giovedì 27 marzo 2014

Meritocratici col culo degli altri di Alessandro Gilioli, L'Espresso


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Siccome è il Corriere della Sera – con tutta la visibilità e il bisogno di reputazione di un big medium – alla fine i dipendenti del gruppo sono riusciti (bravi) a far saltare il super bonus che i manager intendevano autoattribuirsi per aver raggiunto gli obiettivi di risparmio (92 milioni): tutti o quasi peraltro ottenuti alla voce “costo del personale”, cioè mandando in cassa integrazione e prepensionando i dipendenti stessi, e a fronte di conti economici ancora tutt’altro che floridi.
Ma non sarebbe elegante qui prendersela un’azienda concorrente a quella per cui lavoro, quindi non è di questo di questo che voglio parlare.
Mi interessa invece un problema piuttosto serio che mi pare diffuso e trasversale – pensate alla sparata di Moretti sul proprio stipendio, ad esempio: perché da cinque anni si processano tutte le “caste” possibili immaginabili (politici, giornalisti, magistrati, notai, farmacisti, tassisti, avvocati etc) mentre quella dei manager è rimasta intoccabile?
Io un paio di possibili risposte ce le ho, in merito.

La prima è che semplicemente i componenti di questa casta (pubblici o privati che siano) controllano indirettamente tutti i media o quasi: e, come si suol dire, nessun tacchino festeggia il Thanksgiving. Molto meglio quindi canalizzare l’odio e la rabbia sociale verso altri obiettivi, o semplicemente evitare l’argomento (almeno in termini generali: ce la si prenda pure con Moretti o con Marchionne, ma non con la categoria nel suo complesso).
La seconda possibile risposta è che il passaggio dal lento capitalismo industriale a quello iperveloce finanziario ha portato a malintendere parecchio il concetto di meritocrazia: il manager “bravo” ormai è quello che ottiene la fiammata in Borsa, non quello che costruisce la solidità aziendale di qui ai prossimi dieci anni.
C’è poi una variabile molto italiana, che ho visto applicata in un’azienda in cui lavoravo una quindicina di anni fa, quando dirigevo dei (piccoli) mensili e quindi avevo rapporti quotidiani con i vertici in cravatta: la cordata.
Nel senso che ho riscontrato una tendenza diffusa dei manager a proteggersi l’un l’altro (anche rispetto all’azionista) perché se io oggi proteggo te, tu domani proteggi me. Una sorta di patto di non belligeranza finalizzato all’autosalvaguardia comune, che ovviamente ha a sua volta pochissimo a che fare con il concetto di meritocrazia: branditissimo in pubblico e praticato il meno possibile in privato.
Sui privilegi spesso immeritati di questa casta scrisse un libro quasi dieci anni fa un anonimo molto ben informato, che devo avere ancora a casa da qualche parte. Era roba che faceva venire il sangue caldo e non so se e quanto, scoppiata la crisi, il panorama sia cambiato. Credo poco.
A proposito, vedo che ultimamente qualcuno si chiede in giro se la chiusura autoprotettiva e autopremiante di questa élite non abbia qualcosa a che fare con la crisi stessa, non sia cioè una tra le cause dell’inefficienza economica. Perché i manager scadenti che tuttavia rimangono imbullonati ai loro posti di comando alla fine impattano negativamente su tutta l’economia.
Mi sembra già un bel passo in avanti solo porsi la domanda.
Per quanto riguarda la risposta, temo che valga quello che ho scritto qualche giorno fa: cioè è un’altra delle tante battaglie che si possono fare solo in sede non nazionale. Anche per la gioia di Moretti, che sembra tenerci tanto, e che chissà che carriera avrebbe fatto all’estero, senza agganciarsi per un quarto di secolo ai politici bipartisan che l’hanno portato lì.

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