mercoledì 24 settembre 2014

Una torcia umana a Catania. Ovvero quando a bruciare è la nostra classe operaia di Annamaria Rivera


catania 

Sebbene Salvatore La Fata, disoccupato catanese di 56 anni, non sia la prima torcia umana a bruciare in una piazza italiana, la sua vicenda è tragicamente esemplare. A tal punto che, questa volta, anche sul versante sindacale v’è una reazione adeguata alla drammaticità dell’atto. Dopo che il circolo “Città Futura”, ben noto per l’attivismo e lo spirito libertario, aveva promosso un tempestivo sit-in di solidarietà con La Fata e di condanna del comportamento della polizia municipale, pure i sindacati catanesi si sono attivati. Venerdì 26 settembre, a una settimana dall’atto atroce di protesta, la Fillea-Cgil, la Filca-Cisl e la Feneal-Uil scenderanno in piazza insieme.
Operaio edile specializzato da escavatorista, iscritto alla Fillea e spesso partecipe d’iniziative sindacali, Salvatore La Fata era stato licenziato due anni fa. Il cantiere in cui lavorava era stato costretto a chiudere, come tanti: a Catania, riferisce la stessa Fillea, ben diecimila edili hanno perso il lavoro negli anni recenti. Per un po’ Salvatore (sposato, due figli a carico) aveva sopportato umiliazione e vergogna. Poi, pur di non stare con le mani in mano, da alcuni mesi si era messo a vendere qualcosa in piazza Risorgimento: nient’altro che due o tre cassette di olive e fichi d’india, appena venti euro di merce.
Troppo per la squadra di vigili urbani, agguerrita e ultra-motorizzata, che al mattino del 19 settembre fa irruzione in piazza. In tempi di crisi e di disperazione sociale è quel che ci vuole: non sia mai che le “classi pericolose” si mettano a far di testa loro per sbarcare il lunario, invece che sopportare pazientemente la morte civile, contribuendo così al disegno deciso in alto loco. Fuor di sarcasmo, è da notare come, parallelo allo sfacelo sociale provocato dalle politiche di austerità, vada intensificandosi un crudele accanimento repressivo contro attività informali di nessun rilievo penale, volte alla pura e semplice sopravvivenza.
Ma torniamo a quel mattino catanese. Salvatore è lì, con le sue cassette, quando i vigili urbani minacciano di multarlo e di sequestrargli la merce. Secondo dei testimoni, lui li scongiura di evitargli almeno il sequestro. I vigili lo prendono in giro e, quando lui grida che è pronto a darsi fuoco, uno degli agenti replica che lo faccia pure, ma a condizione che si sposti un po’ più in là.
Sta di fatto che nessuno di loro interviene per tutto il tempo in cui lo sventurato va a rifornirsi di carburante, torna in piazza, si cosparge di benzina e si dà fuoco. E neppure mentre è già avvolto dalle fiamme. Lo ammette implicitamente il comandante della Polizia municipale, nel tentativo di giustificare i suoi: “Se c’è stata qualche incertezza da parte dei vigili, è perché siamo impreparati a questo tipo di soccorso”.
Tuttora, mentre scrivo, Salvatore è in prognosi riservata nell’ospedale di Acireale. I suoi familiari, assistiti da un avvocato, hanno presentato un esposto alla magistratura. “Non è possibile -ha dichiarato suo fratello nel corso del sit-in di “Città Futura”- che tutto passi sotto silenzio solo perché noi siamo figli di nessuno”.
E’ quasi pleonastico osservare quanto questa storia somigli a quella di Mohammed Bouazizi, “la scintilla” della rivoluzione tunisina. Quanto sia simile, anche, alla vicenda del giovane marocchino Noureddine Adnane, morto il 19 febbraio 2011, dopo nove giorni di agonia dacché s’era dato fuoco in una piazza di Palermo: anch’egli ambulante, ma con regolare licenza, nonché permesso di soggiorno, eppure vittima di vessazioni da parte d’una “squadretta” di vigili urbani in odore di neonazismo. Peraltro, lo schema di queste due storie è del tutto sovrapponibile a quello dei casi numerosi che ho raccolto, in anni recenti, nei paesi del Maghreb, ma anche in Europa e in Israele, per il mio Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa (Dedalo, Bari 2012).
Ad accomunarne molti v’è uno stesso “dettaglio”: il comportamento arrogante, persino di sfida, delle forze dell’ordine, tale da configurarsi come vera e propria istigazione al suicidio. E in tutti i casi il suicidio per fuoco è un grido disperato di ribellione e protesta, un gesto sovversivo di sottrazione violenta del proprio corpo alla violenza del sistema, per citare Jean Baudrillard. Destinato, delle volte, a cadere nel vuoto; altre volte, come in Maghreb, a perpetuare il ciclo rivolta-immolazione-rivolta; in un caso, quello tunisino, a scatenare l’insurrezione popolare che provocherà il crollo di un regime potente, corrotto e dispotico.
Da noi, invece, c’è ancora uno iato profondo fra la drammaticità dell’autoimmolazione pubblica –atto non solo disperato, ma anche di speranza nel genere umano, in fondo – e la nostra impotenza. Da noi, non c’è alcun soggetto collettivo che rivendichi come proprio “martire” chi si è immolato e ne è morto o che sia capace di cogliere fino in fondo il nesso fra le proprie rivendicazioni e la disperazione sociale che spinge alcuni a suicidarsi in pubblico. Eppure le torce umane e più in generale i suicidi “economici” sono indizio di un conflitto sociale latente. Quello che la politica, i sindacati, perfino i movimenti non sempre sanno rendere esplicito, né sempre organizzare in forme razionali ed efficaci, tali da scongiurare il rischio che altri corpi ardano nelle piazze.
L’esempio di Catania sembra essere un’eccezione, se non una svolta. Lì i sindacati mostrano, almeno questa volta, d’essere più acuti e lungimiranti di taluni sociologi nostrani: quelli che, riposti gli strumenti del mestiere e dimenticata la lezione di Émile Durkheim, continuano pervicacemente a negare la tragica rilevanza del fenomeno, nonostante le fiamme abbaglianti che illuminano la scena pubblica.

Versione aggiornata e ampliata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 24 settembre 2014.

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