domenica 6 aprile 2014

Jobs Act, Credit crunch, MMT, Exit Strategy Intervista a Guglielmo Forges Davanzati




 

Il prof. Guglielmo Forges Davanzati, docente presso l’Università del Salento affronta temi eterogenei ed estremamente attuali: dal jobs act di Renzi, al problema del credit crunch bancario, alla controversa visione della produttività, al nesso tra Circuitismo e Modern Money Theory fino alla delicata questione della moneta unica e di una possibile “exit strategy”.

In un suo recente articolo ha affermato che il Jobs Act di Renzi sia “una proposta sostanzialmente vuota” e che riproporrebbe, in modalità diverse, ulteriori politiche di precarizzazione del lavoro. Alla luce di questa affermazione, secondo lei, quali sarebbero le misure che il Governo dovrebbe invece adottare per rilanciare l’occupazione e ridurre la disoccupazione che ha raggiunto la drammatica soglia del 12,9% e del 42,4% per i giovani?
Il Jobs Act recepisce una proposta di Boeri e Garibaldi, che fa riferimento all’istituzione di un contratto unico di inserimento a tutele crescenti. Avendo realizzato che alle imprese non serve poter disporre di una selva di tipologie contrattuali (come previsto nella c.d. legge Biagi), si propone un intervento di semplificazione, finalizzato ad abolire alcune tipologie contrattuali tuttora vigenti, e non utilizzate, e istituire un contratto unico con un iniziale periodo di prova e con successiva assunzione a tempo indeterminato. Ma il contratto unico a tutele crescenti non sostituisce i contratti a tempo determinato. In questo senso, la proposta è vuota, ovvero non modifica, nella sostanza, nulla.
Le politiche di precarizzazione del lavoro hanno effetti negativi sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei salari rispetto al PIL. Vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro –misurata dall’EPL (Employment protection legislation)– l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo, dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale. Il fatto che la riduzione della protezione dei lavoratori riduce l’occupazione è spiegabile alla luce di almeno due effetti macroeconomici.
1) La flessibilità riduce la propensione al consumo dei lavoratori, perché a fronte della possibilità di mancato rinnovo del contratto, e dunque, della maggiore incertezza sui redditi futuri, i lavoratori reagiscono proteggendosi dal rischio di disoccupazione riducendo i consumi, per quanto ciò sia possibile, con conseguenti effetti negativi sulla domanda aggregata interna. La riduzione dei consumi, associata al crescere della precarietà, deriva anche da due cause ulteriori: la difficoltà (se non l’impossibilità) per i lavoratori con contratto a tempo determinato di accedere a mutui, e –in quanto il precariato riguarda prevalentemente individui provenienti da famiglie con basso reddito– la scarsa disponibilità di risorse derivanti dai risparmi delle famiglie d’origine.
2) A ciò si aggiunge che l’adozione di contratti flessibili, e in generale le politiche di compressione dei costi, tendono a disincentivare le innovazioni e la crescita dimensionale delle imprese. Come rilevava Keynes: “se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale”. Dunque, sono semmai misure che rendano più rigido il mercato del lavoro a poter creare le condizioni per l’aumento dell’occupazione e del tasso di crescita.

Professore molti ritengono che il fenomeno del credit crunch (stretta del credito) da parte degli istituti finanziari (banche) sia dovuto a diverse ragioni tra le quali l’avidità e l’incompetenza di chi gestisce gli Istituti di credito o i modesti incentivi che ricevono i manager delle banche o ancora viene fatto dipendere dalla bassa capitalizzazione del sistema bancario. A ragion veduta si può ritenere che la restrizione del credito sia causata da “altri fattori”, può spiegarci quali?
Le principali banche centrali dei Paesi industrializzati – BCE inclusa – stanno, da tempo, inondando di liquidità il sistema economico, adottando politiche monetarie definite “non convenzionali”. Con quali risultati? Ci si aspetterebbe un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Ci si aspetterebbe anche un aumento del tasso di inflazione. Per contro, sta accadendo il contrario o comunque non si stanno verificando i risultati attesi. Su fonte ISTAT, si registra che, in Italia, gli investimenti fissi lordi hanno subìto una contrazione del 3.3%, il tasso di disoccupazione è aumentato, dal 2012 al 2013, di circa un punto percentuale e le (più ottimistiche) previsioni indicano un tasso di crescita nell’ordine del -1.4%. Il tasso di inflazione resta sostanzialmente fermo su valori di poco superiori all’1%. Le principali motivazioni che spiegano la sostanziale inefficacia delle politiche monetarie espansive nell’attuale configurazione del capitalismo sono così sintetizzabili.
1) In una condizione di aspettative pessimistiche, la riduzione dei tassi di interesse non costituisce un incentivo rilevante per effettuare investimenti o, al limite, è una condizione totalmente irrilevante nelle decisioni di spesa delle imprese. Si osservi che le aspettative non sono un dato ma dipendono in modo cruciale dall’andamento della domanda. In fasi recessive, caratterizzate da bassa e declinante domanda di beni di investimento e beni di consumo, è del tutto ovvio che le imprese posticipino i loro investimenti, attivando un circolo vizioso che, in assenza di interventi esterni, è destinato ad autoalimentarsi. La riduzione degli investimenti, infatti, contribuisce a generare ulteriori riduzioni della domanda aggregata e ulteriori aumenti del tasso di disoccupazione. La riduzione della domanda, a sua volta, disincentiva gli investimenti.

2) Un basso tasso di inflazione – attuale e atteso - costituisce un ulteriore fattore di freno agli investimenti, dal momento che gli imprenditori assumono rischi se ritengono di poter vendere a prezzi tali da consentire loro di acquisire margini di profitto ‘normali’. In tal senso, la riduzione del tasso di inflazione definisce una condizione per la quale i costi inizialmente sostenuti per attuare un progetto di investimento eccedono i ricavi attesi. Se si ammette che gli investimenti crescono al crescere del tasso di inflazione, non si capisce per quale ragione la BCE continui a darsi un target del 2%, oltre il quale si ritiene obbligata a intervenire riducendo il tasso di inflazione. D’altra parte, il target del 2% non trova riscontro in un fondamento ‘scientifico’ inoppugnabile, e riflette una decisione esclusivamente politica.
3) Il fattore più rilevante che motiva l’inefficacia delle politiche monetarie espansive risiede negli effetti che queste producono sulla gestione del credito da parte delle banche commerciali. Come documentato dalla Banca d’Italia fin dal 2010, in Italia (e nei principali Paesi OCSE) è in atto una rilevante restrizione del credito combinata con una altrettanto rilevante riduzione della domanda di finanziamenti da parte delle imprese. Da qui un apparente puzzle. Come è possibile tenere insieme una consistente immissione di liquidità da parte delle banche centrali con la riduzione del credito da parte delle banche commerciali? Si consideri che i profitti delle principali banche internazionali sono in costante aumento. I principali istituti di credito su scala globale fanno registrare incrementi di utili eccezionali: si stima che, su base annua, JP Morgan, Ciibank, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs abbiano, in media, più che raddoppiato i loro profitti. In una condizione “fisiologica”, nella quale le banche raccolgono risparmi per erogare finanziamenti, i profitti bancari sono dati dalla differenza fra i ricavi ottenuti dal rimborso del debito maggiorato con interessi da parte delle imprese e gli interessi dovuti ai risparmiatori (più i costi di gestione).
Nella condizione attuale, è da escludere che i profitti siano generati dagli interessi pagati dalle imprese, proprio a ragione della restrizione del credito in atto. La gran parte dell’incremento degli utili bancari va, dunque, imputato all’attività speculativa, ovvero all’acquisto e alla vendita di titoli sui mercati finanziari, e a operazioni di acquisizione e fusione.
Si è, dunque, in presenza di un fenomeno – la “finanziarizzazione” bancaria – che, per le dimensioni assunte, è decisamente inedito. Tutto ciò è reso possibile, in ultima analisi, da due fattori: la piena libertà assegnata all’intero sistema bancario di operare senza vincoli sui mercati finanziari e, soprattutto, l’attuazione di politiche fiscali restrittive.
La caduta della domanda aggregata –accelerata dalle politiche di austerità– riducendo i mercati di sbocco, riduce i profitti delle imprese, fino a determinarne il fallimento. Ciò si traduce, da un lato, in una riduzione delle garanzie che le imprese possono offrire alle banche per ottenere finanziamenti e, dall’altro, nel peggioramento delle aspettative imprenditoriali. Le imprese domandano meno credito e le banche –assegnando maggiore rischiosità ai progetti di investimento– riducono l’offerta di credito. Ne segue l’aumento del tasso di disoccupazione e, a fronte della riduzione degli investimenti (e, dunque, della crescita dell’obsolescenza del capitale tecnico), e la riduzione della produttività del lavoro. Tassi di disoccupazione crescenti e bassa crescita della produttività non possono che generare continue riduzioni del tasso di crescita. In definitiva, una politica monetaria espansiva che non sia associata a una politica fiscale espansiva è del tutto inefficace.

Uno dei temi molto in voga nel panorama politico è il continuo richiamo alla produttività: molti dei mali dell’Italia, se non tutti, vengono attribuiti ad un suo basso livello al contrario della Germania che viene continuamente elogiata per i suoi alti livelli; Adam Posen, invece, non rileva questo grosso incremento della produttività tedesca e soprattutto quest’ultima è cresciuta molto più velocemente rispetto ai salari. Secondo Lei da cosa dipende la produttività? Aumentarla è la soluzione per uscire dalla crisi?
Non vi è dubbio che la crescita tedesca sia soprattutto dovuta a politiche di deflazione salariale, con una dinamica sostenuta (anche se ora in flessione) della produttività, secondo un modello di export-led growth. Accrescere la produttività è senza dubbio uno strumento rilevante per uscire dalla recessione: il problema sta in come raggiungere questo obiettivo.
Veniamo all’Italia. L’ex Ministro Fornero ha recentemente dichiarato che gli italiani lavorano poco e male, e che la bassa crescita della nostra economia dipende anche da questo. La dichiarazione merita di essere commentata perché esplicita una convinzione diffusa, spesso declinata in modo meno drastico. Non vi è dubbio che uno dei principali problemi dell’economia italiana, se non il principale problema, riguarda il basso tasso di crescita economica, a sua volta in larga misura imputabile alla bassa (e declinante) produttività del lavoro. Vi sono molti dubbi, invece, sulla diagnosi della prof. Fornero.
Occorre innanzitutto chiarire che, su fonte OCSE, le ore lavorate in Italia sono superiori a quelle erogate nei principali Paesi industrializzati. È dunque falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora poco. Ed è anche falsa l’affermazione secondo la quale in Italia si lavora “male”, ovvero è basso il rendimento dei lavoratori occupati. Vediamo perché. La produttività del lavoro dipende fondamentalmente da tre variabili: il capitale fisso di cui il lavoratore dispone, il suo “capitale umano” (derivante dal learning by schooling e dal learning by doing), la sua motivazione al lavoro. La politica del lavoro –in questi ultimi anni– ha provato ad agire quasi esclusivamente su quest’ultima variabile, anche per impulso dell’ex Ministro. Sono state implementate misure di crescente deregolamentazione del mercato del lavoro, con l’obiettivo di incentivare l’impegno lavorativo, ponendo i lavoratori nella condizione di erogare il massimo rendimento per accrescere la probabilità di rinnovo del contratto. Sono state introdotte misure di detassazione del salario, ispirate all’idea secondo la quale i lavoratori sono incentivati a fornire maggiore impegno solo se sanno che, così facendo, otterranno incrementi delle loro retribuzioni.
È una logica che si inserisce coerentemente in un disegno di revisione del modello di relazioni industriali, che intende andare (e, di fatto, sta andando) nella direzione della contrattazione “atomistica”, nel quale il singolo lavoratore – con la minima “interferenza” delle organizzazioni sindacali – contratta direttamente con il proprio datore di lavoro.
Quali sono stati gli esiti? Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, ad oggi, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati e, a partire dagli anni ottanta (ovvero proprio dalla fase nella quale si è cominciato a mettere in atto queste politiche), è costantemente declinata.
La ragione fondamentale che spiega la costante riduzione della produttività del lavoro in Italia è da ricercarsi, semmai, nella bassa (e declinante) accumulazione di capitale, non nello scarso rendimento dei lavoratori italiani. Se fosse vera la seconda congettura, infatti, ci troveremmo in una condizione nella quale, con un alto tasso di disoccupazione e ampia discrezionalità dei licenziamenti, la produttività dovrebbe risultare elevata, per l’elevata credibilità della “minaccia di licenziamento”. Per contro, è proprio una condizione di elevata (e crescente) disoccupazione a generare cali di produttività. Ciò accade per l’operare di questo meccanismo. Le nostre imprese, fatte salve poche eccezioni, esprimono una bassa propensione all’innovazione, dal momento che, nella gran parte dei casi, sono imprese di piccole dimensioni con una specializzazione produttiva in settori “maturi”.

Il circuitismo, di cui lei è uno tra i massimi esponenti, presenta notevoli punti di contatto con la MMT, la teoria portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard, i cui maggiori esponenti sono W. Mosler, R.L. Wray, M. Forstater, W. Mitchell etc… Ultimamente il prof. Alain Parguez (fondatore del circuitismo francese) ha abbracciato in toto la MMT. Potrebbe descriverci, se ci sono, i punti di dissonanza tra questa teoria e il circuitismo?
A me non sembra che la MMT rappresenti qualcosa di radicalmente nuovo rispetto alla teoria del circuito monetario, in particolare nella formulazione datane da Augusto Graziani in Italia fin dai primi anni ’80. Schematicamente, la teoria del circuito monetario (o teoria monetaria della produzione – TMP) analizza lo svolgimento del processo economico, in un’economia capitalistica, assumendo l’esistenza di tre macro-agenti: banche, imprese e lavoratori. Lo schema prevede fasi sequenziali circolari, articolate come segue. Le banche, nel loro complesso, creano moneta-credito sulla base della domanda di finanziamento proveniente dalle imprese. L’offerta di moneta è endogena ed, essendo la moneta un puro segno, la sua produzione non incontra vincoli tecnici: in tal senso, è producibile ad infinitum. Le imprese quantificano la domanda di finanziamenti (il c.d. initial finance) sulla base del monte salari contrattato con i lavoratori. Gli scambi interni al macrooperatore imprese danno luogo a un saldo netto nullo, dal momento che non si dà fuoruscita di moneta dal sistema delle imprese. Il monte salari monetario torna alle imprese sotto forma di ricavi di vendita e le imprese restituiscono il debito alle banche. La MMT fa partire, per contro, il circuito monetario dalla spesa pubblica, rilevando che, sul piano logico, non si potrebbe avere prelievo fiscale senza una preventiva immissione di moneta da parte dello Stato. Come ha correttamente rilevato Mark Lavoie, questa assunzione discende dal considerare il settore bancario e lo Stato come un unico settore consolidato. Al di là degli aspetti tecnici relativi a (marginali) divergenze sulla natura e il ruolo della moneta, credo che sia rilevante sottolineare come entrambi gli orientamenti convergano nel ritenere che un’economia capitalistica di mercato genera spontaneamente disoccupazione, e come, per conseguenza, sia necessario un incisivo intervento pubblico in economia.
La proposta di Wray – che recupera quella di Minsky – secondo la quale l’operatore pubblico dovrebbe svolgere la funzione di “datore di lavoro di ultima istanza” mi pare pienamente recepibile anche nel contesto teorico della TMP.

In un paper denominato “Modern Money Theory 101: A Reply to Critics”, Wray e Tymoigne hanno chiarito alcuni punti discussi della MMT: tra i vari aspetti analizzati c’era anche quello relativo alla banca centrale e al ruolo della moneta nel circuito. Loro hanno precisato dunque che la moneta di stato (HPM) è accettata dalle banche in quanto necessaria a regolare i conti di riserva presso la propria banca centrale, e che le riserve vengono immesse nel sistema con la spesa pubblica. Se le cose stanno cosi allora, in cima al circuito si andrebbero a collocare il Tesoro e la Banca Centrale (che svolgono operazioni simultanee e a stretto contatto) denominate “settore governativo”. Il prof. Parguez ha accettato questa modifica e l’ha inserita nel suo modello. Lei cosa pensa a riguardo?
Esistono modelli “circuitisti” nei quali la produzione di moneta avviene in presenza di una Banca centrale. Ma resta ferma l’ipotesi che la creazione di moneta avviene da parte del sistema bancario su domanda delle imprese (assumendo, in prima istanza, che le banche siano perfettamente accomodanti, ovvero che non restringano o razionino l’offerta di credito). Per quanto capisco, la tesi secondo la quale l’immissione di moneta avviene mediante spesa pubblica finanziata dalla Banca Centrale può valere in particolari contesti istituzionali, e, quindi, non può essere considerata una tesi di carattere generale.

Nel circuito monetario tra banche, imprese e lavoratori manca inizialmente una parte, che verrà poi aggiunta al lavoro compiuto da Graziani (come ricorda anche Giorgio Gattei , in una recente intervista rilasciata a “Economia per i Cittadini”): manca la “monetizzazione del plusprodotto”. Se infatti l’intero salario venisse speso nell’acquisto dell’intera produzione , verrebbe a mancare la moneta necessaria a monetizzare i profitti delle imprese. Quindi, dando per scontato che la totalità delle nazioni non potranno mai vantare esportazioni nette contemporaneamente, Le chiedo: il debito pubblico è una necessità degli Stati?
Sì, si tratta del c.d. paradosso dei profitti, per il quale, siccome i ricavi monetari eguaglianoi costi monetari per la collettività delle imprese (posta uguale a 1 la propensione al consumo dei lavoratori), i profitti monetari aggregati al netto degli interessi risultano nulli. A fronte dei numerosi tentativi di risolvere “tecnicamente” il problema, resta il punto teorico sollevato da Giorgio Gattei: la riproduzione monetaria del capitalismo può avvenire solo a condizione di espandere il debito pubblico.

Veniamo all’euro. Il nostro punto di vista è il seguente: data l’irriformabilità dell’euro, causa assenza reale di volontà politica, l’uscita dall’euro, e probabilmente dall’unione europea, risulta l’unica via percorribile ma da sola non è sufficiente! Ipotizzando una “Euro exit” con le attuali politiche di austerità, la situazione italiana rischierebbe addirittura di aggravarsi. E. Brancaccio ipotizza un’uscita da “sinistra” proprio per evitare soluzioni “gattopardesche” (ad esempio, il ricorso alla svalutazione come volano di un’economia al traino dell’export, c.d. “export-led”). Anche A. Graziani sottolineava tutta una serie di rischi e di disequilibri legati a tale possibilità. Qual è il suo pensiero in merito?
Credo che occorra preliminarmente sgombrare il campo da un duplice equivoco. Il primo: la recessione italiana dipende dai vincoli imposti dall’Unione Monetaria Europea e dalle politiche di austerità imposte dalla Germania. Secondo: nel caso di uscita unilaterale dell’Italia dall’UME, vi sarebbe spazio per l’attuazione di politiche fiscali espansive, ed eventualmente di recupero di competitività via svalutazione del tasso di cambio. Il primo equivoco nasce dal fatto che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, alla progressiva desertificazione produttiva della nostra economia. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. E, d’altra parte, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno accettato i vincoli europei senza minima opposizione, talvolta con favore: l’esperienza del Governo Monti, in tal senso, è emblematica. 
Il secondo equivoco nasce da un’interpretazione –piuttosto diffusa– del funzionamento della politica economica basata su (presunti) automatismi, per la quale l’”exit” porterebbe pressoché automaticamente a una radicale revisione delle politiche economiche in Italia. È ovvio, per contro, che nulla assicura che ciò accada, peraltro in uno scenario del tutto imprevedibile, e cioè che nulla assicura che l’abbandono della moneta unica si associ a scelte politiche che vadano nella direzione di un aumento della spesa pubblica, di misure di ridistribuzione del reddito, di detassazione, ed eventualmente della svalutazione del tasso di cambio. In quest’ultimo caso, peraltro, come è stato osservato, si avrebbe un calo dei salari reali –tramite inflazione importata– che dovrebbe essere compensato dall’introduzione di meccanismi di indicizzazione. Ma, anche qui, siamo nella sfera delle decisioni politiche che verranno assunte dopo l’eventuale abbandono della moneta unica, dunque del tutto imprevedibili.
Si può anche considerare che l’abbandono dell’euro da parte italiana non avrebbe effetti sull’economia “reale”, lasciando inalterata una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale. E, d’altra parte, il capitale tedesco non ha molto da perdere dal ritorno al marco, anche nella peggiore delle ipotesi, ovvero anche se gli altri Paesi europei dovessero mettere in atto misure protezionistiche. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: la quota delle esportazioni tedesche intra-UE si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, e considerando gli elevati margini di incertezza che aleggiano sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea, si può ragionevolmente concludere che la tenuta dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro.
Se si accetta questa analisi, occorre semmai lavorare per riformare l’Unione Monetaria Europea.
Si tratta di continuare a fare anche un lavoro di critica della politica economica (oltre che, ovviamente, battaglia politica), che, per alcuni aspetti, già qualche risultato ha dato. Ci si riferisce, in particolare, ai numerosi contributi di Paul Krugman sulla irrazionalità delle politiche di austerità e alla scoperta del clamoroso errore commesso da Reinhart e Rogoff nella quantificazione dei criteri di sostenibilità del debito pubblico. Mentre è difficilmente discutibile la tesi secondo la quale sono gli interessi di classe a guidare la politica economica, è controversa e più difficilmente difendibile l’idea che la critica della politica economica sia sostanzialmente ininfluente. Si tratta di una vexata quaestio, che, tuttavia, risulta decisamente attuale nel contesto presente. Non si può ignorare la (timida e tardiva) presa d’atto del fatto che le politiche di austerità non soltanto producono recessione, ma sono anche del tutto inefficaci per l’obiettivo che (ufficialmente) si propongono, ovvero la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL. E si può ritenere che ciò dipenda anche dall’enorme mole di pubblicazioni, prodotte in questi ultimi anni, che ha dimostrato che le politiche di austerità generano esclusivamente “inutili sofferenze”, come peraltro certificato dal Fondo Monetario Internazionale. Così come non si può ignorare il fatto che i nuovi Trattati Europei (in particolare, il Six-Pack) contengano alcune clausole che, di fatto, recepiscono proposte provenienti da economisti “eterodossi”: si pensi alla norma che prevede procedure di infrazione per avanzi/disavanzi eccessivi della bilancia commerciale, misura palesemente in contrasto rispetto alla tradizionale impostazione delle politiche economiche dell’Unione, che riprende un’analoga proposta formulata (senza successo) da John Maynard Keynes nella conferenza di Bretton Woods (l’”international clearing union”). Certo, si può sostenere che si tratta di un episodi marginali.
Ma va riconosciuto che, pure a fronte del fatto che il “pensiero unico” è dominante nelle Università e nei media, il capitale non sempre riesce a mettere sotto silenzio le voci critiche e, dunque, non sempre riesce a contenere le spinte conflittuali. Con solo. Le dinamiche in atto si svolgono all’interno di un capitalismo “flessibile”, capace di adattarsi e di mutare, e di modificare le proprie strategie in relazione alla necessità di creare, contestualmente, le condizioni per la sua riproduzione e le condizioni per la sua legittimazione sociale. E, nel modificare le proprie strategie, esprime una domanda di idee economiche che rende il mainstream sempre più disponibile a recepire posizioni teorico-politiche di orientamento “critico”. Infine. Per correttezza nei confronti di un grande economista defunto, Augusto Graziani, faccio rilevare che non hai mai scritto su un’uscita “da sinistra” dalla moneta unica.

Siamo totalmente d’accordo sull’assenza di una politica industriale che dura ormai da decenni nel nostro paese. É lecito sostenere che l’assenza di una politica industriale sia stata favorita anche a causa dei vincoli adottati per l’adesione al serpente monetario europeo e allo SME successivamente: l’euro è solo la fine di un processo iniziato negli anni 70. Secondo Lei Professore, é possibile tornare ad effettuare nuovamente politiche industriali rimanendo nell’euro?
Non credo che, di per sé, un sistema di cambi fissi impedisca di fare politiche industriali. Più in generale, gli attuali problemi economici italiani non mi sembrano discendere direttamente dall’adozione della moneta unica, ma da scelte politiche reiterate nel corso degli ultimi ventenni che hanno delineato un modello di specializzazione produttiva in settori “maturi” e sempre meno competitivi su scala internazionale. I vincoli europei e le politiche di austerità hanno drammaticamente accentuato i problemi.

Qualora si dovesse scegliere di abbandonare l’eurozona: non sarebbe forse auspicabile, come dicono i sostenitori “dell’uscita dall’euro da sinistra”, adottare misure di protezione come il ripristino dell’indicizzazione dei salari, l’introduzione di dazi per le importazioni, la “difesa” degli asset industriali strategici, la nazionalizzazione dei grandi istituti di credito?
Ovviamente sarebbero misure auspicabili, ma – ripeto – l’abbandono dell’eurozona non è né una condizione permissiva né una condizione cogente perché si facciano politiche ridistributive. Non riesco a vedere un nesso fra fuoriuscita dall’UME e un plebiscito a favore di Governi di sinistra in Italia. Semmai – date le condizioni attuali – una deflagrazione dell’Unione potrebbe aprire spazi per formazioni politiche xenofobe, fasciste, neo-naziste.

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