martedì 18 novembre 2014

Se questa sinistra non serve a nulla di Matteo Pucciarelli

Una volta avevo un amico, che più che altro era un amico di mia sorella, che era intrippatissimo con la politica al liceo, uno di quelli vestiti in un certo modo, con i capelli in un certo modo; organizzava le manifestazioni contro la guerra in Iraq, sempre in prima fila, lui e le sue incrollabili certezze. Mi stava anche simpatico.
Militava in un partito che si chiamava Comunisti Italiani, e allora conosceva il segretario, il presidente, il consigliere comunale della città, ed erano sempre tutti impegnatissimi in questa cosa, che poi l’impegno più che altro era parlare per ore dell’organizzazione di un convegno pallosissimo e di chi si sarebbe candidato di lì a due anni e di Gianfrancesco che stava nell’esecutivo nazionale e di Pierpaolo che prendeva pure 800 euro al mese, che culo, per seguire la Fgci nella regione dove si era trasferito.
L’ideale mi affascinava, l’impegno pure. Ma era tutto quanto troppo autocentrato, la mia organizzazione, la mia sezione, la mia vita nel partito. E gli altri? Cioè, voglio dire, i valori erano al servizio della propria capannuccia o della società nel suo complesso? A chi si stava parlando? Non capivo questo. Ma ero appena maggiorenne, era comprensibile il mio non capire.
Anni dopo, pensandomi più maturo, entrai nella sede di un partito di un quartiere popolare. Chiesi la tessera, me la diedero. Adesso cosa succede?, mi domandai. Conobbi subito questo ragazzo, anche perché era l’unico che c’era, e mi ricordava quell’amico di mia sorella. Stessi capelli, stesse magliette, stesse fisime. Ovvero: la corrente di qui, la corrente di là, il numero di delegati, la battaglia congressuale, la mozione, l’iniziativa. L’ideale mi affascinava, l’impegno pure. Ma anche stavolta: tutto troppo autocentrato. E gli altri? Cioè, voglio dire, mi ripetevo, i valori erano al servizio della propria capannuccia o della società nel suo complesso? A chi si stava parlando? Non capivo questo, e non ero più poco più che maggiorenne, ero quasi adulto. Sapevo solo che quelle discussioni erano la cosa meno attraente possibile per un qualsiasi ragazzo della mia età (e non solo).
Entrambi – non gliel’ho mai detto, ma lo sentivo – mi guardavano un po’ strano, perché ero così tiepido e poco interessato alle questioni interne da sembrare un miscredente, se raffrontato alla loro foga.
Sono passati degli altri anni ancora.
Il primo amico non fa più politica, tempo fa mi confessò di aver votato Cinque Stelle ma di essere completamente all’oscuro delle sorti dei suoi compagni di allora. Il secondo amico non fa più politica nemmeno lui, ogni tanto ci sentiamo, segue distrattamente, quando e se capita.
Il sottoscritto invece è rimasto dov’era, con la domanda inevasa: ma i valori in cui credo, e ci credo ancora oggi, anzi oggi ancora di più, come si trasformano in un progetto di società e non in una organizzazione autoreferenziale che finisca sempre e solo a parlare di sé e per sé?
La politica (a sinistra, e mi riferisco a quella sinistra) ha perso da anni un obiettivo fondamentale, che poi è forse il primo obiettivo da porsi, prima ancora di quello relativo allo stato di salute del proprio orticello e della sopravvivenza dello stesso: come si genera il consenso, come lo si mantiene, come (magari) lo si aumenta?Come si fa egemonia, come si entra nelle case della gente, nelle fabbriche, negli uffici, come si riesce a dare spiegazioni semplici a problemi certamente complessi?
Non ci sono risposte semplici, ma – se penso e se guardo da fuori le malridotte, inospitali e litigiose sigle della odierna sinistra – ripartire da una dolorosa eppure necessaria presa di coscienza rispetto alla propria sterilità, se non addirittura futilità, può essere un ottimo nuovo inizio. Perché la mia organizzazione, la mia sezione, la mia vita nel partito non servono a nulla se non hanno lo scopo di costruire un pensiero collettivo, della e per la maggioranza.

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