sabato 21 marzo 2015

Il principio dell'economia è "dare lavoro"? di Clément Homs

lavoro

La chiacchiera continua sulle "opportunità di impiego", di solito proviene dal gergo dell'istituzione pubblica, oppure dalla comunicazione di un'impresa che vuole impiantarsi in un nuovo "sito". Allo stesso modo in cui Barak Obama o il "grande debito" francese, puntano sulle "fonti di occupazione" legate ad una presunta "crescita verde", anche gli ecologisti fanno un utilizzo di questo registro, promettendo che la crescita delle energie rinnovabili, insieme ad altre tecniche ambientaliste, riuscirà a portare del "buon lavoro" alla società. Questo discorso è ampiamente condiviso dal senso comune, come quando per esempio sentiamo gli abitanti della penisola del Cotentin che giustificano la presenza del principale datore di lavoro della regione - il complesso industriale nucleare dell'AREVA di La Hague - il quale crea più di 8.000 posti di lavoro diretti ed indiretti (ossia il 20% del bacino della forza lavoro del Nord Contentin): poco importano i rischi, basta che si lavori! Come dice lo slogan di non ricordo quale amministratore locale, "non si sputa nel piatto dove si mangia", quando arriva il sacrosanto lavoro, va tutto bene, poco importa il tipo di impianto, di merci fabbricate, dei guasti ambientali, dei rischi per la salute, dei ritmi suicidi del lavoro o della reputazione dell'impresa. Così il capitalismo si giustifica anche per mezzo del lavoro, dal momento che "noi creiamo posti di lavoro sul vostro territorio". Così l'economia sembra sempre avere un solo fine: dispensare graziosamente dei posti di lavoro. E visto che lavorare sembra una cosa naturale, l'economia, il suo dominio sulle nostre vite ed i suoi vincoli ci appaiono altrettanto naturali e da non mettere in discussione. Quando si tratta di "creare dei posti di lavoro", le sovvenzioni pubbliche, per le infrastrutture o per la viabilità. che servono alla manutenzione delle zone industriali o artigianali, colano a fiotti. "In questo modo, abbiamo creato centinaia di posti di lavoro" si giustifica quella o quell'altra impresa, e il sacrosanto principio di "Salvatore di posti di lavoro" appare essere la principale preoccupazione nei comunicati che servono a far passare un'operazione di licenziamenti qualificati come un "piano sociale". Anche le "imprese responsabili" e "l'economia solidale" sembrano avere come unica finalità della loro esistenza quella di dare generosamente lavoro e di far credere che in questo mondo si possa anteporre l'essere umano al denaro. Poco importa sapere quale tipo di lavoro facciamo ogni giorno, quando si immagina ancora l'esistenza del lavoro come se fosse il metabolismo naturale e sovra-storico tra l'uomo e la natura. Ma davvero lavoro e denaro sono due cose eterogenee? Quello che conta nel capitalismo, è davvero il valore, cioè a dire un sistema di riproduzione aumentato del valore? Qual è allora il tipo di lavoro che conta quando un impresa "ci dà lavoro" per creare del valore?
Il valore non consiste affatto nel lavoro umano individuale, e non è perché usiamo il più possibile di questo mondo che andiamo creare più valore. Per cui, il valore delle merci prodotte dalle multinazionali non è affatto legato al numero dei loro effettivi. Una ditta che impiega centomila persone sul pianeta, non guadagna per forza di più di una ditta che ne impiega soltanto diecimila. Inoltre, la ricchezza sociale attuale non è affatto il lavoro individuale in sé, come è stato detto a proposito del miglior artigiano che faceva il lavoro migliore. Non è perché dei lavoratori fanno del "buon lavoro" che il valore dei prodotti sarà più elevato. Ciascuno può vedere bene nel quotidiano del suo lavoro che la sua impresa se ne fotte del tutto della qualità e dell'utilità reale del bene fabbricato, o del servizio reso, e che conta soltanto un'altra cosa: il volume d'affari dell'impresa. Quindi, non è la dimensione concreta del lavoro che fa il valore, questa dimensione conta poco, o piuttosto essa conta in quanto semplice supporto concreto necessario (ma non sufficiente per poter rimanere in vigore) di un'altra dimensione che la supera e che è la sola a contare realmente. Certo, il fatto che la qualità e l'utilità reale del bene fabbricato, o del servizio, contino solo secondariamente in rapporto al volume d'affari, ci pone un problema morale personale (ed è una delle cause della sofferenza del lavoro, in quanto tocca la nostra implicazione soggettiva nel nostro mestiere, e quindi la nostra dignità morale), soprattutto quando uscendo dal sistema educativo a volte si ha la "scelta" di un settore di lavoro, e quando si fa una tale scelta per "vocazione", speranza, generosità, volontà d'aiutare, gusto, interesse intellettuale, ecc.. Eppure sappiamo che il nostro lavoro, dal punto di vista della dimensione concreta, si fa male, e che questo non era quello che avevamo immaginato all'inizio. Tuttavia, questa dimensione concreta del lavoro che è importante agli occhi di molti di noi, non conta affatto direttamente nella creazione aumentata del valore, che rimane la sola finalità della produzione dei beni sotto la forma di merci che posseggono un valore di scambio.
Per comprendere la nostra situazione sul lavoro, bisogna vedere come il valore consista piuttosto in una certa maniera di esprimere il lavoro che viene dispensato da tutta la società nel suo intero - il valore che si attaccherà alle merci - è perciò l'espressione di una determinazione completamente esterna al lavoro individuale, che non conterà più se non come lavoro sociale e come semplice ingranaggio di tale lavoro sociale. Poiché le nostre società attuali non sono più basate sul lavoro concreto e sull'effettuazione dello stesso di per sé, come ai tempi degli egizi, dei greci, dei romani o nel Medioevo, dove si creava una certa forma di ricchezza sociale - la ricchezza materiale - attraverso la messa in attività diretta del lavoro concreto, lavoro sovente dominato in maniera diretta dal detentore della forza politico-religiosa. Oggigiorno le società si fondano su un'altra dimensione del lavoro, diversa da quella del lavoro concreto. Una nuova dimensione del lavoro, che esso possiede da relativamente poco tempo, dall'apparizione del capitalismo e della sua forma di vita sociale: un lavoro che, per la prima volta nella storia, gioca di per sé un ruolo di mediazione sociale tra gli esseri. Il lavoro consiste sempre di un lato concreto (esso produce il valore d'uso di un bene), ma ormai questo lato concreto lo possiede solo come funzione di un modo per relazionarsi agli altri: è per mezzo del dispendio stesso di lavoro, sotto una forma oggettivata, che si ottiene una somma di denaro che poi permette di comprare delle merci che altri avranno fabbricato per quelli come loro che lavorano per del denaro per poter comprare..., ecc.. Questa nuova dimensione del lavoro socialmente mediante è il principio della "sintesi sociale" degli individui nelle società moderne. E' il cuore, il nucleo delle società moderne e del funzionamento del capitalismo. Chiameremo questa nuova dimensione che comprende tutto il lavoro (quello del padrone, del funzionario, del salariato, del lavoratore autonomo, ecc.): lavoro astratto. In questo senso perciò questa dimensione del lavoro, che non si vede affatto direttamente in maniera empirica (è quindi una dimensione invisibile), è l'inverso della sua dimensione concreta ed individuale.
E' allora che il lavoro individuale, nella sua esistenza e nella sua giustificazione, viene subordinato al suo altro carattere, che esso possiede simultaneamente, quel carattere di essere lavoro astratto; il lavoro individuale non esiste perciò che in quanto parte del lavoro totale astratto. Il lavoro concreto individuale è come posseduto, in senso fisico e carnale, da un'invisibilità che lo struttura e lo abita totalmente (il lavoro astratto), sebbene questo lavoro astratto (attraverso la sua determinazione temporale) si opponga all'individuo come forma di dominio impersonale ed ostile. L'individuo non conta più se non come supporto, come portatore, come creatore del lavoro astratto temporizzato, come appendice del macchinario del lavoro totale astratto che rimanda alla società dell'interdipendenza generalizzata. Ed in quanto è il solo a contare veramente nel processo di valorizzazione, questo lavoro astratto esercita una forma di dominio sul lavoro concreto, anche se lo incorpora totalmente (il tempo astratto che è la misura di questo lavoro astratto, esercita anch'esso una forma di dominio). E' il lavoro astratto che consuma l'uomo il quale non viene considerato altro che come il suo supporto, il suo portatore, la sua appendice, la cosa di cui il lavoro astratto è il vero soggetto. Noi non consumiamo le merci se non in quanto il lavoro ci ha già consumato. Poiché il lavoro ci consuma, noi non siamo che un ingranaggio (usa e getta!) nell'impotenza di questa condizione disumana dove conta soltanto il "soggetto automatico" della riproduzione aumentata del valore. E' esso il soggetto, e noi ne siamo gli oggetti, le cose, le merci. Formidabile inversione, ed inversione reale, che non ha niente di immaginario, ciascuno lo sa nella sua carne quanto la subisca. Chi non lavora, non mangia. Ed il valore non potrà mai essere misurato empiricamente per un dato individuo, poiché il vero lavoro che viene speso in quanto lavoro individuale, va a finire esternamente nel luogo fisico dell'impresa, nel compito concreto e nel comando che esegue, di cui non è altro che il supporto intercambiabile per la sua materializzazione in denaro. Dal momento che quella ricchezza sociale specifica che è il valore (che quindi non ha niente a che vedere con la ricchezza materiale) non consiste altro che nel lavoro astratto incorporato nelle merci. Ecco il solo lavoro che raggiunge il livello medio dello standard di produttività, quello che interessa veramente ad un'impresa. Un'impresa allora "salverà" dei posti di lavoro soltanto se i dipendenti accetteranno una stretta supplementare in virtù di una razionalizzazione che permetta di raggiungere il livello medio di produttività necessario alla sopravvivenza della sola vera finalità dell'impresa: fare del denaro, così come il pero fa le pere. Si dirà allora, per battere la concorrenza o per avere un momentaneo vantaggio sui rivali, "rompere l'organizzazione del lavoro per densificare la sua produttività, oppure licenziare". Il lavoro astratto, come forma di dominio impersonale e di ricchezza sociale, è la sola cosa che dev'essere creata e salvata se questo si rende possibile secondo gli standard medi di produttività e di redditività. Non è il lavoro concreto quello che un disoccupato può reclamare in una società capitalista, in quanto contano soltanto il lavoro astratto e la sua misurazione temporale, e ad essi tutto il resto è subordinato.
Quindi, il valore non è altro che una forma sociale d'organizzazione. E' la creazione di un legame sociale astratto ed esterno agli individui. Consiste del lavoro astratto, che è solamente una forma di organizzazione sociale, che appare quando il lavoro non è più solamente un'attività concreta che produce un valore d'uso, ma quando il lavoro svolge un ruolo di mediazione sociale tra gli esseri. Il carattere astratto del legame sociale, separato dagli individui e dalla vita, è diventato dappertutto realtà morbosa, tautologica e cannibale. Quello che una volta esisteva nelle società pre-capitaliste, come costrizione diretta da parte di un dominio, oggi si è radicalmente trasformato in un sistema automatico di un'indiretta messa sotto tutela, impersonale e generale, nella quale le persone alla fine non contano per niente.

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