giovedì 28 maggio 2015

La breve estate del keynesismo di Robert Kurz

keynes 00825255b425255dDalla coscienza infelice alla perdita della memoria collettiva della teoria economica


John Maynard Keynes (1883-1946) è stato forse uno degli uomini più interessanti del XX secolo. Come specialista della teoria del denaro e della moneta, godeva già di un'eminente reputazione fin dalla prima guerra mondiale. Ma i suoi interessi erano molto più vasti. Matematico nato, in principio guadagnò fama mondiale con il suo "Trattato sulla probabilità" (1921). Il suo vero amore, però, era la filosofia. Ma non gli venne data la possibilità di esercitare funzioni accademiche in quest'aera a Cambridge, come sperava. Si immerse nella politica, fu funzionario del Dipartimento per l'India e ebbe successo anche come economista nel settore assicurativo e in Borsa. Il suo patrimonio gli conferiva indipendenza finanziaria; mecenate artistico, è stato anche un grande collezionista. Si aggiudicò i manoscritti di Isaac Newton, li rese accessibili alla ricerca e fece anche una pubblicazione sull'argomento.

Quest'ampiezza di orizzonte intellettuale non si lasciava rinchiudere negli stretti confini di una disciplina accademica. A somiglianza di Marx, si possono trovare ad ogni passo, negli scritti di Keynes, riflessioni interdisciplinari nelle quali riaffiora l'unità fra filosofia, politica ed economia. E, tuttavia, l'economista Keynes, come egli stesso affermava, non ha mai trasgredito le frontiere della sua specialità tradizionale o della reputazione accademica della sua istituzione. In un certo qual modo, la sua opera teorica contiene un elemento di quello che Hegel ha definito "coscienza infelice". Anche la sua vita personale è segnata dai tratti di questa sfortuna. L'illustre laureato di Eton si muoveva nelle alte sfere della società ufficiale, ma aveva sposato la ballerina russa Lydia Lopokova ( e da allora si interessò molto della storia del teatro e del balletto). Correva voce che la sua indole era impregnata di forti inclinazioni omosessuali. Forse John Keynes è stato un'aquila rinchiusa in una gabbia d'oro. E forse per la sua infelicità non è stato in grado di essere un outsider ribelle.
Questo elemento di "coscienza infelice" appare anche nella sua opera principale, pubblicata nel 1936 ("Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta"), che più tardi è stata considerata come il detonatore della "rivoluzione keynesiana" per la teoria economica. Fino ad allora, prevaleva indiscusso, nella disciplina accademica, il teorema formulato da Jean-Baptiste Say (1767-1832), secondo il quale ogni offerta crea automaticamente la sua propria domanda, e l'equilibrio del mercato, in linea di principio, può essere raggiunto attraverso l'azione del mercato stesso. Say sistemizzò in tal modo un'idea fondamentale, che poteva essere già trovata negli economisti classici Adam Smith e David Ricardo. Secondo tale concezione, le disfunzioni nel mercato, le crisi e la disoccupazione sono sempre il risultato di "cause extra-economiche". Ne sono responsabili le guerre, la politica e, non ultimi, i sindacati, che presumibilmente adulterano il processo "naturale" del mercato.
Keynes è stato il primo economista a mettere seriamente in discussione le basi di questo teorema. Ma non è stato il primo teorico che lo abbia fatto; dal momento che quasi un secolo prima, Karl Marx, l'enfant terrible della scienza moderna, aveva già spiegato le crisi, non per "cause extra-economiche", ma pe le leggi stesse del modo di produzione capitalista. Marx, però, non era considerato serio; la sua teoria non aveva accesso al pantheon ufficiale e, come ebbe a sottolineare Keynes, era stata bandita dalla scienza economica come un "mondo inferiore". Così, Keynes si trovò ad assumersi l'infelice compito di formulare la critica, già formulata da tempo da un outsider, nei confronti di Say e della teoria classica, anche nell'ambito dell'economia politica accademica. La "rivoluzione keynesiana" non è stata una rivoluzione contro la teoria dominante, bensì il paradosso di una rivoluzione dello stesso establishment scientifico.
La fama di Keynes è impensabile senza la grande crisi economica mondiale del 1929-33. Quel terremoto economico scosse così profondamente la società moderna, da far vacillare gli stessi fondamenti su cui si basava l'economia classica. La "Teoria Generale" di Keynes può essere intesa come la risposta dell'economia politica accademica alla crisi economica mondiale. Keynes provò che il teorema di Say rappresenta soltanto un caso specifico e non può rivendicare una validità universale. Un equilibrio relativo del mercato è possibile anche ad un livello basso e con la diffusione su larga scala della disoccupazione. In altre parole, lo stesso mercato può portare ad una situazione in cui non si abbia una domanda sufficiente di beni di consumo e di investimenti, di modo che ci si trovi ad avere una buona parte dell'offerta sociale di forza lavoro che non incontra alcuna domanda, indipendentemente dalle attività sindacali.
Contrariamente a Marx, Keynes non intendeva riconoscere in questo fatto un qualche limite dell'economia moderna. Egli considerava possibile superare la carenza di domanda. Questo, tuttavia, non si sarebbe verificato per mezzo di semplici decisioni microeconomiche degli individui e delle imprese, ma soprattutto grazie a delle misure sul piano macroeconomico nei confronti della circolazione economica considerata come un tutto. Keynes sottolineava, in questo modo, il significato preponderante della macroeconomia che era stato trascurato dai classici. Si basava pertanto sul concetto di "reddito complessivo" economico, la cui massimizzazione, nell'economia politica inglese, era già nota prima di Keynes, e veniva designata come Welfare Economics. Keynes, però, in maniera più energica rispetto ai suoi precursori, slegò tale concetto da una semplice addizione di "redditi individuali". A partire da Keynes, il Welfare Economics acquisiva un significato del tutto nuovo, fondato su basi macroeconomiche.
Come la maggioranza dei socialisti, Keynes intendeva mobilitare anche lo Stato, come una sorta di deus ex machina, al fine di controllare la crisi economica. Ma a differenza del socialismo. non sarebbe toccato allo Stato di assumere il ruolo di "imprenditore generale", ma semmai quello di esercitare le semplici funzioni di stimolo alla domanda insufficiente attraverso delle misure macroeconomiche. Con un aumento della quantità di moneta, con la ripartizione delle entrate e con investimenti pubblici supplementari, lo Stato sarebbe stato in grado di raggiungere un tale obiettivo. Per fare sì che gli investimenti pubblici addizionali non diano luogo ad un gioco economico a somma zero, diceva Keynes, essi non devono essere finanziati da imposte supplementari, poiché in questo modo l'aumento della domanda pubblica avrebbe come effetto solo quello di strangolare la domanda privata. Lo Stato dovrebbe quindi finanziare i suoi investimenti addizionali per mezzo del deficit spending (la spesa basata sul deficit), ossia, contraendo debiti e creando moneta attraverso la banca centrale.
Keynes sosteneva di dover adottare misure statali, per quanto frivole e pericolose potessero essere. Ma per far questo, ci si poteva basare su una pratica economica che era diventata una regola nel corso della prima guerra mondiale. Il Welfare Economics fin dal suo inizio mantiene una stretta relazione con il Werfare Economics dell'economia di guerra.Il comune denominatore era il deficit spending. Fin dagli albori dell'era moderna, molti Stati si sono indebitati in tempo di guerra, una volta che le risorse regolari rastrellate per mezzo delle tasse non erano più sufficienti. Nella prima guerra mondiale, però, una tale pratica acquistò nuovi contorni, poiché i costi della guerra industrializzata avevano ecceduto ogni dimensione fino ad allora conosciuta. A quei tempi, si credeva ancora che l'enorme indebitamento statale fosse un fenomeno eccezionale di guerra. Tuttavia, sotto la pressione della crisi economica mondiale, Keynes propose di implementare il deficit spending per poter prendere in mano le redini dell'economia civile. Arrivò perfino a proporre allo Stato in crisi, nel caso si rendesse necessario, di "costruire piramidi" o di "scavare buche per poi riempirle nuovamente", al fine di suscitare una domanda addizionale. Involontariamente, provò in questo modo che l'economia moderna aveva il carattere di un assurdo fine in sé. Il consumo insensato e distruttivo delle risorse nell'industria militare di morte si ripeteva nell'economia civile, con il solo proposito di alimentare la dinamica stessa del denaro, ciecamente presupposta. Sotto questa prospettiva, ancora una volta, la teoria di Keynes rivelava una "coscienza infelice".
Il destino storico della "rivoluzione keynesiana" è stato estremamente singolare. Sia la politica economica del New Deal del presidente nordamericano Roosevelt che la dittatura fascista in Germania (risposte, entrambe, alla crisi economica mondiale) indicano una certa somiglianza con le idee di Keynes. Ma tali pratiche sono emerse in forma spontanea e pragmatica e, in ogni caso, non sono state legittimate dalla "Teoria Generale". Dopo la seconda guerra mondiale, gran parte della nuova generazione di economisti è stata influenzata da Keynes. Come contropartita, la vecchia generazione, che occupava ancora la maggioranza delle cattedre accademiche, si aggrappava con impegno alla teoria classica. Nel frattempo, tuttavia, gli stessi paladini dei classici reagivano alla crisi economica mondiale, sebbene in forma diametralmente opposta a quella di Keynes. L'economista tedesco Walter Eucken (1891-1950) riduceva la crisi al fatto che la concorrenza degli agenti economici non veniva assicurata a sufficienza, per cui il mercato poteva portare, di per sé, ai monopoli. Nella sua argomentazione, difendeva l'intervento di Stato, ma non attraverso il deficit spending sul piano macroeconomico, come in Keynes, bensì attraverso una "politica di ordinamento" istituzionale, il cui compito era quello di garantire la libera concorrenza. Tale scuola venne chiamata "neoliberismo".
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, i neoliberisti si imposero sui keynesiani. L'inaspettato boom degli anni 1950 e 1960, specialmente il "miracolo economico" tedesco, sembrava deporre contro Keynes. Il ministro tedesco dell'economia, Ludwig Erhard, una figura simbolica della prosperità del periodo, si dichiarò sostenitore della dottrina neoliberista. Ma la prosperità non aveva le sue cause in una concorrenza più libera rispetto a prima, ma nello sviluppo strutturale delle industrie centrali (produzione di automobili, frigoriferi, lavatrici, televisori, ecc.), che aveva innescato un'enorme domanda a tutti i livelli (occupazione, consumo, investimenti). Inoltre, un tale sviluppo era stato messo in movimento (quanto meno indirettamente) dall'impulso dell'economia statale. Il segnale di partenza per la corsa verso la nuova prosperità era stato dato proprio dalla Warfare Economics della Guerra di Corea, all'inizio degli anni 1950; da allora, gli Stati Uniti, in quanto polizia mondiale, perfezionarono una "economia permanente di guerra", mantenuta al costo di un continuo deficit spending.
Ma il periodo del "miracolo economico" fu solamente una breve estate siberiana della storia successiva all'epoca delle guerre mondiali. Già negli anni 1960, il tasso di crescita decrebbe nuovamente; nel decennio 1970, il mondo rivide lo spettro del 1929. Sembrava fosse arrivata l'ora del keynesismo, soprattutto perché nel frattempo i giovani economisti degli anni '40 avevano occupato posizioni di rilievo. Nei maggiori paesi occidentali, specialmente negli Stati Uniti, in Inghilterra ed in Germania, ebbe inizio un'era di politica economica keynesiana. Il deficit spending venne impiantato su grande scala come se fosse il pacemaker del capitalismo. Anche la maggioranza dei piani di sviluppo del Terzo Mondo venne approntata sotto l'influenza di Keynes.
Va detto, infelicemente, che l'estate del keynesismo fu ancora più corta dell'era della prosperità neoliberista. Lo stesso Keynes credeva che il deficit spending potesse limitarsi ad una sorta di impulso iniziale sulla dinamica interna del mercato. Ma ben presto divenne evidente che il cuore del mercato non era capace di battere senza pacemaker. Il risultato fu un'inflazione fulminea ed una crisi generalizzata delle finanze statali. Con tale nuova crisi, all'inizio degli anni 1980, il keynesismo venne definitivamente sepolto. Si confermò in tal modo la sua "coscienza infelice": per la crisi economica mondiale, era arrivato troppo tardi; nella prosperità dopo il 1950, non venne utilizzato; quando finalmente avrebbe potuto diventare il "cavaliere bianco" dell'economia, ormai era già invecchiato.
Cos'era andato storto? Keynes, così come i suoi rivali neoclassici o neoliberisti, non intendeva l'economia moderna come un processo storico (irreversibile), ma come la forma dell'esistenza di categorie economiche atemporali. Ciò è sorprendente, dal momento che già in un saggio del 1930 era stato uno dei primi a riferirsi al concetto di "disoccupazione strutturale", prevedendo che "la nostra scoperta di mezzi per economizzare lavoro progredisce sempre più rapidamente della nostra capacità di trovare nuovi posti di lavoro per la mano d'opera". Ma, poiché credeva che questa fase sarebbe stata raggiunta soltanto da allora ad un secolo, non seguì il filo del proprio ragionamento. Nella "Teoria Generale", quel che è in gioco non è il vero sviluppo strutturale del capitalismo, bensì la "psicologia degli agenti economici" atemporali e le possibili "trappole" che da questo potevano derivare per un sistema economico atemporale. Il keynesismo degli anni 1970 non fallì a causa di una politica economica "sbagliata" su questo piano atemporale, ma per il fatto che le industrie responsabili dello sviluppo storico dopo la seconda guerra mondiale erano strutturalmente esaurite.
A partire dal decennio 1980, la rivoluzione microelettronica aveva raggiunto i limiti dell'economia moderna profetizzati da Keynes nel 1930 (sebbene la sua valutazione, naturalmente, fosse inesatta). E' per questo che la sua stessa teoria ha perso ogni ragion d'essere. Questo vale anche per le misure politico-economiche che proponeva, che presuppongono economie nazionali relativamente chiuse. Keynes aveva piena coscienza di questo e aveva fatto notare i rischi di una forte espansione del mercato mondiale. Ora, a partire dalla fine del keynesismo, gli economisti soffrono della perdita di una memoria collettiva. Invece di ammettere i limiti del sistema economico moderno, hanno creato un neo-neoliberismo e sono tornati a parlare di teoria classica, da molto tempo confutata, come se la crisi economica mondiale e la crisi degli anni 1970 non ci fossero mai state. Ma chi si dimentica semplicemente della storia, invece di superarla criticamente, è condannato a sentirla sulla propria pelle più di una volta.
Pubblicato su "Folha de São Paulo" del 21.04.1996 -

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