mercoledì 6 maggio 2015

Lo strappo della scuola —  Norma Rangeri, Il manifesto

Sciopero generale. Se la piazza di S. Giovanni convocata dalla Cgil il 25 ottobre era stato il primo, vero strappo tra Renzi e una larga parte degli elettori del Pd rappresentata dal sindacato e dal largo mondo del precariato, le piazze piene contro la «buona scuola» rappresentano il secondo grande solco tra il governo e l’immensa fabbrica della scuola pubblica
Sarà per­ché ha la prof in casa (la moglie, tra i pochi inse­gnanti a non aver scio­pe­rato), o sarà per­ché aiuta la costru­zione dell’immagine pub­blica, sta di fatto che il segre­ta­rio del Pd, ancora prima di diven­tare pre­si­dente del con­si­glio girava per leo­polde e talk-show ripe­tendo che avrebbe risol­le­vato le sorti del nostro mal­con­cio paese pro­prio a comin­ciare dalla scuola.
Se ne andava a spasso per l’Italia pro­met­tendo che avrebbe dedi­cato un giorno alla set­ti­mana del suo tempo a visi­tare bimbi e mae­stri. E la tele­vi­sione gli cor­reva die­tro per incor­ni­ciare il gio­vane pre­mier accolto dalle sco­la­re­sche festanti con fiori, can­zon­cine, cori, bat­ti­mani, sven­to­lio di bandierine.
Poi di quelle visite si sono perse le tracce, i sof­fitti delle scuole hanno con­ti­nuato a crol­lare sulla testa dei ragazzi men­tre a palazzo Chigi si met­teva a punto un dise­gno di legge per una nuova, l’ennesima, riforma della scuola.
Che piace mol­tis­simo al governo e pochis­simo a inse­gnanti e stu­denti. Che la giu­di­cano una delle peg­giori degli anni recenti, al punto da riem­pire le piazze delle nostre città con uno scio­pero come non si vedeva dal 2008, dai tempi della cop­pia Gelmini-Berlusconi.
Le ragioni della pro­te­sta, paci­fica, di massa, arti­co­lata, plu­rale saranno dif­fi­cili da disin­ne­scare. Siamo solo all’inizio della mobi­li­ta­zione e a meno di con­si­de­rare gli inse­gnanti, di tutte le sigle sin­da­cali, degli ingua­ri­bili gua­sta­fe­ste che non vedono la manna di miliardi e la valanga di assun­zioni in arrivo, biso­gnerà pas­sare dalle pro­messe ai fatti. Qui non basta un voto di fidu­cia per neu­tra­liz­zare la forza di moti­va­zioni che sono mate­riali e cul­tu­rali insieme.
È un fronte che salda il disa­gio sociale di una pro­fes­sione tra le più pre­ca­riz­zate alla con­te­sta­zione di un modello azien­dale dell’apprendimento.
Il rifiuto del sim­bolo di que­sta con­tro­ri­forma ren­ziana è il pre­side tra­sfor­mato in capo azienda, una sorta di diri­gente di reparto che indi­vi­dua e sele­ziona il corpo inse­gnante più ido­neo a for­mare i ragazzi secondo i biso­gni del mer­cato. In per­fetta coe­renza con tutta la filo­so­fia poli­tica del renzismo.
Né può fun­zio­nare il gioco media­tico, rei­te­rato in que­ste ore, del «con que­sta riforma cam­bie­remo l’Italia», replica del «con que­sta legge elet­to­rale cam­bie­remo il paese», a sua volta ripe­ti­zione del «con il jobs act abbat­te­remo la disoccupazione».
Se la piazza di S. Gio­vanni con­vo­cata dalla Cgil il 25 otto­bre era stato il primo, vero strappo tra Renzi e una larga parte degli elet­tori del Pd rap­pre­sen­tata dal sin­da­cato e dal largo mondo del pre­ca­riato, le piazze piene di ieri con tutti i lavo­ra­tori e gli stu­denti in campo con­tro la «buona scuola» del pre­si­dente del con­si­glio rap­pre­sen­tano il secondo grande solco tra il governo e l’immensa fab­brica della scuola pubblica.

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