mercoledì 27 maggio 2015

MENO COSTA IL LAVORO PIÙ È BASSA LA PRODUTTIVITÀ di Vincenzo Comito -



NOTIZIE INGLESI:

NOTIZIE INGLESI:
Nell’ultimo periodo sono state pub­bli­cate diverse ricer­che inter­na­zio­nali in tema di lavoro, occu­pa­zione, pro­dut­ti­vità, che pre­sen­tano note­voli spunti di inte­resse; ne ricor­diamo qui alcune.
La prima riguarda una serie di ela­bo­ra­zioni di un cen­tro bri­tan­nico, il Niers (Natio­nal insti­tute of eco­no­mic and social research), il secondo uno stu­dio dell’Ufficio Inter­na­zio­nale del Lavoro di Gine­vra (ILO) che si inti­tola World employ­ment and social outlook 2015. Fac­ciamo men­zione anche bre­ve­mente ad un recente lavoro dell’Ocse, OECD com­pen­dium of pro­duc­ti­vity indi­ca­tors 2015.
Il Niers affronta, peral­tro limi­ta­ta­mente al caso bri­tan­nico, il cosid­detto mistero della pro­dut­ti­vità (pro­duc­ti­vity puzzle) che da diversi anni angu­stia i poli­tici e gli eco­no­mi­sti. Il secondo ci for­ni­sce delle sta­ti­sti­che che appa­iono per molti versi ter­ri­fi­canti sull’andamento dell’occupazione nel mondo.
Per la prima que­stione par­tiamo dallo stu­dio dell’Ocse. Esso ci ricorda che dopo il 2008 ( ma per la verità in molti paesi anche parec­chio prima) nella gran parte dei paesi svi­lup­pati la cre­scita della pro­dut­ti­vità del lavoro si è inde­bo­lita in maniera molto signi­fi­ca­tiva.
La que­stione non appare tra­scu­ra­bile, dal momento che gli eco­no­mi­sti ci ricor­dano che dalla sua cre­scita dipende in larga misura l’andamento più o meno posi­tivo di un’economia.
Le ana­lisi mostrano poi che il declino del feno­meno in Occi­dente ha una dop­pia fac­ciata: esso è infatti da col­le­gare sia ad un ral­len­ta­mento dei nuovi inve­sti­menti, che al basso livello di effi­cienza pro­dotto da tali investimenti.
Sono state avan­zate a pro­po­sito di tale anda­mento nega­tivo diverse spie­ga­zioni, ma nes­suna suf­fi­cien­te­mente con­vin­cente.
Ma ecco che ora il Niers avanza una nuova ipo­tesi, almeno con rife­ri­mento alle vicende della Gran Bre­ta­gna, ipo­tesi che sem­bra aprire una pista inte­res­sante da esplo­rare ulte­rior­mente anche per altri paesi.
Nella sostanza la causa più cre­di­bile del cat­tivo anda­mento della pro­dut­ti­vità per l’istituto citato è costi­tuita dal costo estre­ma­mente basso del lavoro. Lo stu­dio ricorda che nel cuore della crisi la poli­tica mone­ta­ria bri­tan­nica è inter­ve­nuta, tra l’altro, facendo cre­scere for­te­mente l’inflazione al fine di ridurre i salari reali. Così le remu­ne­ra­zioni più basse sono state ripor­tate al livello in cui si tro­va­vano qua­ranta anni fa. Con un tale costo del lavoro non è più neces­sa­rio per le imprese, afferma il Niers, fare degli sforzi per inve­stire o per otti­miz­zare l’organizzazione del lavoro al fine di fare dei pro­fitti; que­sti ven­gono quasi da sé.
Si può aggiun­gere che a con­clu­sioni simili, rela­tive ad una rile­vante ero­sione dei livelli sala­riali, si può arri­vare per tutti i prin­ci­pali paesi occi­den­tali, anche se tale risul­tato è stato otte­nuto altrove per vie dif­fe­renti da quelle dell’inflazione.
E veniamo allo stu­dio dell’Ilo, che fa rife­ri­mento ad un’analisi glo­bale delle ten­denze del lavoro. Esso stima intanto che nel 2014 il numero dei disoc­cu­pati a livello mon­diale ha rag­giunto i 201 milioni di unità, 30 milioni in più di prima dello scop­pio della crisi nel 2008. Inol­tre, oggi l’impiego sala­riato, ci ricorda sem­pre l’Ilo, tocca ormai sol­tanto il 50% del lavoro, men­tre il restante 50% è affi­dato sostan­zial­mente all’autoimpiego. Dei lavo­ra­tori sala­riati, poi, meno del 40% è occu­pato in lavori per­ma­nenti e a tempo pieno, con una ten­denza ad un’ulteriore dimi­nu­zione del feno­meno. Quindi alla fine solo il 20% degli occu­pati ha un impiego sta­bile e in qual­che modo pro­tetto. Le donne sono rap­pre­sen­tate in maniera molto più che pro­por­zio­nale degli uomini nei lavori tem­po­ra­nei e a tempo parziale.
Que­ste tra­sfor­ma­zioni nel lavoro stanno ovvia­mente avendo impor­tanti riper­cus­sioni eco­no­mi­che e sociali. Una con­se­guenza per lo stu­dio è quella della carenza di domanda aggre­gata, che per­si­ste dai giorni della crisi e che tende a depri­mere l’economia. Inol­tre, il muta­mento nella rela­zioni di lavoro sta facendo cre­scere le dise­gua­glianze di red­dito, la povertà e l’esclusione sociale.
Tra le rac­co­man­da­zioni dell’istituto a fronte di tali muta­menti c’è quella rivolta ai governi, cui viene chie­sto di non pro­muo­vere, come peral­tro appare giu­sto, sol­tanto la tran­si­zione dalle forme di lavoro pre­ca­rie all’impiego a tempo pieno, ma anche di assi­cu­rare una ade­guata pro­te­zione ai lavo­ra­tori in tutte le forme di occu­pa­zione, anche in quelle pre­ca­rie.
Il rap­porto sot­to­li­nea poi, dul­cis in fundo ( o in cauda vene­num?), che le cifre mostrano come ridu­cendo il livello di pro­te­zione dei lavo­ra­tori non si riduce anche quello della disoc­cu­pa­zione. Si otten­gono invece risul­tati con­tro­pro­du­centi sia per il livello dell’occupazione che per il tasso di par­te­ci­pa­zione al mer­cato del lavoro. Ogni rife­ri­mento al job act di Renzi appare ovvia­mente del tutto casuale.
da il manifesto del 26 maggio 2015

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