lunedì 20 aprile 2015

Renzi sta rottamando il Pd. di Aldo Giannuli


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Il capogruppo alla Camera, Speranza, si è dimesso, la scissione incombe; Bologna i tesserati al Pd sono scesi di colpo del 25%; a Roma dilaga il fenomeno delle tessere false e, stando al rapporto di Fabrizio Barca, il partito è pieno di affaristi, trafficoni e delinquenti vari; a Napoli il trionfo regionale di De Luca sta aprendo falle molto consistenti con l’abbandono di chi non è disposto a votarlo; come peraltro in Liguria, dove le denunce di Cofferati (non raccolte da nessuno) stanno provocando uno smottamento; in Sicilia è la candidatura di un esponente di Fi, in una lista comune, a provocare dimissioni di consistenti gruppi di iscritti; in Puglia c’è protesta per la candidatura di Mele a sindaco di Carovigno. E poi gli scandali che ormai investono regolarmente uomini del Pd in compagnia di esponenti di Fi. Può bastare?
Il Pd è in preda ad una “sindrome da sfasciamento” che non potrebbe essere più evidente. Civati dice che i suoi seguaci, ormai, sono più fuori che dentro il partito. E potrebbe dirlo anche Bersani dei suoi, se avesse una qualche capacità di guardare in faccia la realtà.
Tuttavia, i sondaggi indicano ancora un partito oltre il 35% ed anche le quotazioni personali di Renzi, per quanto in declino, restano ancora alte. Come si spiega? In teoria, a dati organizzativi così desolanti dovrebbe corrispondere una severa flessione elettorale, mentre questo non si verifica, almeno per ora.
La spiegazione è complessa: in primo luogo i dissesti organizzativi si riflettono in sede elettorale solo tempo dopo e non nell’immediato. In secondo luogo gli scandali sono percepiti come questioni che riguardano il vecchio gruppo dirigente e, paradossalmente, rafforzano Renzi nel seguito d’opinione del partito, dimostrando quanto sia stato opportuno il suo arrivo.
In terzo luogo Renzi resta senza avversari: Fi è in liquidazione finale, il centro non dà ancora segni di ripresa dopo la dissoluzione di un anno fa e tanto il M5s quanto la Lega, crescono, ma non sembrano in grado di andare oltre una certa soglia. La gente deve pur votare qualcosa ed anche l’incremento dell’astensionismo non modifica le percentuali di ciascuno, perché si distribuisce in modo più o meno omogeneo. Ma queste sono le spiegazioni minori e transitorie dell’accaduto, ce ne sono di più pesanti e di più lungo periodo.
In primo luogo gli attuali episodi sono solo la manifestazione epifenomenica di processi in atto da un quarto di secolo: la marginalizzazione dei partiti, ridotti a volgari comitati elettorali e la sostituzione di essi con il rapporto diretto fra il leader e l’elettorato. Quello che produce i partiti personali. La tendenza aveva riguardato meno il Pds-Ds dove restava forte la cultura del partito sorretta da una serie di robusti organismi di fiancheggiamento (Cgil, Arci, Lega delle Cooperative ecc.), poi è scattato una adattamento all’ambiente che ha lentamente corroso quella cultura e la spinta decisiva è venuta dalla fusione con la Margherita e la nascita del Pd, un partito che, per non scontentare nessuno, ha sbiadito le rispettive culture di appartenenza per non costruirne nessuna nuova.
Poi il ciclone Renzi ha travolto quel che restava dell’antica cultura del Pci: la Cgil è stata marginalizzata e trattata a pesci in faccia, la Lega delle Cooperative è diventata sempre più in centro affaristico (e di affari non sempre profumati di bucato), il partito stesso è diventato la periferia di un sistema nel quale c’è un solo astro al centro, il leader.
Dunque, chi pensa che ci sia un automatismo fra il disfacimento organizzativo del Pd e il suo calo elettorale si disilluda: il Pd terrà elettoralmente sino a quando reggerà il feeling di Renzi con l’elettorato. Ma se Renzi dovesse “flettere” (come immaginiamo che accadrà in tempi non lunghissimi), questo non significa il ritorno del Pd al vecchio costume organizzativo, ma la sua semplice dissoluzione.
Questo spiega anche perché la cd “sinistra Pd” sia destinata alla sconfitta sin dall’inizio: loro si muovono come se fossero ancora nel Pci e pensano ad una impossibile riscossa, senza capire che ormai non è più il Partito che sceglie il leader, ma il leader che plasma il partito. La sinistra non capisce che ha una sola possibilità di sopravvivenza (anche se forse  grama): costruire un altro partito che, se non altro, ne salverebbe una certa visibilità ed un minimo di rappresentanza parlamentare, cose entrambe negate nel partito di Renzi trionfante. E se poi Renzi dovesse perdere le elezioni, non tornerebbero alla direzione del Pd perché non ci sarebbe nulla da dirigere e sarebbero travolti anche loro dal crollo.
Semmai, questa crisi organizzativa offre a Renzi un’occasione d’oro per liquidare definitivamente il Pd e costruire il suo Partito della Nazione che sarebbe una cosa completamente diversa. Diversa, non migliore.

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