giovedì 14 agosto 2014

Europa in ginocchio, Germania in recessione di Claudio Conti, Contropiano.org

Europa in ginocchio, Germania in recessione
Sarà meglio parlare fuori dai denti e dai tecnicismi: l'Europa è in crisi e l'Unione Europea può solo aggravarla.
I dati statistisci pubblicati stamattina confermano, in misura aggravata, le previsioni peggiori. Ovvero quelle più realistiche. Il dato più clamoroso, e dunque anche più strombazzato da tutti i media, è quello relativo al prodotto interno lordo della Germania, che nel secondo trimestre è calato dello 0,2% rispetto al primo trimestre. Il dato è peggiore delle attese degli analisti, che si aspettavano un calo congiunturale "solo" dello 0,1%. L'istituto di statistica di Berlino, per spiegarne il perché, si arrampica su tutti gli specchi possibili: «una delle ragioni è stata probabilmente il clima estremamente mite che ha portato ad alti tassi di crescita all'inizio dell'anno. Secondo i calcoli più recenti, l'economia tedesca era cresciuta dello 0,7% nel primo trimestre del 2014 e nell'ultimo trimestre 2013 era salita dello 0,4% congiunturale». Non è impossibile da capire, ma è ridicolo: faceva caldo di inverno e si è lavorato un po' di più. Poi, a primavera, ci si è riposati?
La spiegazione vera è naturalmente un'altra: la forte contrazione degli investimenti. Che a sua volta chiama in causa sia ragioni strutturali (eccesso di capacità produttiva in ogni comparto), sia contingenti (i “rischi geostrategici”, ovvero la crisi ucraina e le sanzioni decise contro la Russia, che colpiscono soprattutto la prima potenza esportatrice verso Mosca. Insomma, sono una punizione soprattutto per la Germania). Se non si vedono prospettive di profitto, gli imprenditori accorciano il braccio e investono meno. Se poi ci aggiungiamo l'inflazione scesa a zero (o sotto, in molti paesi Ue), allora non c'è proprio ragione perché un capitalista normale metta in campo dei soldi. Sa bene che gliene torneranno indietro, se tutto va bene, un po' meno del versato.
Ma il problema è continentale (noi preferiamo dire: globale), al punto che la Francia – ferma per il secondo trimestre consecutivo allo zero fisso – ha già annunciato che non rispetterà gli obiettivi di bilancio fissati dall'Unione. Supererà insomma il 4% nel rapporto defcit/Pil (contrattata in precedenza e ben sopra i valori di Maastricht, inchiodati al 3%), avvicinandosi al 5. E chiede – guarda un po' - “maggiore fesibilità” nel rispetto dei trattati.
L'ignoranza economica di Matteo Renzi si è potuta così esplicitare en plain air, con tutta una serie di battutine gravitanti in zona “mal comune, mezzo gaudio”, nel tentativo di equiparare il -0,2% registrato dall'Italia nel scondo trimestre con l'analoga prestazione tedesca; oltre a pontificare sul "basta austerità" che però non trova riscontro nelle decisioni effettive del governo. Naturalmente tace sul fatto che la Germania veniva da un lungo periodo positivo (quasi 4 anni di crescita continua a ritmo a volte anche sostenuto), lo stesso in cui il Belpaese è rapidamente affondato.
Al di là delle necessità di questo attore prestato alla politica, dunque, bisogna prendere atto che non ci sono prospettive di uscita "indolore" dalla crisi esplosa nel 2007. Per qualche anno si è veleggiato nell'attesa – sempre rinviata – di “una ripresa che non poteva non arrivare”. Intanto venivano ridisegnate le filiere produttive e la divisione internazionale del lavoro, con l'Italia e altri piigs nello scomodo ruolo di “svenditori” del proprio patrimonio – produttivo e non - nel penoso tentativo di ridurre il debito dando via i gioielli di famiglia. A godere della micro-bonanza realizzata sulle disgrazie altrui, soltanto i capitali multinazionali più forti (a cominciare da quelli tedeschi, nella nostra area), senza troppe distinzioni di passaporto (vero Etihad?).
Ora il gioco è finito anche per loro.
Non sembri paradossale o annuncio di una prospettiva migliore la reazione “positiva” delle borse continentali. È da tempo che andamento borsistico (positivo e oltre ogni record immaginabile) ed economia reale viaggiano su binari divergenti. La ragione è semplice: le innumerevoli “iniezioni di liquidità” realizzate dalle banche centrali principali (soprattutto Federal Reserve, Banca del Giappone, Banca di Inghilterra, la Bce annuncia prossime mosse dello stesso tipo a giorni) sono finite nell'unico luogo in cui investitori refrattari all'investimento “fisico” potevano convogliare questa massa di liquidi: nelle borse, nella finanza ombra, nella speculazione su qualsiasi cosa purché “non reale”. Una riprova? I prezzi delle risorse naturali non riproducibili, a partire dal petrolio, non hanno subito alcuna pressione speculativa. Sono un termometro invece dello stato catalettico delle economie globali, e infatti sono fermi o in calo (contribuendo così alla deflazione generale).
Di fronte a questo sconquasso che si annuncia come definitivo, gli esponenti più rievanti della Troika – naturalmente Mario Draghi e quel curioso caso di ottusangolo geniale di nome Jens Weidmann, presidente di Bundesbank – dicono che il sistema va bene così e c'è solo da fare “riforme strutturali”. A cominciare dal mercato del lavoro e dalle pensioni.
In molti citano come esempio di “validità” di questa ricetta quello del Portogallo – spremuto come un limone, costretto a deflazionare i salari – che ha fatto registrare nel secondo trimestre una crescita dello 0,7% dopo quasi cinque anni di tracolli consecutivi. Nessuno, invece, che citi la Grecia (il paese che più di tutti ha subito la falce delle “riforme strutturali”), che nello stesso trimestre ha perso un altro 0,8%. Chissà se verrebbe incolpato il clima, anche in questo caso...

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