domenica 17 novembre 2013

L'assedio c'è, ma non lo si vuole vedere di Fabio Sebastiani



L’assedio c’è ma non lo si vuole vedere. Se a Napoli scendono in piazza in più di centomila, con gente che arriva da tutta Italia, mamme, bambini, anziani in prima fila. Se a Torino ad aprire il corteo c’è più o meno la stessa scena. E si va avanti per chilometri smentendo la solita litania del Governo sull’opera irreversibile, fatto del tutto inesistente peraltro. Se a Firenze, a Parma, a Gradisca e Pisa nello stesso giorno e nelle stesse ore montano proteste contro chi ci vuole scippare i diritti e usare la violenza contro chi non accetta il ricatto, allora questo è assedio. Chiamatelo come volete, ma il movimento sta uscendo fuori.
E’ l’assedio ai poteri dei corpi stremati dalla crisi che cercano una via d’uscita dalla mattanza della politica e delle istituzioni. E finalmente la trovano nell’istinto a stare, intanto, uniti. E’ così che ci si comporta di fronte al pericolo. E anche quando si è capito che la "via solitaria" al socialismo non ha nessuno sbocco reale.
Claudio Sabattini, il grande e compianto segretario generale della Fiom, ricordava ad ogni apertura di assemblea che la parola sindacato deriva dal greco (potrebbe essere benaugurante!) “stare insieme con giustizia”. E’ solo così che si può contrapporre un peso alternativo e consistente al ricatto strutturale del potere, qualsiasi esso sia.
Si sta diffondendo in queste settimane, da quando cioè le due giornate del 18 e del 19 hanno dato il là alla protesta, un senso “silenzioso” di convergenza verso l’unità. Non è una unità politica, certo, per quello che vale ancora quella categoria. E' una unità sul senso da dare all'unità. E non è un gioco di parole: stiamo insieme senza dircelo, senza formulare un patto. Perché il patto potrebbe diventare più forte, e potenzialmente distruttivo del nostro stesso stare insieme. E’ come se la gente, i corpi senza aggettivi, le menti senza pregiudizi, ritrovassero un cammino nuovo per scrollarsi di dosso il torpore e provare a costruire una via d’uscita alla notte disperata del capitalismo. Un movimento spontaneo e anche straordinariamente maturo, che sembra avere nel Dna non solo la storia delle lotte ma la meravigliosa spontaneità, e forza, della rivendicazione. Nel silenzio fecondo si vanno componendo i fili di una tessitura straordinaria. Di fronte a uno schema del genere non c'è "realismo politico" che tenga.
E’ un caso che questa nuova fase rimette insieme le generazioni? E’ un caso che il no al ricatto della crisi rappresenta ancora e forse con maggiore determinazione un punto di riferimento forte? Dopo il popolo di plastica del berlusconismo senza qualità tocca ora al popolo in carne ed ossa.
In un sol colpo ci si è scrollati di dosso non solo i venti e più anni di un “nanismo” politico e culturale ultralillipuziano, ma tutte le falsità “narrative” dal Pd a Vendola al sindacato inutile, da Grillo a certo ribellismo di maniera che hanno tormentato la ricerca di una identità antagonista con la precisa accettazione della crisi e delle sue conseguenze. La società vuole andare avanti. Ed ha capito che le parole possono essere una trappola.
Pochi giorni fa al Campidoglio, con la rivolta degli autisti Atac, la loro sfrontata autorganizzazione, la loro voglia di rimettere al posto giusto le lancette dell’orologio “senza dover chiedere l’ora”, è stata plasticamente rappresentata con una marea umana che si contrapponeva alle striminzite bandierine dei sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil. Una spettacolo affascinante come non lo si vedeva da decenni. Affascinante perché le voci e i volti di una sofferenza autentica avevano deciso di sottrarsi al ricatto che, si badi bene, arrivava da tre diverse direzioni: il sindacato, che ha fatto mercimonio della condizione di lavoro, l’azienda, l’autorità politica. E’ bastato deciderlo insieme. Senza troppi discorsi sulla politica e sul “sol dell’avvenire”.
In fin dei conti, la sinistra antagonista non è mai cresciuta in un periodo strutturale di crisi sociale e politica. Questo è un fatto. Quando negli anni sessanta cresceva il movimento dei lavoratori ciò avveniva dentro un paradigma di crescita economica. E questo non è un particolare secondario. Quando l'ha fatto, nella crisi degli anni '50, ha dato poi vita al più grande partito comunista dell'occidente. Ora la prospettiva è quella di un emergenza continua, perché il capitale ha imparato ad esercitare l'arte del ricatto permanente. E quindi per la sinistra si pone la ricerca di nuove soluzioni. E nella ricerca di nuove soluzioni a guidare stavolta c’è il movimento. La ricetta giusta ovviamente sta nel mezzo, nell’impasto, come sempre. Perché il tema dell'organizzazione politica non scomparirà. E quindi è nella “presa di coscienza” del nuovo che si apre una fase in cui sopra gli argomenti del “fare” ci sono gli argomenti del “fare insieme”.

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