mercoledì 7 gennaio 2015

IL PARTITO CHE NON C’È di Piemme

Prendiamo spunto da un editoriale di Luca Ricolfi su Il Sole 24 Ore del 2 gennaio.
Non senza piaggeria Ricolfi sostiene che nei prossimi anni Matteo Renzi, “non avrà avversari”, per la sua capacità di “recitare due parti in commedia”.
«La sua politica economica, infatti, pare capace di realizzare due miracoli: recuperare, grazie al bonus, molti elettori delusi del centro sinistra, e attirare, grazie alla riduzione del costo del lavoro, molti elettori che un tempo si riconoscevano nel centro destra».
Tuttavia, sostiene Ricolfi, sulla strada di Renzi ci sarebbe un nemico potenziale, il “terzo stato”, quell’ampia fascia sociale di “esclusi” che potrebbe prima o poi trovare una sua rappresentanza politica alla sua sinistra.
Il Nostro parte dall’assunto che con la crisi economica è venuto meno il tradizionale bipolarismo sociale e politico:
«Da una parte la prima società, ovvero il mondo dei garantiti, fatto di dipendenti pubblici e occupati a tempo indeterminato delle imprese maggiori, protetti dall'articolo 18 ma anche dalle dimensioni aziendali (secondo il principio “too big to fail”). Dall’altra la seconda società, ovvero il mondo del rischio, fatto di piccole imprese, lavoratori autonomi, operai e impiegati, tutti esposti alle turbolenze del mercato e sostanzialmente privi di reti di protezione. Gli uni, i garantiti, guardavano prevalentemente a sinistra, gli altri, gli esposti al rischio, guardavano prevalentemente a destra».
Oggi c’è una “terza società”, quella che il governo Renzi [1] mostra di non volere e potere tutelare :
«Questa terza società è la società degli esclusi, o outsider, nel senso letterale di “coloro che stanno fuori”. Una sorta di Terzo Stato in versione moderna. Essa è formata innanzitutto di donne e di giovani, ma più in generale è costituita da quanti aspirano a un lavoro regolare (non importa se a tempo determinato o indeterminato), e invece si trovano in una di queste tre condizioni: occupato in nero, disoccupato, inattivo ma disponibile al lavoro. Si tratta di ben 10 milioni di persone, più o meno quanti sono i membri della società delle garanzie così come i membri della società del rischio».
Quindi Ricolfi suggerisce a Renzi, se vuole restare a lungo al governo, di correre ai ripari adottando politiche economiche a favore degli “esclusi”, per la creazione di “posti di lavoro aggiuntivi”, dati i circa sei milioni sono disoccupati. Quali siano queste politiche Ricolfi non lo dice apertamente, allude tuttavia a più sfrontate misure di tipo liberista a favore delle aziende. La solita aria fritta.

C’è invece un passaggio molto insidioso che merita quindi molta attenzione:
«Ora, il dato interessante è che, ad oggi, questo segmento della società italiana è sostanzialmente privo di rappresentanza. E lo è per una ragione economica, prima ancora che politica. L’interesse degli esclusi è diametralmente opposto a quello dei garantiti, ed è in parte diverso da quello della società del rischio».
In queste poche righe ci sono almeno quattro errori, i quali celano tuttavia il recondito disegno politico delle classi dominanti.

Il primo errore. Nella cosiddetta “società del rischio”, Ricolfi ficca dentro surrettiziamente “… piccole imprese, lavoratori autonomi, operai e impiegati, tutti esposti alle turbolenze del mercato e sostanzialmente privi di reti di protezione”. E’ la narrazione ideologica neo-corporativa per cui gli interessi di salariati sottopagati coinciderebbero con quelli dei titolari delle piccole imprese detentori di capitale, in virtù della svalutazione di quest’ultimo a causa della crisi e della globalizzazione.

Il secondo. In quale sfera sociale Ricolfi colloca la decisiva minoranza di capitalisti e rentier che detengono la maggior parte dei patrimoni? Che essi hanno anzi accresciuto a causa della depressione economica? Da sperimentato illusionista egli la fa semplicemente sparire, così da rimuovere del tutto il principale fattore di squilibrio e contraddizione sociale.

Il terzo. Ricolfi afferma in modo lapidario che “l’interesse degli esclusi”, del “terzo stato”, è diametralmente opposto a quello dei “garantiti”. Falso! Lo è semmai solo in quanto le politiche neoliberiste insistono deliberatamente proprio sulla frattura in seno alla classi proletaria, tra “garantiti” e “non garantiti”, ed anzi tendono ad aggravarla minacciosamente.

Il quarto errore infine. Non è del tutto vero che questo “terzo stato” sia del tutto privo di rappresentanza politica. Se è vero che la sinistra, nelle sue varianti, ha perso ogni contatto con esso, lo è altrettanto che l’avanzata folgorante del M5S si spiega solo a patto di riconoscere il consenso massiccio a questo venuto proprio dalla società degli “esclusi”. Quanto possa durare questo connubio è un’altra questione —poco probabilmente.

Il disegno insidioso è quello di immaginare un blocco sociale tra il “terzo stato” e quella che chiama “società del rischio”, il quale blocco, è sottinteso, dovrà stare sotto l’egida della minoranza di super-capitalisti e rentier, politicamente incardinata nei due tradizionali poli politici dominanti.

Prima di chiederci come contrastare questo disegno occorre chiedersi se esso potrà materializzarsi. Esso potrà sì inverarsi, ma non nel guscio dell’attuale assetto politico. Se come riteniamo dalla crisi è sistemica non si esce presto e comunque non senza
svolte profonde e radicali, se cioè la tendenza alla pauperizzazione di massa si acuirà, il disfacimento degli attuali equilibri sociali è ineluttabile. Come avvenne in Europa tra le due guerre un simile blocco potrà cioè affermarsi solo sulle spoglie del vigente sistema istituzionale. Potremmo avere, pur in forme inedite, una fascistizzazione sociale e istituzionale, frutto di una rivolta popolare reazionaria che vedrebbe coalizzarsi le due anime dalla destra, quella neoliberista e quella neofascista.

Questa eventualità può e dev’essere contrastata. Come? Anzitutto costruendo un fronte unico che raggruppi le disiecta membra del proletariato, anzitutto gli ancora “garantiti” con quelli che non lo sono. Solo un simile fronte potrebbe —proponendo un’uscita positiva dal marasma che implichi il totale ribaltamento della politiche liberiste— sperare di essere il perno egemonico di una più ampia alleanza con il coriandolare mondo della piccola impresa spappolato dalla crisi.

Oggi come oggi questo fronte unico appare una chimera. E lo sarà se non verrà realizzata una condizione fondamentale, quella di fondare il “partito che non c’è” ovvero, seguendo il Ricolfi, dare un’adeguata rappresentanza politica e coscienza di sé al “terzo stato”. Questo è infatti il compito principale del momento.
Senza un simile "partito" non avremo infatti nessun fronte. La sinistra tradizionale, del tutto incapace di farsi carico delle istanze radicali del "terzo stato", finirà per perdere la sua presa sul mondo degli stessi cosiddetti "garantiti". L'incapacità di liberarsi del tabù della sovranità nazionale la condanna, se non all'irrilevanza politica, ad andare rimorchio delle oligarchie euriste. Così com'è configurata, essa è addirittura un ostacolo sulla via del fronte.
Il "partito del terzo stato" non si costruirà in laboratorio, bensì nel contesto di sconquasso sociale, di instabilità politica e di conflitto degli anni che vengono. E se, come speriamo, esso prenderà corpo, dovrà trasformare il "terzo stato" da massa amorfa quale oggi è, nella forza motrice capace di aggregare un blocco sociale antagonista che sarà anche il solo baluardo per evitare una svolta reazionaria.

NOTE[1] Ricolfi scrive: «Per capire perché gli interessi del Terzo Stato non siano in cima alle preoccupazioni di questo governo, basta riflettere sulle due decisioni cruciali di allocazione delle risorse effettuate nel corso del 2014, ossia gli 80 euro in busta paga e la decontribuzione per i neo-assunti. I 10 miliardi in busta paga sono, per loro natura, una misura a favore di chi un lavoro già ce l’ha, mentre un loro impiego per investimenti pubblici, o per abbattere l’Irap, avrebbero potuto dare una mano a chi un lavoro non ce l’ha. Quanto ai 5 miliardi di decontribuzione per i neo-assunti, possono apparire un provvedimento per generare nuova occupazione, ma lo saranno solo in misura minima perché, in assenza di vincoli di addizionalità (aumento del numero di occupati rispetto all’anno prima), finiranno per essere usati soprattutto per sostituire chi va in pensione o si dimette per maternità, senza creazione di posti di lavoro aggiuntivi. Un punto, quest'ultimo, su cui le preoccupazioni di Susanna Camusso appaiono tutt’altro che ingiustificate».

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