venerdì 31 gennaio 2014

Governabilità o democrazia

Postdemocrazia. Cosa c’è dietro l’ingegneria istituzionale della governabilità ad ogni costo
PaulPierCacciaLe regole della cac­cia alla volpe inte­res­sano per­lo­più i signori che la pra­ti­cano. E, suo mal­grado, la volpe. Dif­fi­cile imma­gi­nare che un intero popolo vi si possa appas­sio­nare.
Altret­tanto lecito è dubi­tare che gli ita­liani fre­mano per i dispo­si­tivi e le norme di quella nuova legge elet­to­rale che i media pon­gono ripe­tu­ta­mente e quo­ti­dia­na­mente al ver­tice delle loro più impel­lenti aspi­ra­zioni.
Assai più pro­ba­bile è che desi­de­rino pre­sto un qual­si­vo­glia risul­tato per non sen­tirne par­lare più e pas­sare ad altro.
Del resto, già il latino mac­che­ro­nico cor­ren­te­mente impie­gato nel desi­gnare le diverse leggi elet­to­rali è indice dell’atmosfera pro­vin­ciale e comi­ca­mente litur­gica in cui tutto il dibat­tito si svolge per par­to­rire, alla fine, qual­cosa di assai simile al già noto. Lad­dove in que­stione sono assai meno le forme della demo­cra­zia che non la distri­bu­zione delle risorse di potere tra forze poli­ti­che in disa­strosa crisi di senso e di rappresentanza.
Le argo­men­ta­zioni che i mag­giori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani hanno oppo­sto al pro­getto di legge con­cor­dato da Renzi e Ber­lu­sconi non potreb­bero essere più sen­sate. Ma si tratta di un eser­ci­zio di razio­na­lità politico-giuridica che dif­fi­cil­mente potrà inci­dere su una sto­ria già ampia­mente scritta, non solo in Ita­lia e non da ieri. Con­verrà allora risa­lire alle spalle dell’ingegneria nor­ma­tiva che infe­sta le prime pagine per col­lo­care lo stato coma­toso in cui versa la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva nel con­te­sto, sem­pre più deci­sa­mente post­de­mo­cra­tico, che gli è proprio.
La parola chiave da cui si deve par­tire è «gover­na­bi­lità». Non risale alla notte dei tempi, ma agli anni ’80, per poi cele­brare il suo trionfo con il pas­sag­gio dal pro­por­zio­nale al mag­gio­ri­ta­rio nel 1993. Lungi dal rap­pre­sen­tare un con­cetto tecnico-giuridico il prin­ci­pio della «gover­na­bi­lità» è di natura stret­ta­mente e squi­si­ta­mente poli­tica ed è anche piut­to­sto sem­plice: con­si­ste nel met­tere i gover­nanti al riparo dai gover­nati, almeno per il tempo che inter­corre tra una sca­denza elet­to­rale e l’altra. Ed è tal­mente per­va­sivo, in que­sta sua sem­pli­cità, da potersi appli­care a uno stato nazio­nale, a una fab­brica, a una uni­ver­sità, a un sin­da­cato (lo sa bene il segre­ta­rio della Fiom Mau­ri­zio Lan­dini nel con­durre la sua bat­ta­glia per la demo­cra­zia sin­da­cale), in breve a qual­si­vo­glia orga­ni­smo col­let­tivo, con diversi gradi di potere disci­pli­nante e di durata. Ed effet­ti­va­mente a tutte que­ste realtà è stato in diversa misura applicato.
Que­sta pre­ro­ga­tiva del comando con­si­ste in primo luogo nell’escludere la pos­si­bi­lità stessa delle «crisi di governo» e cioè l’eventualità che di fronte all’esplodere di con­trad­di­zioni sociali e poli­ti­che il qua­dro gover­na­tivo si trovi costretto a scom­porsi e ridi­se­gnarsi.
La «gover­na­bi­lità» garan­ti­sce invece che, per il tempo privo di incer­tezze del suo man­dato, la mag­gio­ranza par­la­men­tare e il suo governo pos­sano eser­ci­tare il più pieno arbi­trio senza met­tere a repen­ta­glio la pro­pria sta­bi­lità.
Una ten­denza alla faci­li­ta­zione del comando, o ridu­zione della com­ples­sità come la chia­ma­vano i teo­rici più raf­fi­nati, che nes­sun bilan­cia­mento isti­tu­zio­nale, e men che meno la cor­rut­ti­bile «libertà di coscienza» dei rap­pre­sen­tanti, potrà più rimet­tere in questione.
Governi, è ovvio, ce ne sono sem­pre stati, anche nelle fasi di mag­giore insta­bi­lità (che sovente cor­ri­spon­de­vano a quelle di mag­giore svi­luppo), sog­getti, tut­ta­via, a quella neces­sità di adat­ta­mento alla tur­bo­lenza dei gover­nati che il prin­ci­pio di «gover­na­bi­lità» intende radi­cal­mente rimuo­vere.
La cre­scita costante dell’astensionismo è il segno più evi­dente del dif­fon­dersi del senso di impo­tente distanza da parte dei gover­nati e, nei casi meno ras­se­gnati, di osti­lità, che la blin­da­tura del qua­dro poli­tico determina.
Ma «gover­na­bi­lità» è anche la ban­diera dei par­titi mag­giori, i quali rispon­dono alla stessa logica delle grandi con­cen­tra­zioni eco­no­mi­che impe­gnate nella com­pe­ti­zione entro un oriz­zonte comune. Que­sto oriz­zonte comune o «regola con­di­visa» non è che la dot­trina della com­pe­ti­ti­vità libe­ri­sta non­ché la pre­tesa a una libertà di azione che non ammette vin­coli né discus­sioni. Quando si dice che l’economia domina la poli­tica, si intende soprat­tutto che la seconda si ridi­se­gna secondo gli schemi e le forme della prima. Ed è esat­ta­mente quello che i grandi par­titi mono­po­li­stici stanno facendo nell’approntare le con­di­zioni nor­ma­tive che ren­dano pos­si­bile que­sto ade­gua­mento. Senza troppo disco­starci dalla realtà potremmo con­si­de­rare le pri­ma­rie come una assem­blea degli azio­ni­sti, la dire­zione poli­tica come un con­si­glio di ammi­ni­stra­zione, il segre­ta­rio come un ammi­ni­stra­tore dele­gato e le ele­zioni poli­ti­che come la com­pe­ti­zione su un mer­cato che non lascia più spa­zio agli outsi­ders o alle pic­cole imprese più o meno artigianali.
È que­sto carat­tere post­de­mo­cra­tico dell’ordine libe­ri­sta, e il rico­no­sci­mento comune delle regole che vi pre­sie­dono, ciò che nella sostanza sot­tende l’accordo tra il Pd di Mat­teo Renzi e la rinata Forza Ita­lia di Sil­vio Ber­lu­sconi. Così come i listini della Borsa anche il duo­po­lio poli­tico non pre­vede «alter­na­tiva», ma solo alter­nanza delle rispet­tive quo­ta­zioni sul mer­cato. La nuova legge elet­to­rale costi­tui­sce un effi­cace ade­gua­mento della poli­tica a que­sto schema. Le «lar­ghe intese», che si pre­gia di aver supe­rato per sem­pre, non erano in fondo che una appli­ca­zione diversa di quello stesso dogma della «gover­na­bi­lità» ad ogni costo che essa san­ci­sce nella dot­trina dell’alternanza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di can­cel­lare la con­flit­tua­lità sociale dalla vita collettiva.
La dimen­sione post­de­mo­cra­tica è ciò che sem­pre più acco­muna il governo dell’Europa a quelli dei sin­goli stati che la com­pon­gono e che con­tri­bui­scono in maniera deci­siva a osta­co­larne l’evoluzione poli­tica e con­ser­varne la rigi­dità tec­no­cra­tica. Non c’è da aspet­tarsi alcuna demo­cra­tiz­za­zione dell’Unione da parte di sovra­nità nazio­nali alle prese con la ridu­zione dei pro­pri spazi demo­cra­tici interni.
Sem­mai il con­tra­rio, secondo la gene­rosa e azzar­data ipo­tesi di Etienne Bali­bar che auspica un’Europa più demo­cra­tica di tutti gli stati che la compongono.
È solo su que­sta scala che un movi­mento poli­tico e un con­corso di forze che par­lino una lin­gua diversa dal latino mac­che­ro­nico potreb­bero rove­sciare la «regola comune» cui i nostri mono­po­li­sti poli­tici, nazio­nali e sovra­na­zio­nali, vor­reb­bero pie­gare le società europee.

MARCO BASCETTA
da il manifesto

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