interno del PC riaffiorasse una discussione e una discussione e una riflessione su questi terreni.
In realtà, le potenzialità anche di sinistra, presenti nella politica del PC, antica e meno antica, erano rimasti elementi endemici (che producevano certi rapporti di massa, e una certa tolleranza nel dibattito interno) che non riuscivano ad assumere i tratti di una nuova strategia. Per lunghi anni l'ambiguità del togliattismo continuò a sciogliersi verso destra determinando scelte gravi e pregiudizievoli per lo sviluppo successivo. Per esempio, quando ancora il centro sinistra era evitabile, il PC gli lasciò le briglie sciolte. Tra il 1955 e il 1960, si impostarono alleanze e operazioni politiche come quelle del milazzismo in Sicilia, che inquinarono e tennero bloccata per lungo tempo l'azione di massa nel Mezzogiorno. In quegli anni andò costituendosi una sinistra comunista, in modo però lento, contraddittorio, a volte più per suggestione esterna che non per un vero dibattito politico interno. In realtà, la sinistra comunista si è venuta costituendo come forza politica molto in ritardo, quando alcune carte fondamentali erano state giocate, e cioè tra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60. Ma la rapidità del suo sviluppo (in tre-quattro anni, dal 60 al 64, essa diventa forza rilevante all'interno del Partito e il centro di un dibattito nella sinistra) dimostra che essa nasceva su un terreno già lungamente fecondato da una tradizione.
Su che temi nasce la sinistra comunista, che è poi la nostra origine più diretta?
In sostanza su tre, il primo dei quali fondamentale e preminente: la presa d'atto, anche se tardiva, del passaggio del capitalismo italiano ad una fase matura e dinamica. Per molti anni, mentre il capitalismo si stava impetuosamente sviluppando, PCI e PSI avevano conservato l'immagine di un capitalismo assolutamente immoto. Al di là della presa d'atto di questa riflessione che, riallacciandosi alla tradizione, e giovandosi di altre correnti culturali di cui dirò dopo, cercava di derivarne alcune conseguenze strategiche.
Noi (dico noi anche perché allora cominciammo a far parte di questa storia e di questa tradizione) individuammo tre aspetti del capitalismo maturo, dai quali ci pareva di dover derivare la necessità di una nuova strategia per la rivoluzione in Occidente. Il primo è lo sviluppo continuo e accentrato nel capitalismo maturo delle forze produttive; la rimessa in discussione, quindi, dell'immagine ormai classica del capitalismo maturo come continuamente dominato da una tendenza stagnazionista, e la necessità di individuare le contraddizioni crescenti del sistema come generate dallo sviluppo e non dalla stagnazione. Questa fu una specie di rivoluzione nel modo di pensare e di agire della sinistra italiana e non italiana, la quale o è stata catastrofista (e allora tendeva a considerare la rivoluzione come portato dall'incapacità del sistema a sviluppare le forze produttive) oppure, quando prendeva atto dello sviluppo delle forze produttive, arrivava a conclusioni social-democratiche (cioè a pensare di utilizzare questo sviluppo ai fini della soluzione dei problemi sociali e della soddisfazione dei bisogni di massa). Noi cercammo invece di individuare le contraddizioni inerenti alla qualità dello sviluppo: la parcellizzazione e l'alienazione del lavoro, il carattere standardizzato e disumano del consumo, la nuova struttura della città, la nuova struttura della cultura, la repressione della cultura di massa. 
Anche il secondo elemento su cui accentrammo l'analisi, era in rottura con la scolastica marxista: l'attenzione al determinarsi, nel capitalismo avanzato e come effetto dello sviluppo, di una sempre maggiore articolazione e stratificazione della società. Non polarizzazione in due strati nettamente divisi per reddito, per ideologia e collocazione intermedie e articolazioni all'interno stesso della classe operaia propriamente detta.
Terzo elemento di analisi e riflessione (che maturò forse più tardi nel tempo) l'estrema compattezza, economica e politica e sociale, del sistema capitalistico maturo. L'impossibilità, dunque, per una serie di ragioni poi definite schematicamente nel I capitolo delle TESI del '70, di pianificare secondo i bisogni e le esigenze delle masse lo sviluppo del sistema capitalistico stesso. Il buon senso socialdemocratico affermava: «siccome lo sviluppo libera nuove forze e nuove risorse, siccome determina un maggior intervento dello stato nell'economia, una maggiore cultura di massa, è possibile una politica riformista». Noi arrivammo esattamente alla conclusione opposta: il carattere di questo sviluppo, l'integrazione economica internazionale, lo sviluppo della cultura di massa come induzione di consumo e di bisogni, lo sviluppo della struttura statale come struttura tecnocratica e autoritaria, tutto questo rendeva meno e non più possibile un intervento riformista; rendeva necessaria una fase di rottura rivoluzionaria e la definizione globale e complessiva di un modello alternativo di società e di sviluppo economico. 
Da questi elementi di analisi traemmo l'abbozzo, all'inizio degli anni '60 di alcune differenziazioni strategiche di grande momento che divennero il centro di un dibattito nel Partito comunista. Fu un dibattito di grande respiro, cioè non legato al giudizio su questa o quella scelta immediata, ma una rimessa in discussione globale e sistematica degli elementi fondamentali di una strategia rivoluzionaria in occidente. Questi abbozzi di proposte sarebbero poi diventate l'asse del MANIFESTO 
Muovendo da questa analisi la lotta tra destra e sinistra comunista si sviluppò anche, e forse più duramente, sulla questione delle lotte operaie. È un tema meno noto perchè, mentre la battaglia sul primo punto ebbe una forte esplicitazione pubblicistica (articoli, interventi nei congressi, dibattito teorico, convegni Gramsci ecc.), il dibattito sulle lotte operaie si sviluppò invece all'interno delle sedi di partito e non ebbe un'adeguata proiezione esterna. Ma è importante rilevare che già alla fine degli anni '50, inizi dei '60, cioè nel momento stesso della sua costituzione, il tema su cui si misurò la sinistra comunista sul terreno delle scelte operative immediate, fu proprio quello del carattere nuovo e della importanza diversa che occorreva dare alle lotte operaie. È un dibattito, questo, che ebbe tappe successive e complesse.
Si cominciò con la battaglia, tra il 57 e il 58, ancora molto arretrata, ma importante: quella per far prendere atto al movimento politico e sindacale delle novità intervenute nella struttura produttiva e della necessità di adeguarvi forme e contenuti delle lotte operaie. Su quella base di delinearono proposte alternative. Primo problema era il posto da dare alla lotta operaia. Mente Togliatti e la maggioranza del gruppo dirigente del Partito tendevano a mantenere le lotte operaie come una delle molte ed equivalenti componenti di un largo fronte di lotta popolare, una delle tante rivendicazioni, noi cercammo di fare delle lotte operaie l'asse di una nuova azione di massa, affermando che il capitalismo, proprio perché si stava sviluppando, doveva essere aggredito nei suoi punti nevralgici, che la tendenza sarebbe stata una sempre maggiore concentrazione di realtà operaie, e che questo doveva diventare l'asse fondamentale della politica di massa del Partito.
Questa tematica, che fu attaccata per operaismo, fu al centro della conferenza operaia del 1960-61 del Partito comunista. Contemporaneamente e successivamente vennero qualificandosi i contenuti di questa lotta operaia; cercammo cioè di dare alla lotta operaia un contenuto qualificante di potere. Questo fu il dibattito sulla questione delle paghe di classe nella siderurgia, il discorso intorno al premio di produzione, alle qualifiche, ai cottimi. Si trattava di cambiare una linea rivendicativa che era sempre stata genericamente salarialista, e soprattutto indifferenziata, centralizzata, e che aveva progressivamente lasciato fuori dalla contrattazione le grandi fabbriche e, nelle grandi fabbriche, una zona crescente di definizione della condizione operaia (la contrattazione del cottimo, degli organizi, dell'organizzazione del lavoro, i superminimi ecc.: la lotta era fino ad allora la lotta per il contratto nazionale). La maggioranza degli elementi costitutivi della condizione operaia, soprattutto nelle grandi fabbriche, restava fuori da ogni controllo, il che significava che la stessa gestione delle lotte era delegata a un vertice sindacale ristretto. Le parole d'ordine «contrattare l'intero salario e l'intera condizione operaia», «riportare la lotta operaia all'interno delle fabbriche», furono i due elementi di contenuto discriminanti all'inizio del 1960; quello su cui, grazie anche a una spinta di base, meglio riuscimmo ad incidere sulla pratica complessiva del movimento operaio. 
L'altro aspetto, fu quello della democrazia e autonomia del sindacato. Noi fummo la prima sinistra comunista che non puntò su una cinghia di trasmissione più efficiente, ma che anzi buttò a mare prima della destra tutta la tematica della cinghia di trasmissione. Ma non imboccando la strada, che era tipica della CISL allora, del sindacalismo puro e semplice, apolitico; al contrario sottolineando il carattere di classe, politico della lotta operaia che deve trovare sul terreno sindacale la propria garanzia nel controllo di massa, nella democrazia sindacale, nel carattere non di correnti partitiche del dibattito interno al sindacato, ma nel controllo e nella iniziativa della base operaia. E se è vero che non fummo capaci di puntare su un nuovo sviluppo dei consigli, la lotta a fondo contro le correnti politiche del sindacato, per la democrazia sindacale e la rifondazione del sindacato all'interno delle fabbriche, furono gli elementi caratteristici della battaglia. Al decimo congresso riuscimmo a far passare, proprio nella versione definitiva delle Tesi, tali posizioni, che allora andavano molto controcorrente, (c'era il pericolo che i socialisti rompessero l'unità sindacale nella Cgil, la tendenza prevalente essendo di rendere la vita interna del sindacato una contrattazione continua tra i vertici delle forze politiche). 
Ci fu anche un grosso dibattito intorno ai contenuti rivendicativi. Il problema era scegliere fra una strategia fondata sul premio di produzione (e quindi il legame del salario con la produttività ecc.) o piuttosto sulla contrattazione dei cottimi e delle qualifiche. Noi adottiamo questa seconda linea, mentre, muovendo dalla tematica di democrazia diretta, consiliare, ecc., che aveva più chiare di quanto non avessimo noi, la sinistra socialista, (e una parte della sinistra sindacale) puntavano piuttosto sulla valorizzazione a fondo del premio di produzione, per risalire da lì al controllo generale della politica degli investimenti, dell'organizzazione del lavoro ecc. 
Terzo elemento caratteristico della sinistra comunista e della sua differenziazione, fu un discorso nuovo sul Partito. Anche qui, a differenza di tutte le sinistre precedenti nei partiti comunisti, che erano ultrabolsceviche e ultrastaliniste, e contestavano il carattere di massa del Partito, (pertanto in polemica all'inizio con Secchia e tutto questo filone che pure era importante) noi aprimmo una lotta sulla questione della democrazia nel Partito Democrazia non nel senso delle correnti ma nel senso, che poi abbiamo sviluppato, di partecipazione di massa la dibattito politico, per ottenere che prima di arrivare a mediazioni di vertice si portassero i temi del dibattito a tutti i livelli dell'organizzazione, contro una concezione del centralismo democratico sempre dall'alto al basso. Democrazia anche nel senso di critica del tipo di milizia che ormai si era venuto costruendo nel PCI, il militante più o meno attivo ma sempre generico, che non ancorava mai la sua battaglia politica alla sua fisionomia sociale. Da allora noi iniziammo una battaglia sull'ancorare l'essere «comunista» alla lotta in strutture sociali reali, e quindi sulla ristrutturazione dell'organizzazione interna anche per strutture verticali. 
Un ultimo fatto di caratterizzazione emerse sulle questioni internazionali: la polemica, a partire dal '59 (Camp David) contro l'affermarsi della coesistenza pacifica come status quo e partener-ship russo-americana. Una polemica che affiorò (troppo timidamente anche in relazione ai primi episodi di rottura cino-sovietica; ma che dialogò soprattutto a partire dalla guerra vietnamita, dal giudizio sulla esperienza cubana e sulla rivoluzione culturale. La Federazione giovanile fu la sede in cui tale aspetto del dibattito assunse carattere di massa e si espresse in grandi esperienze di lotta (dalla morte di Ardizzone fino alle manifestazioni del '67-'68).
Mi sono soffermato molto su tutto ciò (e credo di non aver forzato col senno di poi la realtà), per dimostrare come quando ancora le fabbriche erano quasi ferme, quando il sistema marciava a gonfie vele, quando imperava il mito dell'integrazione neo-capitalistica, della tecnologia, delle forze produttive ecc., noi portammo avanti alcune posizioni che sono state patrimonio delle lotte del 1968. forse l'elemento più anticipatore è la questione delle cosiddette forze produttive: il tema che esplose nel 67/68 (e la critica al concetto di neutralità delle forze produttive e del progresso tecnico) affiorò nel dibattito della sinistra comunista già verso la fine degli anni '60, così come altre tematiche, (il legame tra prospettiva comunista e lotte immediate, la necessità di ancorare la lotta sociale soprattutto alla lotta di fabbrica ecc.). E tutto ciò non solo muovendo da una tradizione interna o dagli scritti di Gramsci o da una realtà del Partito, ma riscoprendo questa tradizione anche attraverso l'apporto di correnti o di esperienze fuori dall'orizzonte del Partito comunista e fuori dall'orizzonte italiano.
Fu un apporto di grande valore la proposta teorica e analitica avanzata prima su «Mondo Operaio» poi su «Quaderni Rossi» da Panzeri, come riproposizione dell'analisi del «Capitale», sottolineatura della spontaneità e dell'iniziativa dal basso della classe operaia; così come fu importante per noi in quegli anni, nell'anticipare lo sviluppo del capitalismo maturo, l'analisi della suola di Francoforte, la polemica adorniana o marcusiana contro il capitalismo avanzato e la società repressiva e, attraverso loro, la rilettura del giovane Lukàcs, e cioè di tutta una parte del marxismo occidentale rimasta fuori dall'elaborazione teorica del Partito comunista Italiano. 
Ma più importante di tutto fu la riscoperta di un Marx che nel movimento operaio italiano, specie nel secondo dopoguerra, non era pressoché esistito. 
Sarebbe tuttavia sbagliato non vedere anche il limite di quelle battaglie e di quel dibattito. Il limite nostro, del quale forse non siamo ancora guariti è stato il limite illuministico, e aveva a fondamento una grave sottovalutazione (nostra ma anche dell'insieme del PC) del movimento di massa, della sua inventività e della sua radicalità. Questo ci portò a molti errori; a concepire la battaglia sulle stesse questioni operaie, più come scontro all'interno del Partito che come costruzione di esperienze alternative; a forzare la dinamicità del capitalismo avanzato, senza capire che le sue nuove tensioni qualitative non escludevano, anzi erano destinate a entrare in un rapporto di reciproca moltiplicazione con più antiche contraddizioni, proponendo in forme nuove il problema della disoccupazione, delle  sacche di esclusione e di povertà. 
Di qui l'incapacità di individuare le basi materiali sulle quali era possibile costruire un'alternativa; la tendenza a presentarla, questa alternativa comunista, più come un frutto di coscienza, un richiamo ai valori e a un modello alternativo proposto dall'esterno, che non come una maturazione oggettiva di bisogni e di spinte nate nella oggettività del corpo sociale. 
Questi grossi limiti, dovremmo riconoscerli molto esplicitamente. C'è stato un momento in cui, grazie alla forza e alla novità della nostra elaborazione avevamo una posizione che pesava all'interno del Partito comunista; ma non fummo capaci di gestirla ai fini non solo e non tanto di una lotta e di un dibattito interburocratico, destinato ad essere perdente, ma di una pratica politica di massa, su cui appoggiare un'azione. Di questo limite è stata particolarmente vittima proprio la componente più radicale della sinistra comunista, che poi avrebbe dato vita al MANIFESTO. 
Non c'è dubbio che la capacità, manifestata dalla «destra della sinistra comunista», di costruirsi una base di massa su cui resistere alla repressione interna (penso ad esempio a quella che ha operato nel sindacato metalmeccanici o nella camera del lavoro di Torino), è stata assai più grande. E' vero che questo, era legato alla collocazione (era più facile costruirsi una base di massa lavorando nel sindacato che in una commissione centrale del Partito); ma non c'è dubbio che molti errori da parte nostra ci sono stati. Soprattutto dopo l'11° Congresso avremmo potuto e dovuto avere più fiducia nel movimento  e lasciarci aperta la strada per portare  avanti una una lotta in vista di una prossima ondata offensiva di massa.
Quali che ne siano stati i limiti, la nostra battaglia, soprattutto per trovarsi anticipata rispetto all'esperienza del movimento, si scontrò con una reazione forsennata da parte dell'apparato burocratico del Partito, che vide messa in discussione gran parte della sua cultura e della sua pratica. La sinistra subì all'11° Congresso una sconfitta dura, anche se era riuscita, in un PC che usciva da una tradizione stalinista, ad imporre un dibattito pubblico, e sul quale alcuni punti importanti si riuscì a segnarli, anche sul terreno dei fatti. Ad esempio nel movimento sindacale. A partire dalla lotta degli elettromeccanici del 1959 contribuimmo a far avanzare un rinnovamento del sindacato e tutta una nuova tematica: la ricostruzione dell'organizzazione all'interno della fabbrica, la contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, il superamento delle correnti sindacali. Tutte queste cose divennero nel corso degli anni '60 patrimonio della maggioranza del movimento sindacale, almeno nelle categorie dell'industria. E se ne andò avanti un certo tipo di unità sindacale (ad esempio Fim-Fiom) è perché si era precedentemente realizzato un tipo di sindacato e una esperienza di movimento di massa che, sia pure con luci e ombre, aveva camminato. 
Non fummo sorpresi dai movimenti del '68. L'autocritica del nostro «illuminismo» e la lettura delle nuove lotte di massa come nuova fase e nuova ondata del movimento rivoluzionario in occidente, non fu per noi posteriore alle lotte del '68. In certo senso, pur essendo noi stati emarginati dai centri di direzione, comincia prima. E la rottura all'interno della sinistra comunista è avvenuta un anno prima che partisse la nuova ondata di lotta, all'inizio del 1967 sullo stimolo della rivoluzione culturale in Cina, dei nuovi sviluppi della rivoluzione cubana, delle prime avvisaglie di movimenti studenteschi e di ripresa del movimento nelle fabbriche. Si trattava ancora, occorre ricordarlo, di indizi molto fugaci, ma di là partì una nostra elaborazione non più viziata dall'illuminismo della fase precedente. Una elaborazione che ruppe con quella precedente soprattutto su due punti: la autocritica della visione troppo lineare del processo rivoluzionario, in cui finiva per stemperarsi l'elemento della rottura e della crisi: e la ricerca, nuova nel contenuto reale dei bisogni di massa e nelle forme della lotta per soddisfarli, della base materiale non solo con Togliatti ma anche con Gramsci. Ma questa è già storia e non più origine del nostro movimento politico, e come tale andrà considerata.
Con questa esposizione si è inteso sottolineare – nella forma  di una riflessione sulla nostra storia – un dato permanente del marxismo, da cui sempre ripartire. Prevalgono di solito due modi di vedere lo sviluppo del capitalismo come sistema globale, entrambi sbagliati; il primo è quello adottato dalla 2a  Internazionale, e poi variamente presente alla tradizione trotzkista, che colpisce Marx in modo schematico ed evoluzionista e che considera significativo, di valore universale, quindi codificabile in un'analisi generale,, solo il capitalismo dei giorni più alti; volta a volta, quello inglese o quello tedesco o quello americano. Tutti quelli che hanno battuto questa strada non sono riusciti neppure ad avvicinarsi al problema della rivoluzione.
Il secondo modo, tipico oggi dei partiti comunisti e del PCI in particolare, è quello secondo cui bisogna partire dalle concrete particolarità, come un dato unico e pressoché irriproducibile, di ogni formazione economico-sociale data; in sostanza la teoria delle vie nazionali al socialismo.
A nostro parere il modo corretto di vedere lo sviluppo capitalistico come sistema globale è quello leninista, che cerca nell'analisi di alcuni punti specifici ma significativi di quello sviluppo non soltanto la definizione empirica delle sue particolarità, ma i tratti e le leggi generali del sistema che le produce, Lenin infatti, analizzando la stratificazione della società russa, cercò di approfondire le ragioni dell'arretratezza russa, del modo ineguale con cui si sviluppavano il capitalismo mondiale e quello russo; e partendo da tale analisi riuscì ad individuare alcuni tratti generali del capitalismo della nostra epoca, che sono lo sviluppo ineguale e l'imperialismo, fenomeni di cui la Russia rappresenta l'aspetto arretrato, ma di cui l'America o la Germania o l'Inghilterra erano l'altra faccia, cioè il motore agente. Ad un'analisi di questo tipo si deve anche l'originalità del tentativo di Mao in Cina, quando individuò nella grande arretratezza di quel paese, nella necessità cinese di trovare un nuovo modello di edificazione del socialismo, alcuni spunti e alcuni principi che sono fondamentali proprio per i paesi di capitalismo più avanzato perché riportano in primo piano i connotati radicali del comunismo.
Qualcosa di simile aveva cominciato a fare, anche se non in modo sistematico e coerente, Gramsci, partendo dal capitalismo italiano, scoprendovi la presenza in forma esasperata di una serie di problemi essenziali per tutte le rivoluzioni almeno in Europa: l'esistenza di un certo tipo di  apparato statale, di una egemonia sociale e culturale della classe dominante, l'estrema articolazione del ceto medio e dei gruppi sociali. Che sono poi la vera ragione per cui la rivoluzione nel 1920 in occidente non si è fatta.
E' appassionante chiedersi perché l'Italia, che è l'ultimo paese in cui si è sviluppato il capitalismo maturo, è anche il paese in cui, praticamente e teoricamente, prima si è sviluppata un'azione di massa di contestazione del capitalismo maturo.
Non è la prima volta che questo accade, dato che già si è verificato in Russia: perché la Russia è stato l'ultimo paese a svilupparsi capitalisticamente, mentre  è stato il primo in cui la classe operaia è riuscita a darsi forme di organizzazione e di  pratica rivoluzionaria vincente? L'analisi dimostra che ciò deriva dal fatto che alcuni fenomeni tipici del capitalismo avanzato sono, in nuce, già contenuti nella struttura stessa dello sviluppo del capitale.
La storia del capitale non divisa per fasi  in cui operano strutture e formazioni economico-sociali differenti. Come nella prima metà di questo secolo sono emersi alcuni aspetti della dinamica del capitale, ed esempio la tendenza al monopolio e alla conquista dei mercati, così alcuni fenomeni tipici della società capitalista avanzata rappresentano l'affermarsi prevalente e generalizzato di elementi già presenti nella struttura del capitale , che sotto altre spinte affrontano proprio nel carattere «prematuro» del capitalismo italiano (per esempio il rapporto tra rendita e profitto). Gramsci non ha sospettato questa generalizzazione del problema, ma ha saputo derivarne una constatazione di grande valore: il carattere nuovo del ceto medio, e l'impossibilità di costruire un'alleanza col medio ceto in chiave di completamento della rivoluzione borghese.
E' tanto vero questo, che ne troviamo conferma nel fatto che Gramsci è il solo marxista che tra il 1920 e il 1930 abbia dato importanza decisiva al problema del capitalismo di massa, del taylorismo, della nuova organizzazione del lavoro. Benché in quel periodo si occupasse di  papi e di storia del Rinascimento, benché fosse in carcere e impossibilitato a leggere, egli, mentre quelli che erano fuori non si accorgevano neppure di quanto stava succedendo in America e pensavo che si fosse arrivati alla fase di stagnazione del capitalismo, fu l'unico che si soffermò su  quegli avvenimenti americani. E ciò, crediamo, perché la sua analisi del capitalismo italiano e della storia lo rendevano sensibile a quei problemi.
E' una conferma, sia pure indiretta, del fatto che nella storia del capitalismo italiano sono presenti una serie di elementi anche non puramente strutturali che favoriscono lo sviluppo di una strategia rivoluzionaria. Ci si potrebbe ad esempio chiedere come mai nasce in Italia un movimento operaio che è il solo in tutto  l'occidente ad avere una grossa tradizione internazionalista di massa e la risposta potrebbe essere che in Italia una tradizione nazionale di massa non è mai esistita, che la cultura, sia degli intellettuali sia delle masse, una cultura fondamentale cosmopolita, che il colonialismo e il nazionalismo sono sempre state manifestazioni superficiali, ed hanno potuto prender piede solo nella fase fascista e in forma mistificata.
Tutto ciò è per noi molto importante; perché costituisce la ragione stessa della nostra presenza e del nostro progetto; la smentita del Partito comunista, che sostiene che l'Italia essendo arretrata, è già molto se si fanno le riforme. La nostra posizione è al contrario, che nei punti più arretrati della catena avanzata, come avvenne in Russia nel '17, proprio là si pongono anticipatamente i problemi dell'insieme di una formazione storica, là è più possibile affrontarli radicalmente.
Marx diceva che non a caso il socialismo scientifico è nato in Germania, in presenza di una classe operaia relativamente più debole, su cui si è costruita poi la socialdemocrazia tedesca, perché nella relativa arretratezza del capitalismo tedesco esistevano gli spazi e i materiali con cui rovesciare l'arretratezza in una estremamente avanzata lotta operaia. Basare un'analoga ipotesi le radici lontane e oggettive del nostro progetto è il modo migliore per muoverci, insieme sicuri delle nostre ragioni e anche modesti, coscienti che ci muoviamo in una corrente molto più vasta e  profonda di noi. E spiega meglio noi stessi come una delle componenti della sinistra italiana da mettere in rapporto con altre componenti, alla ricerca della massima sintesi possibile. 

[1]    Quanto al fatto che, nel frattempo, si fosse «persa» una occasione rivoluzionaria, io credo (è sempre stata la posizione del Manifesto), che la critica al togliattismo nella fase postbellica debba essere concentrata su questo. È da discutere che essa si sia data nel dopoguerra. La critica va piuttosto concentrata sul fatto che il togliattismo non ha saputo dopo il 1945, come non aveva saputo prima, vivere una fase che ancora era una fase di preparazione (di difesa e offesa, non una fase rivoluzionaria aperta), in modo tale da costruire le premesse per uno sbocco rivoluzionario successivo; le critiche più dure da fare al togliattismo sono di non avere sviluppato a fondo, sia teoricamente che nella pratica, la componente di una nuova strategia rivoluzionaria che pure esisteva nella situazione di quegli anni.

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